Il Tesoretto (Assenzio, 1817)/XXVI
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XXVI.
Or pensa, amico mio,
Se tu al vero Dio
Rendesti o grazia, o grato
Del ben, che t’ha donato:
Che troppo pecca forte,
Et è degno di morte
Chi non conosce ’l bene
Di là dove gli viene.
E guarda, s’hai speranza
Di trovar perdonanza;
S’hai alcun mal commesso,
E non ne se’ confesso;
Peccato hai malamente
Ver l’alto Re potente
Di negghienza: ma avvisa,
Che nasce di voi * tisa:
Che quando per negghienza
Non si trova potenza
Di fornir sua dispensa
* * * * *
Come potesse avere
Sì de l’altrui avere,
Che fornica suo porto
A diritto, et a torto.
Ma colui, ch’ha dovizia,
Sì cade in avarizia,
Che là ’ve dee non spende,
Nè già l’altrui non rende.
Anzi ha paura forte,
Ch’anzi, che venga morte
L’aver li venga meno;
E pure stringe ’l freno.
Così rapisce, e fura,
E da falsa misura,
E peso frodolente,
E novero fallente,
E non teme peccato
Di * * suo mercato,
Nè di commetter frode;
Anzi ’l si tiene ’n lode
Di nasconder lo sole;
E per bianche parole
Inganna altrui sovente;
E molto largamente
Promette di donare,
Quando non crede fare.
Un altro per impiezza
A la zara s’avvezza,
E giuoca con inganno,
E per fare altrui danno
Sovente pinge ’l dado,
E non vi guarda guado,
E ben presta * auzino,
E mette mal fiorino.
E se perdesse un poco,
Ben udiresti loco
Bestemmiar Dio, e Santi,
E que’, che son davanti.