La candida diva

../XXXIV ../Conclusione IncludiIntestazione 8 settembre 2017 75% Da definire

XXXIV Conclusione
[p. 223 modifica]

XXXV

LA CANDIDA DIVA


E
il mio letto è pronto?

— Il vostro letto è pronto, o signore.

Quanto lo abbiamo desiderato! Poseremo alfine nel nostro caro dolce letto. Nel dolce caro letto riposiamo, nel letto dei padri, nella casa dei padri.

— Riposate, mio signore — , disse il servo, — i vostri occhi sono stanchi.

— Ho molto vegliato, infatti. Ora est tempus dormiendi. Quiescimus, quiescemus, requiescemus in pace: dulci acquiescimus lecto. Dopo tanto travaglio per terre e per mari, requiescat Catullus in pace. Finalmente! Oh, come si sta bene!

E l’anima di Catullo era piena di piacevoli imagini quasi infantili, un po’ folli (ma questo era suo costume e non se lo poteva levare); ma non inoneste, non spiacevoli.

Una voce gli cantava la ninna nanna cosi: «Catullo, faremo un annuncio per il pubblico per fargli sapere che Catullo è diventato savio, anzi savissimo».

«Che bella cosa aver messo giudizio! Ma [p. 224 modifica] non per questo noi domanderemo di sedere nel congresso dei gran personaggi che si vantano di avere giudizio.»

Si vedeva la luna. Era quella che splendeva in Bitinia? Che ne dite? È luna crescente? È luna calante?

Il lago non rideva più, non sospirava nemmeno. La luna era tramontata come nella canzone di Saffo. Le stelle del cielo trapuntavano il lago.

Che bel dormire! E in pace dormire!

Si addormentò infine, e gli parve aver fatto lunghissimo sonno, quando si destò. Oppure era stato destato nel sonno?

Fuori della finestra il cielo appariva di un lieve chiarore di perla. Era appena la pavida luce dell’alba che assai presto, assai presto, sul finire del maggio o al principiare del giugno, si sveglia per venire ad aprire le finestre del cielo per il sole che arriva.

Un lieve rumore lontano lo cullava come la melodia dei rosignoli nel mese di maggio, e cosi dolcemente che quasi si riaddormentava.

Quel rumore si avvicinava. Distinse uno scricchiolio lieve, poi più forte, più forte. Stette in ascolto: riconobbe quel suono. Il cuore gli si mosse e tremò. Balzò!

Era il sandalo d’oro di lei.

Un gran biancore, una forma feminea [p. 225 modifica] apparve sul limitare, con una lampada in mano. Era colei che lui chiamò mia luce, mia venerabile Dea, e lui non si meravigliò nel vederla. Non era più ìa donna solare. Il lume lunare gli richiamò la onnipotente Hecate.

La voce di lei era dolce e lontana:

— Dall'Appia via dove stanno allineate le tombe degli avi, io vengo a ritrovarti.

Allora parve a lui di volersi alzare per seguirla come quando gioiosi soli risplendettero per lui, e lui la seguiva, e lei lo conduceva dove lei voleva.

Il volto di lei si appressò al volto di lui.

Egli disse:

— Così bianca voi siete che morta parete. Pallida come Mnesarete eravate: ma questo è un altro pallore.

La mano gelida di lei appena lo sfiorò.

— Ma quegli occhi, quegli occhi perché cosi rovesciati? I vostri grandi occhi sono di vetro.

Ora lei fuggiva con un piccolo ridere folle. E lui la seguiva. Attraversò tutta la casa, discese dalle scalee, arrivò in riva al lago dove stava il fasello. Ma già il fasello aveva levato la leva, e come ali tese stavano pronti i remi. I due nocchieri del cielo, Castore e Polluce, vigilavano a prora.

Snella la dama bianca montò sul fasello. [p. 226 modifica]— Andiamo via di qua? Eja, Camilo, è l’ora! Hora sine dolore. Si salpa, Catullo. Catullo, fanciullo. Strade molte, strade varie! Chi dalla terra materna parti, nella terra materna ritornerà.

Allora il sole fiammeggiò.


Il libro delle Metamorfosi di Ovidio non è poi cosi folle come si crede. Lì è detto che Camilo fu veduto negli Elisi beati con le tempie incoronate dall’edera della giovinezza, e che Clodia, per tanto pregare di lui, fu trasformata in Lesbia. È diventata proba e pudica, mette in ordine i codicilli del suo poeta. I vecchioni severi non ci trovano nulla da dire a quelle lepidezze, a quelle amarezze. Anche Cesare ascolta la canzone di Settimillo che tiene su le ginocchia la dolce Acmene.

Noi cosi imaginiamo e vogliamo imaginare che i morti, se non tutti, qualcheduno, qualche volta, risponda.

Bellaria, ottobre 1936.