Satire e Pasquinate

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XII XIV
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XIII

SATIRE E PASQUINATE


S
e Clodio era un passionale, Catullo era un suggestionabile. Bastava poco, una perturbazione, un sospetto, una speranza perché le nubi della poesia si formassero e si agitassero sopra la vetta del suo cervello; ed è cosi che vennero fuori due poesie, tutte e due brevi come un temporale d’estate. Una poesia è in verso giàmbico, e l’altra in verso falècio. Tutte e due molto feroci. E dài ancora contro Mamurra, con in più Cesare e Pompeo.

L’educazione della nostra civiltà non permette di riportare le brutte parole di Catullo contro certe deplorabili abitudini del genere maschile con il genere maschile, alle quali pare che gli antichi non attribuissero eccessiva importanza.

Finché Catullo dice di Mamurra: «Es impudicus et vorax et aleo», vada pure; ma dire «voi suocero e genero» avete fatte tante guerre e guadagnato tesori, e ora date la caccia alla ricchezza privata per fare i generosi come fanno i ladri, è cosa che offende la storia se si pensi che Cesare nel suo testamento lasciò tutto al popolo. [p. 112 modifica]Ed è anche ingenuità, perché, ad eccezione di qualche santo, le cose mondane non sono andate avanti senza il lubrificante dell’oro o suoi equivalenti.

Ad onore di Catullo, credo che non avrebbe scritto quelle esorbitanze senza la perfidia di Clodio e la suggestione della sua Dea.

Ma si sa. I poeti, anche i meno vanitosi, sono come le donne: quando hanno partorito una creatura non possono fare a meno di farla vedere.

Perciò Catullo lesse quelle due poesie a Clodia, e lei gli strappò di mano i due codicilli; e il fratello, uomo senza scrupoli, ci pensò lui a diffonderli.

Qualcuno potrà anche domandare come, anche in Roma republicana, si potessero pubblicare libelli che oggi porterebbero a una querela con condanna e risarcimento dei danni.

Una risposta potrebbe essere questa: che simili satire o mimi erano tradizionali: qualcosa di buffonesco per tenere allegro il popolino: populi comodo, come poi furono le «pasquinate» al tempo dei Papi.

Satira o sàtura, anzi, voleva dire una specie di pietanza nazionale di varii ingredienti canaglieschi.

Inutile dire che queste personalità a me non piacciono niente, e se dovessi esprimere un’ [p. 113 modifica] opinione, sarebbe quella di Padre Cristoforo che voleva «che non vi fossero né sfide, né portatori di sfide, né bastonate».

Però non è possibile tacere una suprema meravigliosa ingiuria di Catullo contro Cesare, contenuta appunto in una di quelle satire, ed è quando lo chiama «imperàtor unice».