Il bacio di Lesbia/La modernità di Panzini

Francesco Flora - La modernità di Panzini

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Francesco Flora - La modernità di Panzini
Indice
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FRANCESCO FLORA

STORIA DELLA LETTERATURA

ITALIANA


Dopo la mirabili costruzione di Francesco De Sanctis, i questa la prima storia della letteratura italiana che segni un punto veramente fondamentale nella nostra cultura. Francesco Flora ha rivissuto otto secoli di evoluzione letteraria italiana e ne ha ricavato una sintesi le cui conclusioni derivano da un personale ripensamento di quanto la critica è venuta elaborando nei tempi attorno ai singoli scrittori. Questa edizione è stata raccolta in cinque volumi per renderla più rispondente alla suddivisione della materia. Rilegata in tutta tela con impressioni in oro e sopracoperta a quattro colori, è stata arricchita da un gran numero di illustrazioni in nero e a colori, scelte fra le più significative espressioni dell’arte italiana di ogni secolo. Essa ha accresciuto così il suo pregio e l’eminente significato che tiene alla cultura.


Vol. I: Dal Medio Evo alla fine del Quattrocento - Vol. II: Il Cinquecento e il Seicento - Vol. III: Il Settecento - Vol. IV: L’Ottocento - Vol. V: Il Novecento, a cura di Luciano Nicastro. L’opera consta complessivamente di 2608 pagine ed è corredata da 79 tavole in rotocalco a 4 colori. Ogni volume contiene inoltre una tabella sinottica e un’ampia bibliografia. - Dal V volume II Novecento riportiamo alcuni brani sull’opera di Alfredo Panzini:

LA MODERNITÀ DI PANZINI

Se l’Acri cercò di scrivere con la finezza linguistica del Trecento, Alfredo Panzini volle invece che il suo stile, il quale incide come in un prezioso metallo anche il più lieve respiro del periodo, si servisse di neologismi senza alterare la delicata linea della lingua italiana. Perché respingere le parole nuove che sono sorte con le cose nuove? Nel tempo della radio-diffusione il vocabolo puro è soltanto quello appropriato; e se in principio non par piacevole, con l’uso se ne scopre la bellezza.

Dei termini e delle frasi che caratterizzano la nostra epoca il Panzini coglie i modi originali come segni [p. 232 modifica] incancellabili di vita, liberandoli dagli intralci dell’uso ordinario e mettendone in evidenza il lato rappresentativo. Nelle sue pagine il nuovo dell’espressione non è confuso con il deforme e nella scelta del vocabolo si sente la vitalità del popolo a cui sono affidati l’arricchimento e la difesa della lingua.

Questa attualità non implica l’abolizione del classico, al quale invece, con il suo umore o con malizia sorridente, Alfredo Panzini ama non poche volte riferirsi per interpretare e trasfigurare la realtà moderna. Ricordate il personaggio del Mondo è rotondo, quel Beatus che si rifugia nel gabinetto di un vagone ferroviario, ove in tempo di guerra l’acqua del temporale gocciola sul capo dei viaggiatori, come dalla volta di un’umida caverna? Beatus si avvicina ai rubinetti e pensa che in tempo di pace essi versavano «con cortesia» ed in tutte le lingue: warm, kalt, acqua fredda e calda «come la fonte presso Troia».

In un altro romanzo è il nome di Berenice, caro alla poesia antica, che fa scoprir la chioma leggera e viva di una fanciulla: «I capelli di lei, appena la mano li lisciava, si ravvolgevano in su da per loro come fossero stati di elastico; e bastava poi che ella avesse dato ai capelli un piccolo colpo della mano, perché essi, tutti ubbidienti, andassero ad attorcigliarsi attorno alla nuca, come una serpe che si rinserri misteriosa entro le sue spire». Cosi nel gusto del reale hai anche il gusto di una cultura che appartiene (e il futurismo la proclamava morta!) proprio alla scuola. Ma non a quel mondo chiuso e ristretto ove per quarant’anni di carriera professorale al nostro scrittore è parso di vivere, simile a un farmacista o ad un droghiere, dentro una botteguccia oscura. Questa scuola fu passata in novella per l’appunto dal Panzini ed ispirò il racconto «Le ostriche di San Damiano», in cui al severo insegnante, si rendono onori inattesi e si attestano perfino obblighi di riconoscenza dall’alunno che egli ha bocciato. La vera scuola noi l’abbiamo veduta sul colle dell’Osservanza ed è presentata nelle pagine che [p. 233 modifica] rievocano il ginnasio di Castellammare di Stabia, dove il Panzini poteva far tutto a suo modo, spiegare il De bello gallico, pigliare un film dal latino nudo e serrato di Cesare e svilupparlo sullo schermo della immaginativa dei discepoli. E che viaggi, quali palpiti in quelle lezioni! («Divus Julius Caesar, suoni di liuti e di tube giungono ancora a noi da quelle tue favolose imprese, e il nostro cuore palpita di antica passione»). Poi, per passar mattana e vincere malinconia, il bidello gli faceva trovare un ciucciariello sellato: «uno per me, e uno per lui, e cosi andavamo in quei troppo ai miei occhi smaglianti tramonti, lungo quel troppo azzurro Mare Tirreno, a Vico, a Sorrento, o su a Quisisana e a Gragnano, dove rivedo ancora i festoni degli spaghetti, e delle lasagne ad asciugare per le vie, e il rubino saporitissimo: io don Chisciotte e il bidello Sancio».

Dei reisebilder panziniani, che cominciano nelle Piccole storie del mondo grande e si perfezionano ne La lanterna di Diogene e nel Viaggio di un povero letterato, il più noto è il secondo. Comparve nel 1909 ed insieme con le Faville di Gabriele d’Annunzio diede i primi saggi del lirismo frammentario che fu più tardi il genere preferito dagli scrittori nuovi, i quali cercarono la poesia soltanto nell’attimo e nell’impressione. Il frammento del Panzini non rinnega l’umanità del Carducci, ma resta a fiore di quel panismo che sente l’universo come il gran tutto in cui rientrerà la nostra vita operosa:

Il mare vicino faceva anelare i pioppi stormendo, come un respiro fresco dopo l’afa diurna. Sentii il colore della luce, calda come d’oriente, che il sole dona con speciale munificenza a quell’angolo ignoto di terra, e mi sorrise l’illusione che essa debba arrivare anche a quelli che giacciono sotto terra, e le tenebre ne siano consolate: mi parve (o sogno, dono di Dio!) che riposando un di sotto quelle glebe natie, udrò ancora il susurro del mare.

Anziché la sensazione spoglia e la parola viva e aderente che ritrae le cose con gioia pittorica, hai qui il subito risolversi dell’armonia del periodo in un ritmo puro e universo che segna i vari momenti dell’ [p. 234 modifica] emozione, mentre le immagini riescono di una nettezza rappresentativa e di suoni via via più nuova.

Ecco un meriggio:

Il ponte di ferro sospeso sopra il piccolo fiume dal nome glorioso, proiettava dalla parte del mare una fredda ombra. Sotto il ponte, in quell’ombra, l’organetto riposava. Esso era sospeso per le cinghie ad un carrettino a quattro piccole ruote e attaccato v’era un asinelio. L’asinelio aveva declinate le orecchie e dormiva. La donna del vagabondo organista, sdraiata sull’erba, dormiva; disteso supino l’organista dormiva e il suo volto riarso era rivolto alla tenue brezza marina. Una bizzarra linea geometrica, cadendo giù dal ponte e dallo spaldo, divideva nettamente l’ombra dalla luce. Su questa luce il gran pittore del mondo infondeva ardenti tinte di croco e d’oro, preparando la tavolozza del vespero: su quell’ombra sorvolò un brivido di frescura, che si propagò per le erbe e per le chiome dei tamarischi, onde parevano svegliarsi. Le lunghe orecchie dell’asino declinavano sempre più e parevano due indici dell’interminabile tempo. Ma se le erbe si erano svegliate, nessuno dei tre si svegliò: nessun rumore umano diede segno all’intorno che il tempo della siesta fosse per finire.

Né si dimentichi quest’altro paesaggio marino:

[Il mare] era verde e livido pili che azzurro, e sotto l’impulso del gran vento di levante, quel piano unito si rompeva in lunghe file di schiume bianche, che ricadevano con fragore di armi guerriere.

La luna pendeva pallida su dal cielo. Verso occidente ii cielo era di fiamma. V’era nell’aria la lucentezza livida di un temporale lontano.

E troverà il Panzini un particolare accento per la voce del rospo che «suona nell’aria calma come una pura campana di cristallo»; o per il mormorare della fontana nella solitudine ombrosa: «essa nella sera faceva cadere le liquide perle entro la conca di pietra, armoniose come un canto domestico». E dirà che la mano della monaca è «trasparente e pingue come un chicco di uva malvasia», ma scoprirà eteree immagini, che impegnano lo spirito, parlando della Madonna bizantina la quale «pareva come il simbolo di una gran forza cosmica, qualcosa come la luna, che è armonica e disarmonica insieme: qualcosa che vince la morte». [p. 235 modifica] Questa lirica ha però la durata dell’onda che, appena è alta e splendida, volge alla riva. La sua riva, cioè la prosa, è costituita dall’umorismo che in poche righe mette in fila, per esempio (vedi il i° cap. di Santippe), la Croce da cui pendeva «un sublime morto»; il culto per Cristo che si fa esteriore perché gli uomini (e qui spunta il Carducci) non vogliono anticipare sotto il sole il regno delle tenebre; l’invenzione dei campanelli elettrici, delle macchine per cucire, dei caloriferi, delle ghiacciaie, nonché dei grammofoni, degli aeroplani, delle votazioni politiche, del socialismo, della burocrazia e della ...macchina per ammazzare. Tutto per far sorridere, ma con quello spirito che si soleva, un tempo, definir borghese e che nella maggior parte dei casi è gratuito. L’umorismo «in libertà» del Panzini si riscontra (chi lo crederebbe?) anche nelle pagine, ispirate e dolorose, sul camposanto «ove nacquero le Myricae». Li, mentre parla dell’uccisione di Ruggero Pascoli, che è il tema tragico de «La cavallina storna», lo scrittore pensa al dialogo fra Perpetua e Don Abbondio. «Mi ricordai allora di Perpetua che diceva al pauroso Don Abbondio: — Le schioppettate non si dànno come confetti: e guai se questi cani dovessero mordere tutte le volte che abbaiano. — Dicea però Don Abbondio: — Quando mi fosse toccata una schioppettata nella schiena, Dio liberi I l’arcivescovo me la leverebbe? —» Si traggano pure da tali battute le conclusioni che desidera il Panzini. Quella che qui non ci voleva è l’ombra di Don Abbondio che, in qualunque modo venga rievocata, non può non essere comica. É veramente strano che compaia in un luogo ov’è dominatrice la morte. Anziché Perpetua qui piace trovare la popolana silenziosa che procede lenta lungo il viale; e più dell’accenno al curato pauroso giova il ricordo del vecchio sacerdote, che raccontò la fine di Ruggero Pascoli ed amava la Patria attraverso gli autori del Trecento. «Era una Patria infantile e dolce come un periodo del Cavalcai» Ma l’umorismo panziniano non manca di momenti felici. Il viaggio nella [p. 236 modifica] «terra dei santi e dei poeti» (cfr. le «Piccole storie del mondo grande») s’inizia con questa avventura: «Sul più bello delle nostre conversazioni la mia bicicletta detonò come una santa Barbara e il Pasini mi vide d’un tratto scomparire in una nube di polvere come fossi stato una deità omerica. La pneumatica posteriore era scoppiata!»

Qualche volta il modello del Panzini è la prosa di Heine. Noi l’awertiamo (si veda «La lanterna di Diogene») allorché, nel riattraversar le Alpi, lo scrittore denuncia la pesantezza di tutti i verboten che lo «avevano inimicato alla legge» e, lasciato il «mondo dei monti senza fine », le sprofondate valli che paiono baratri, le selve dei pini neri e le falde smeraldine che salgono in alto a rubare il cielo, tocca Goeschenen ove con le lagrime agli occhi scorge i sottili binari che portano in Italia, verso l’autentico azzurro aperto e sorridente. Nello stesso brano, all’ironia di Heine segue poi l’accento epico del Carducci:

Quando salii il colle di Superga cadeva il sole del luglio, anche allora. Fra me e la cerchia cinerea delle Alpi correvano i fiumi come trame argentee di un abito di fata invisibile: invisibile la fata, ma il dolce piano - dall’alpestre roccia onde, Po, tu labi e su cui l’aquila stride - alla torre di Teodorico presso il dolce mare, tutto si discopriva: onde io cominciai a ripetere : «lo dolce piano che da Vercelli a Marcabò dichina». E lo andava dicendo quel verso come una devota orazione.

E allora anche quella gran mole, 11 presso, delle tombe dei re di Savoia mi si trasmutò in una bella e nobile fantasia; e confondendosi con i guerreschi monumenti che sono in Torino, io vidi una ferrea spada sopra a quell’Alpe per difesa di quel dolce piano che Dio sembrò aver creato per la pace e la felicità degli uomini, e gli uomini trasmutarono nel campo prediletto della loro sanguinosa guerra.

E il reisebild torna al Carducci non appena, in vista del Po di Primaro, sente nelle acque i versi della Francesca di Dante: «Passò un brivido di epopea: io sentii i fatti della storia unirsi nel vano del tempo, e reclinai il capo».

In quest’arte dai periodi brevi, felicemente pensati e [p. 237 modifica] netti, i modi del Carducci hanno subito rilievo. Essi ricorrono con frequenza nel giovanile saggio sull’evoluzione politica del Maremmano, che ha piglio animoso, solennità d’immagini, e «impostatura larga del quadro fra storico e filosofico». La fedeltà al Carducci si riscontra anche nel primo romanzo («Il libro dei morti») che è del 1893. Si noti la descrizione del treno dall’enorme macchina corrusca che suscita un fremito di cosa nuova e paurosa ed è esattamente il bello e orribile mostro dell’«Inno a Satana». I quinari di quest’inno si sentono di nuovo nell’accento al correr leggero, sonante, rapidissimo del convoglio il quale fugge divorando il piano.

Ma «Il libro dei morti» è soprattutto notevole, perché vi è l’analisi di due epoche fra loro contrastanti: quella che ha fede nei beni dello spirito e trae conforto dal suo continuo amore per le idee tranquille e per gli insegnamenti della tradizione; l’altra, che, volendo aver precisa conoscenza delle origini e dello svolgersi della vita, è portata a staccarsi dall’antico ed a rompere ogni rapporto con la morale dei nostri padri. Il mondo si trasforma, nota il Panzini. Noi siamo entrati nel turbine della modernità e ci par di udire veramente il grido giunto alla nave di cui si legge in Plutarco che essa veleggiava fra le isole dell’Egeo, quando nella serenità del tramonto la ferì una voce : « Il gran Pan è morto». Pur non senza malinconia si vedono cadere tanti dolci affetti, tante gentili e buone costumanze in cui credevano i nostri antichi. Ma in tale lamento, osserva un giovane al protagonista del «Libro dei morti», vi è piuttosto il dolore che l’avveduto giudizio dell’uomo savio. Il moderno uomo savio non si abbandona ad una morbosa sentimentalità ripugnante alla pura e fredda ragione.

L’ironia del Panzini vuole essere per l’appunto questo uomo che ragiona, ma, mentre difende la nuova regola, fa scorgere quale virtù incorruttibile piaccia alla «morbosa sentimentalità» sconfitta dal secolo che si evolve. In nessuna narrazione del Novecento la parola virtù [p. 238 modifica] risuona cosi grata come nell’opera del Panzini; e questa parola traduce il sentire del Pascoli quando il Panzini scrive che in ogni grande dolore umano i buoni si riconoscono fratelli come nella morte. E trova un accento universo allorché nel racconto «Sotto la Madonnina del Duomo» discorre di Ambrogino che, dopo aver comperato alla «povera robina piccola» (una creaturella morta) la corona di fiori «pensava a certe cose strane e tristi, e la sua smemoratezza umana percepì distinto il suono di una verità, che è come il tocco della campana sul faro del mare: suona sempre, ma noi non la udiamo se non quando la morte pone il dito su le labbra e dice: silenzio! e allora sentiamo bene, e solo quel suono ci pare vero e tutte le altre cose ci paiono vane». L’ideale della Bontà è però seguito raramente dagli uomini, perché il servirlo con fedele amore, come fa il personaggio del romanzo «La cagna nera», costringe a vivere nella disperazione se pur non porta alla follia. Chi vuole attentarsi inerme e nudo contro l’immane battaglia della vita, monta di solito sulla nave della virtù. «Ora è in mezzo al mare, ed il vascello dei fantasmi varca, ed egli ha paura perché si è trovato solo. Credeva forse di trovarci degli uomini veri per compagni? Erano fantasmi quelli che apparivano. Solo l’isola dell’Utopia la accoglie qualche volta nel suo eterno errore. Almeno Don Chisciotte, lo squallido cavaliere, si era messo una corazza di cartone e sul capo un bacile da barbiere». L’uomo nasce nudo e debole. Perché possa stare fra i suoi simili senza timore e danno, avverte il Panzini, gli occorre... il genio della perversità. Chi non ha armi, fa la fine dell’istrice. «Essa tornava dalla guerra e andava in compagnia della volpe, la quale disse: Levatevi l’armatura di dosso, madonna, or che la guerra è finita. Ed essa se la levò e fu divorata in saporiti bocconi».

Sebbene, ragionando fra lo scherzoso ed il serio, finisca col presentare come un fatto logico il soccombere della virtù, perché in molti casi gli par che ostacoli il rinnovarsi necessario della vita, della Bontà il Panzini [p. 239 modifica] è narratore delicato non meno del De Marchi. Il Gian Giacomo del Libro dei morti; la nobile madre che ne La cagna nera si riduce per il bene del figliolo in aspra miseria che assottiglia le sue carni e le rende la mano cosi smagrita e diafana «che l’anello nuziale si appoggiava obliquamente su l’osso del dito»; lo stesso protagonista de La cagna nera che impazzisce per aver creduto il Bene l’unica legge della vita; il piccolo Nini che con la bicicletta folgorante nei lucidi raggi corre fra le tenebre e in un baleno, vincendo la paura, raggiunge la città ove risiede il medico che può salvare la nonna; il dolce bimbo che torna dal collegio e dopo aver letto i Vangeli con animo commosso scopre l’odio e il male dentro la sua casa, proprio nel momento in cui egli sta per credere al regno dei cieli come ad una regione non fantastica né staccata dalla terra: son tutte creature che il Panzini ama. È vero che egli ne relega l’ideale in un mondo superato (la virtù gli par che si possa ormai narrare come una fiaba), ma non contrappone a queste creature esseri corrotti. Qualcosa di umano egli fa sentire anche nell’attaccamento all’utile e però i suoi interessati non sono gli egoisti di cui parleranno più tardi altri narratori.

Alfredo Panzini eredita dall’Ottocento la tendenza a guardar la vita nel suo effettivo svolgersi, quantunque gran parte della sua opera si allontani da quei principi di impersonalità che furono difesi dal Verga e dal Capuana. L’io del Panzini non si oblia nel racconto, il quale è portato a divenire poesia quasi in ogni pagina. Ciò nondimeno, personaggi come Berenice del romanzo La pulcella senza pulcellaggio, Miss Edith del romanzo La Madonna di Mamà, la Dolly e Gian del romanzo II padrone sono me e la protagonista dell’ultimo romanzo II bacìo di Lesbia appartengono ad una realtà che è stata esattamente osservata prima che la parola la esprimesse liricamente. Vi è però un Panzini oggettivo che tocca la perfezione nel finale de La cagna nera e che ne La biscia ha le migliori doti del Maupassant.