Il bacio di Lesbia/XV
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XV
I MISTERI PROFANATI
Quelli che insegnano la storia delle religioni sanno che cosa erano questi misteri. Sono cerimonie con riti, segni, simboli strani, sotto i quali si nasconde una verità, quae vera est, quia incredibile est: ma è inutile spiegarla al popolo che non ne capirebbe niente, dato che gli stessi sacerdoti ne vedono appena l’ombra attraverso quei riti e simboli. I misteri erano celebrati nei templi con grandi tenebre e scarsa ma sacra luce, quale è l’olio d’oliva, quale è la cera vergine delle api. Non vi interviene il volgo, ma soltanto quelli che sono iniziati; perciò i latini chiamarono «profani» quelli che erano fuori del fanum, cioè del tempio dove si celebravano i misteri.
Ma chi era, cos’era questa Bona Dea della quale Roma stessa perdette poi quasi la ricordanza? Essa fu la moglie di Giano, l’italo Dio da cui nacque l’itala gente, e secondo altri fu la moglie di Numa, il re sacerdote e legislatore sacro di Roma. Certo fu donna di tale virtù che non vide né conobbe altro uomo che suo marito.
Dunque la Bona Dea era il simbolo di quella pudicizia feminile da cui, secondo alcuni filosofi, hanno poi origine quelle virtù virili che rendono grandi popoli e nazioni.
Come fra i monaci del monte Athos, creatura feminile, né umana, né animale può penetrare, cosi creatura maschile non poteva penetrare nel tempio della Bona Dea. Il tempio, in quel maggio, era la casa stessa del Pontefice Massimo. Pontefice Massimo era Cesare; ma in quel giorno nemmeno lui poteva entrare in casa sua.
Ghirlande di fiori ornavano la casa; un fiore era precluso: il mirto che è sacro a Venere. Sacre danze si danzavano, ma l’orchestra era formata da donne flautiste e citarede. Le vestali in primo luogo e poi le più venerande matrone partecipavano a questo mistero. E siccome la danza deve essere folle per essere vera danza, tanto quando è sacra, tanto quando è profana, cosi rari vini, in anfore e crateri spumeggianti, si offrivano per la eccitazione e convulsione di quelle dame. Ma il vino serve anche alla eccitazione di Venere; perciò vino era, ma era chiamato latte. Fu cosi che in quella testa sventata di Clodio era nata l’idea di introdursi nella casa di Cesare, e la cetra della sorella gli suggerì il travestimento. Una volta entrato nell’ovile delle agnelle, ci avrebbe pensato lui al da farsi.
L’idea era grandiosa.
Ma la saggia Clodia ricordava al fratello come Alcibiade, non meno bello e potente di lui, per il solo sospetto di avere profanato i misteri di Eieusi, ebbe tronca tutta la sua carriera politica.
Nella casa di Clodio, Clodia guarda il fratello e dice:
— È inutile rasoio o cerussa.
Gli slacciò la cinta dal pugnale, gli gettò in dosso la sua clamide, lo drappeggiò, gli allacciò i calzari d’oro, gli arricciò la chioma. Lo rimirò, meravigliò. I vestiti di lei andavano bene per lui.
E stette pensosa, poi disse:
— Come sei bello! Mi piaci. — E gli porse la propria cetra.
— Ora va, ragazzaccio.
— Un momento! — E lo richiamò.
— A stare tutto il giorno, come tu stai, con quei galantuomini, ti si è attaccato un odorino di selvatico e di caprino. Non vorrei che qualche matrona di olfatto fino ti riconoscesse a naso. E lo spruzzò di essenze orientali: non quelle segrete del suo nartecio.
— Clodio, Clodio mio, — gli mandò dietro ridendo —: una delle prime cose che tu devi fare, quando sarai padrone di Roma, è di profumare il popolo.
E Clodio entrò nella casa di Cesare e non fu riconosciuto per uomo.
Dunque Clodio era efebico come Dioniso, come Apolline dove le due nature sono congiunte a maggior perfezione. Non era come quei legionarii, quei gladiatori romani a cui gli scultori fanno fasci di muscoli credendo farli più romani.
Se Clodia gli assomigliava, era dunque anche lei efebica e androgina. Certo era di strana perfezione perché altrimenti Catullo non avrebbe trovato da criticare tutte le altre donne per lodare lei sola. Era ella come i nostri angeli, che pure essendo maschi, hanno grazia e mollezza feminile.
Ma non appena partito fu Clodio, Clodia si riscosse. Giacevano a terra il sago, il pugnale, i calzari del fratello. Si spogliò Clodia dei suoi abiti, indossò quelli. Si copri di una paenula da viaggio che tutta l’avvolgeva, nascose la chioma sotto un largo petaso, chiamò un servo. S’avvide che costui, guardandola, stupì e non fe’ motto.
— Presto, la rheda, — disse Clodia —, e due cavalli dei migliori. E ricordati che tu sei muto!
A corsa disperata usci di Roma per porta Capena. L’auriga al comando di lei staffilava i corsieri per la via Appia. Di fuga attraversò Velletri e Formia. Tutti i clienti salutavano al passaggio di Clodia che pareva Clodio.
La saggia sorella preparava, per ogni buon conto, un alibi per il fratello.
Soltanto, quando passò per Boville, a lei sembrò, per strana premonizione, che il sole, tramontante nel mare, tingesse tutto di sangue.