Il Tesoretto (Assenzio, 1817)/VI
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VI.
È questo, d’ond’io godo,
E ad ogne creatura
Dispuose per misura
Secondo ’l convenente
Suo corso, e sua semente.
E ’n questa quarta parte
Ha loco la mia arte:
Sì, che cosa, che sia,
Non ha nulla balìa
Di far nè più, nè meno,
Se non a questo freno.
Ben dico veramente,
Che Dio onnipotente,
Quello, ch’è capo, e fine
Per gran forze divine
Puote ’n ogne figura
Alterar sua natura,
E far suo movimento
Di tutt’ordinamento.
Sì come déi sapere,
Quando degnò venére
La Maestà sovrana
A prender carne umana
Nella Virgo Maria:
Ch’incontro l’arte mia
Fue ’l suo ’ngeneramento,
E lo suo nascimento;
Che davanti, e da poi
Sì come savem noi
Fue netta, e casta tutta,
Per voi gente guerire,
E per vostro soccorso.
Allor tutto mio corso
Mutò per tutto ’l mondo
Dal ciel fin lo profondo:
Che lo sole scurao,
E la terra tremao.
Tutto questo avvenia,
Che ’l mio Signor patia.
E perciò col mio dire
Io lo voglio chiarire;
Sì, ch’io non dica mutto,
Che tu non sacci ’n tutto
La verace ragione
E la condizïone.
Farò mio ditto piano,
Che pur un solo grano
Non fia, che tu non sacci.
Ma vo’, che tanto facci,
Che lo mio dire apprendi;
Sì, che tutto lo ’ntendi.
E s’io parlassi scuro,
Ben ti faccio securo
Dicerloti ’n aperto;
Sì, che ne sii ben certo.
Ma perciò che la rima
Si stringe ad una lima
Di concordar parole,
Come la rima vole;
Sì, che molte fiate
Le parole rimate
Ascondon la sentenzia,
Di cose, che rimare
Tenesse oscuritade;
Con bella brevitade
Ti parlerò per prosa,
E disporrò la cosa
Parlandoti ’n volgare,