Il bacio di Lesbia/XXV
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XXV
INTERMEZZO DELLA LUNA
E DEL SOLE
Era un’alba silenziosa di quest’agosto e la luna discendeva verso occidente. Luna crescente o luna calante? Il cielo era di una gran chiarità: e come ricamo di perle si disegnarono nel cielo quelle strofette di lui in lode della luna che cominciano: «Noi siamo in fede a Diana», e poi la chiama regina delle cose create: le selve, i fiumi, i mari dove l’uomo non appare. È come una preghiera di infante innocente.
Un rosignolo tardivo faceva accompagnamento, dalla selvetta, a quei versi.
Come mi si erano confusi i tempi, cosi mi si confusero le età. Età pagana? Età cristiana?
Erano sei strofette di versetti brevi brevi che dicevano: «Noi siamo in fede a Diana, noi fanciulle e fanciulli integri. Noi fanciulle e fanciulli integri, te preghiamo, o Diana. O grande figlia di Dio, presso un olivo ti depose tua madre affinché tu fossi signora dei monti, delle selve virenti, delle campagne remote, dei fiumi sonanti».
Doveva essere una di quelle preghiere che si cantavano nel sesto mese, che era appunto il mese d’agosto, quando la luna è più bella.
Ma forse perché quei versetti facevano assonanza, Silvarumque virentium, Saltuumque reconditorum, Amniumque sonantum, ecco mi vennero in mente quelle rogazioni che le genti delle campagne fanno ancora al tempo dell’Ascensa per ottenere buoni raccolti. Probabilmente era ancora un effetto di Diana che si trasmutava in quei versetti: diventava Eileitia, o Ilitia, che aiutava i raccolti umani e assisteva le puerpere a partorire, e poi con il suo corso mensile aiutava i contadini per le opere e i raccolti della terra, e infine li raccoglieva tutti gli uomini e li conduceva nella casa dei morti dove lei era la regina.
Niente, dunque, luna romantica! Niente luna, prima tappa per i nostri astronauti!
Quale confusione nella mia mente!
Oh, io dico che è cosa deplorevole stare insieme con certi poeti!
Non si sta più nemmeno attenti al parlatore della radio, che conta i minuti secondi e dice: «Attenzione! Comincia l’orchestra del piccone». La luna impallidiva un poco per volta, ed ecco, dall’altra parte dell’emisfero, alzò la sua faccia il sole.
L’incantesimo, che era grande con la luna, diventò anche più grande con il sole. L’usignolo che era solo, si accompagnò con gli altri uccellini, e con tutti i passerotti che si erano svegliati. Poi, o folgorasse il sole nascente dal mare, o le opere degli uomini dei campi cominciassero, un organo come in un tempio alzò le sue voci: timballi e sistri in gran tripudio si udirono: Hymen o Hymeneae, Hymen ades, o Hymeneae!
Agitate le fiaccole della vita. Un gran sacramento si compie.
Una voce, come un a solo religioso cantò così:
«Come sorge il fiore nei ben cintati giardini, e le greggi non sanno dov’è, e l’aratro non lo recide, e le aurette lo accarezzano, e il sole lo rinforza, e le pioggerelle lo alimentano: il suo profumo tutti lo sentono e intorno si spande. Donzellette e fanciulle lo vogliono il bel fiore. Ahimè, appena l’unghia ne stacca lo stelo, esso sfiorisce. Tale è la purità della donna».
Ma questo —, dissi fra me —, è ancora Catullo! Quale strano poeta! Egli scrisse versi con parole invereconde e non trasportabili nei nostri educati linguaggi ed egli pure elevò questo giglio in onore della purità della donna.
Scusate, signor Lodovico, — andavo dicendo fra me —, quando voi avete scritto:
La verginella è simile alla rosa |
avete derivato da Catullo una bella ottava, ma i versi di Catullo «ut flos in saeptis secretus nascitur hortis», è un’altra musica.
Allora (come la cosa avvenisse nella primavera della mia prima vita, in una piccola scuola a gradinate, con pochi scolari, fra cui due pretini, e tre giovani donne. Una piccola scuola di letteratura in Bologna: ma sopra la cattedra, come in trono, c’era un grande maestro.
Come e perché non ricordo, ma ricordo che ci fu un giorno che la bocca del maestro si apri, e una voce, che era bronzo e oro, cantò: e pareva un Dio pagano.
Collis o Heliconei |
E poi:
Cinge tempora flòribus |
«Cingi le tempie di maggiorana odorosa! Vieni o sposa novella! Discende il vespero ormai; sollevate, o giovani, le fiaccole. Vedi le fiaccole che agitano la grande chioma? Ecco appare il manto splendido, ecco, color di fiamma è il manto della sposa. Io Hymen Hymeneae, io, io Hymen Hymeneae».
Era ancora Catullo!
Che ne sapevamo noi, scolari quasi innocenti, di quell’antico poeta latino?
Il maestro che cantava quel gran canto, era Giosue Carducci; e quello era un canto nuziale che Catullo compose per le nozze di un suo amico che si chiamava Manlio Torquato, e la sposa si chiamava Vinia Aurunculeja.
Il maestro continuava:
«Vieni, sposa novella, prodeas nova nupta. Con buon augurio salta col piè leggiadro il limitare. Amatevi o giovani sposi, come vi piace, e presto fate figliuoli. Non va bene che cosi nobile stirpe rimanga senza discendenza, ma sempre deve la casa coi nuovi virgulti germogliare. Non ha confine l’amore, finché arriva la bianca vecchiaia che col tremolio delle tempie tutto comprende, tutto perdona».
No, non sfiorisce il fiore della rosa se il giusto amore lo coglie: si rinnova nelle generazioni; un bimbo è nato e sorride al genitore dal grembo materno. Poi la voce del maestro tremò quando disse: «Io voglio, o Torquato, che un bambinello dai grembo della mamma tenda a te le manine e ti sorrida coi labbruzzi appena aperti. Oh, sia simile al padre suo, e chi non lo conosce dica: è proprio il figliolo di Torquato. E il volto innocente dimostri la pudicizia materna».
D’improvviso la voce del maestro si tacque, e noi lo vedemmo scendere giù dalla cattedra. La sua nobile fronte era posata alla vetriata contro cui batteva la pioggia. La testa di lui aveva un movimento sconsolato. Si fece silenzio nella piccola scuola. E allora, in quel silenzio, una di quelle giovani donne mormorò:
— Gli viene a mente il figlio morto.