Il Tesoretto (Assenzio, 1817)/XXVII

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XXVII.


Un altro, che non cura
     Di Dio, nè di natura,
Sì diventa usuriere:
     Et in ogne maniere
Ravvolge suoi danari,
     Che li son molto cari.
Non guarda dì, nè festa,
     Nè per Pasqua non resta:
Che non par, che li ’ncresca,
     Pur che moneta cresca.
Altri per simonia
     Si getta ’n mala via,
E Dio, e Santi offende;
     E vende le prebende,
E santi sacramenti:
     E metton fra le genti
Esemplo di mal fare.
     Ma questi lascio stare,
Che tocca a ta’ persone,
     Che non è mia ragione

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Di dirne lungamente.
     Ma dico apertamente,
Che l’uom, ch’è troppo scarso
     Credo, ch’ha ’l cuor tutt’arso:
Che ’n povere persone,
     Nè in uom, che sia prigione
Non ha nulla pietade;
     E tutto ’nfermo cade
Per iscarsezza sola.
     Vien peccato di gola,
Ch’uom chiama ghiottornia:
     Che quando l’uom si svia
Sì, che monti ’n ricchezza;
     La gola sì s’avvezza
A le dolci vivande,
     E far cucine grande,
E mangiar anzi l’ora,
     E molto ben divora;
Che mangia più sovente,
     Che non fa l’altra gente.
E talor mangia tanto,
     Che pur da qualche canto
Li duole corpo, e fanco:
     E stanne lasso, e stanco.
Et innebria di vino
     Sì, ch’ogne suo vicino
Se ne ride d’intorno,
     E mettelo in iscorno.
Viene tenuto matto
     Chi fa del corpo sacco;
E mette tutto in epa,
     Che tal’ora ne crepa.