Novella CCX

../CCIX ../CCXI IncludiIntestazione 22 settembre 2009 75% novelle

CCIX CCXI

Certi gioveni fiorentini, uccellando alle quaglie, andando, per ben cenare con le quaglie prese, al Pantano, luogo di Curradino Gianfigliazzi si trovorono piú là che Malalbergo.

— * —

Io non so chi arrivasse peggio, o questo Minestra, di cui sopra è detto, per volere mangiare l’anguilla presa, o certi gioveni, per volere mangiare le quaglie che aveano prese. Come è d’usanza, del mese di settembre, quelli che tengono sparviere, s’accozzano insieme e cercano diversi piani per andare uccellando a quaglie; e cosí feciono brigata, non è molti anni, certi gioveni fiorentini di buone famiglie, e uccellorono tutto un dí tra Prato e Pistoia: e avendone prese convenevolmente, deliberorono andare la sera a cena e albergo a uno luogo chiamato il Pantano, dove dimorava un gentiluomo de’ Gianfigliazzi, chiamato Curradino. E cosí s’avviarono di concordia; là dove giugnendo, però che ’l luogo era affossato intorno, e valicavasi il fosso su per un’asse assai stretta di faggio, cominciorono a chiamare Curradino, il quale, fattosi dall’altra parte su la ripa del fosso, dice:
- Voi siate i ben venuti; scendete e passate su per l’asse, e’ cavalli mettete a nuoto per lo fosso, ché altremente non possono passare.
Udendo costoro questo, l’uno guarda l’altro; e alla fine, essendo lor forza il giuoco, scendono e danno i cavalli a’ lor fanti, e dicono:
- Mettetevi per l’acqua, e passate di là.
I fanti malvolentieri pur vi si missono; ed eglino passorono su per l’asse, che per la debolezza si piegava sí che parea ognora ch’ella si volesse rompere. Pur passati a grande stento, e quelli del ponte e quelli del guado, la raccoglienza fu grandissima, come è d’usanza de’ gentiluomini; dicendo pur in fine:
- Voi starete come voi potrete; or via, mettete i cavalli qua -; e avviolli in uno casolare che era mezzo coperto di paglia e mezzo no, e disse: - Acconciateli qui -; là dove per la strettezza s’accostava sí l’uno all’altro che poteano ben mordere, ma non trarre l’uno all’altro; il tetto che era di sopra, non era tanto largo ch’e’ cavalli non stessono all’aria dal mezzo in giú.
Il gentiluomo della casa dice a’ fanti:
- Date lor bere, se non hanno beúto.
I fanti rispondono:
- Egli hanno aúto acqua assai.
Li gioveni delle quaglie erano continuo, com’è d’usanza, a fare governare le loro bestie, e quanto piú s’affaticavono, piú le vedeano sgovernate. Passoronsene come poterono; e avvioronsi a trovare le quaglie e pelare, per dare ordine alla cena; e venendo al fuoco per arrostirle, dissono venissono delle legne. Quivi furono recati sagginali, dicendo:
- Noi ardiamo poco altre legne.
In effetto elle si convennono arrostire co’ sagginali, però che l’ora era tarda, e volendo essere andati a trovare modo d’averne, si convenía al buio passare Rubicone. Quando le quaglie furono cotte, o vero affumicate, e’ furono posti a uno descaccio che tuttavia parea che fosse in fortuna, e su una panchetta che stava peggio.
- Hacci del vino? - dice uno di loro.
Dice il gentiluomo a uno della casa:
- Va’, fa’ del vino.
E quelli va, e preme in uno orciuolo grappoli d’uve con le mani. Dicono gli uccellatori:
- O che fa quelli?
Dice il gentiluomo:
- Io non beo altrimenti in questo tempo, ch’egli è mesi che mi mancò il vino vecchio.
Chi strigne le labbra e chi le spalle: e’ convenne loro pur bere; sanza l’acqua, che era naturale secondo il nome del luogo; il pane parea di mazzero e biscotto, come se fossono in galea: egli erano bene in fortuna. E poco stettono a tavola che andorono a vedere e’ cavalli, li quali parea che dicessono favole, e non guardavano meno li loro signori ch’e’ loro signori guardassono loro.
Ad abbreviarla, egli stettono male quanto dire si puote. Pensorono di passare le loro pene questi uccellatori col dormire il piú tosto che potessono; e inviati a una camera, o vero cella cavata, o vivaio che vogliamo dire, scesono quattro scaglioni, e all’ultimo era un’asse che era ponte dallo scaglione alla panchetta del letto; però che nella detta camera era l’acqua alta un mezzo braccio. Passò la brigata il detto ponte, lieti come ciascun dee credere; e volendo andare alla guarderoba, tre passi in su tre pietre convenía lor fare in punta di piedi, per non toccare l’acqua; poi entrorono, quattro ch’egli erano, in uno letticciuolo che avea una coltricetta cattiva, che parea piena di gomitoli e di penna d’istrice, con uno copertoio tutto stampanato, e con ogni altra cosa da fare penitenza. E Curradino si parte da loro, dicendo:
- Fate penitenza, io son povero gentiluomo, e sto come fanno i gentiluomini; godete e datevi buon tempo.
E cosí si partí, e la brigata rimase in guazzetto. Dice l’uno:
- Dic’elli che noi godiamo? se noi fossomo ranocchi, anguille o granchi, potremmolo fare.
Dice l’altro:
- Noi fummo ben granchi a venirci, che morti siàn noi a ghiado, che ci venimmo.
Dice un altro:
- Egli è il tale che vuole risparmiare lo scotto dell’albergo; egli era ben meglio andare all’albergo al Ponte Agliana, com’io dissi.
Il quarto dice:
- E’ son be’ risparmi i nostri; e’ ci potrà costare questa venuta ancora sí cara che tristi a noi che mai ci venimmo; noi ce ne avvedremo a’ medici e alli sciroppi e alle suzzacchere, che sapete quello che costono, e anche non so se noi ce ne camperemo.
E cosí tutta notte quasi non dormirono, parendo loro mill’anni che fosse dí per levarla. Uno vantaggio ebbono, che tutta notte pisciorono per la camera, e non si parea. Venuto il giorno, col canto delle botte e de’ ranocchi, si levorono e uscirono del molticcio, facendo subito sellare i cavalli e chiamando i cani, e tolti gli sparvieri in braccio, dissono:
- Curradino, fàtti con Dio.
Curradino disse:
- Io v’aspetterò a desinare.
Risposono:
- Se noi verremo, tu te ne avvedrai -; e passorono il ponte, e’ cavalli il fosso a nuoto; e saliti a cavallo, come se ’l diavolo gli ne portasse si dileguorono per dilungarsi dal Pantano.
E dicevano insieme tra loro:
- Non v’avessimo noi lasciati gli occhi, credendoli riavere, che noi vi ritornassimo -; e spesso si volgeano a drieto, o per vedere se dal Pantano s’erano ben dilungati, o per paura che non andasse loro drieto; e mai non ristettono che ritornorono a Firenze; affermando tutti, non che di ritornare mai al Pantano, ma stare un anno che non uscirebbono della porta al Prato.
E riempierono Firenze della gentilezza che aveano trovata, che fu ancora piú nuova che io non ho scritto.
Molto ha preso oggi la gentilezza romitana forma, però che con grande astinenza vivono quelli che sono chiamati gentiluomini, salvo che quando pigliano di ratto, e siano questi di qualunche vita sia o viziosa o scellerata, si dice: «E’ sono pur de’ tali, che sono gentilissima famiglia»; e pare che per tale titolo e’ si convenga loro usare qualunche vita piú laida sia, o non s’intende per costoro che non aveano piú che s’avessono. E cosí s’usa il verso di Dante per lo contrario: «È gentilezza dovunch’è virtute, ec.».