Il Re prega/XXI
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XXI.
Qualche ritocco al ritratto del re che prega.
Quando furono soli nel loro coupè il re si volse verso l’ambasciatore e gli dimandò:
— Principe, qual è il vostro avviso su tutto codesto?
— Sire, io non posso esprimere a V. M. che quale è la mia impressione, rispose Schwartzemberg.
— Ebbene?
— Ebbene, io persisto nell’opinione sovente manifestata a V. M.: il marchese di Sora è un traditore. Le spiegazioni ch’egli ha date a V. M. sono un’antica astuzia di polizia, frusta, logora, lacera dal tempo, di cui alcuni sovrani e alcuni ministri furono creduloni, ma il pubblico mai.
— Nonpertanto.....
— Sire, regola generale: i cospiratori sono sempre meno balordi dei ministri. I cospiratori agiscono per convincimento o per interesse; i ministri, per dovere: prima ragione d’inferiorità. I cospiratori giuocano la loro vita; i ministri si espongono tutto al più a dire una menzogna ai loro sovrani ed a subire qualche rimprovero: seconda ragione d’inferiorità. I cospiratori sono d’ordinario persone di mente e di cuore, — a loro modo, ma incontestabilmente, — sopratutto i capi, uomini scelti; i ministri spuntano al sole del favore della corte, all’azzardo, come Dio li mena, fiore o legume: terza ragione di inferiorità. Passo oltre le più gravi. Io non nego però il merito del marchese di Sora.
— Questo è incontestabile, certo.
— Sire, in questo mondo non vi è di certo che le tasse e la morte. Però qualunque sia il merito del marchese, il colonnello Colini ed il marchese di Tregle non sono mica sì candidi da lasciarsene abbarbagliare e domare. Ora, delle due cose l’una: il colonnello Colini ed il marchese di Tregle sono complici del vostro ministro della polizia e tradiscono il loro partito, o il marchese di Sora è complice del colonnello e tradisce V. M. Il vostro ministro respinge naturalmente quest’ultima imputabilità. Ma siccome io non posso in guisa alcuna dubitare nè dell’intelligenza nè del carattere dei cospiratori, io mantengo la mia accusa: il marchese di Sora è un ministro sleale.
— Ma allora noi siamo perduti! sclamò il re.
— Vi domando scusa, sire. Il pericolo era certamente grave ed immenso quando V. M. riposando con fiducia sul ministro, questi poteva scavarle sotto i piedi l’abisso, dandole a credere che V. M. camminava sulle rose. Ma adesso, che grazie alle rivelazioni interessate della piccola spia, V. M. è stata messa in guardia, il pericolo è scongiurato, io m’immagino.
— Ed in qual modo?
— Ma, in modo semplicissimo. E poichè la Maestà Vostra mi fa l’onore di dimandarmi il mio avviso, eccolo qui. E’ bisogna far sembiante di credere senza riserbo alle spiegazioni date dal marchese di Sora, lodarlo, ringraziarlo come un salvatore, ricompensarlo ed assopirlo. Infrattanto è mestieri farlo sorvegliare attentamente e con sagacità, e controminare le sue mine. Poi, quando V. M. possederà tutti i piani della cospirazione, quando V. M. avrà apparecchiate le sue forze, i suoi uomini, i suoi mezzi, piombar come il fulmine sopra quegli infami e schiacciarli tutti, tutti, senza riguardi, senza pietà. All’occorrenza si potrebbe tender loro una trappola, per sbarazzarsene più presto. Le cospirazioni che van per le lunghe sono sempre pericolose: esse ingrandiscono e si consolidano vivendo.
— Pensate voi, principe, che convenga tener parola alla piccola spiona, come voi la chiamate?
— Salvo l’avviso opposto della M. V., io penso che la parola di un sovrano debba esser più infallibile che quella del papa. Questa avventura sarà nota. Vi è lì sotto l’amore di un personaggio misterioso e potente cui bisogna portare in chiaro. Perocchè l’individuo che conosce i più intimi segreti del marchese di Sora non può essere il primo venuto, ed il governo di V. M. sarebbe colpevole di non scandagliarne e d’ignorarne i disegni, lo scopo, il carattere e le opinioni. Ebbene, se la storia delle promesse scambiate tra V. M. e la giovinetta sarà conosciuta, e che si sappia in seguito che la M. V. l’ha giuntata, chi cederà più mai alla tentazione di rivelare di simili segreti e di confidarsi alla parola reale? Bisogna che quel Don Diego Spani sia libero.
— Egli lo è di già. Ed è un terribile uomo, a giudicarlo dal supplizio spaventevole che ha subito senza lasciarsi sfuggire la minima confessione.
— Ragione di più, allora. Bisogna che quell’uomo sia vescovo, — salvo a giudicarlo e vedere se sarà utile servirsene o spezzarlo.
— Gli è precisamente l’avviso mio. Io nominerò il vescovo del diavolo; ma il diavolo non ne godrà.
L’indomani, il re fece chiamare il conte di Altamura nel suo gabinetto.
Il conte Altamura1 si chiamava adesso il cav. Spada. E’ si era evaso dalla prigione della Vicaria, vestito da gendarme, accompagnando un altro prigioniero innanzi la corte, — mediante una ricompensa al carceriere in capo, — in mezzo al silenzio di tutti i suoi compagni di camerata, i quali lo avevano veduto cangiare di assisa. Egli aveva preso in seguito altre spoglie, adulterando il colore dei suoi capelli, della sua pelle, dei suoi baffi, dandosi parrucca ed occhiali, bernoccoli sul naso, una gamba a strascico, un tremolio da barbogio in tutte le membra ed un accento tedesco fiorito di dolcezza e di bonomia, con un leggero difetto di pronunzia dell’r. La sua ganza non l’aveva riconosciuto. Ma e’ non si nascondeva ai suoi amici, ai suoi complici nelle nuove intraprese a cui mise mano. In questo frattempo un generale, amico del principe di Schwartzemberg, inspirò al re di organizzare la sua polizia segreta di palazzo onde sorvegliare la polizia generale del regno.
La polizia segreta era stata un poco negletta, in mezzo ai vagheggiamenti guerrieri di questo re gran capitano. L’avvenimento di Pio IX al pontificato, il risveglio d’Italia, l’inquietudine della Francia, il carattere del marchese di Sora, fecero sembrare opportuno agli amici del re di vivificare la polizia del gabinetto di S. M. e di farla agire attivamente. Bisognò un capo abile. Il generale Vidal, che conosceva da lunga pezza il conte di Altamura, lo propose, lo stimò e lo garantì.
Il conte venne alla corte.
Si trasfigurò. Si dètte dei peli rossi, un sembiante di gobba sul dorso, delle lentiggini sulla pelle, due pollici di statura di più della sua, una voce chioccia, una glandola lagrimale rossa e gonfia, un dondolìo curioso del corpo, mal portato da due gambe troppo fesse. Ebbe sempre il sigaro o la pipa alla bocca. Si fece passare per tedesco, — della Toscana, impiegato nella segreteria particolare del re a compor cifre diplomatiche per la corte di S. M. siciliana e decomporre le cifre degli ambasciatori. Perocchè S. M. aveva una rabbia irresistibile di conoscere ciò che le sue poste reali portavano ai gabinetti stranieri. Il cavaliere Spada del resto si mostrava poco: era misantropo!
Sotto questa direzione, la polizia segreta del re funzionò, come funzionano tutte le polizie, — non sapendo nulla, cioè mostrando al padrone di tutto sapere, salvandolo due o tre volte per settimana, usando civilmente della sua lista civile, perseguitando la gente dabbene, facendosi dar la berta dai bricconi, non distogliendo alcun complotto, organizzandone uno di tempo in tempo onde regalarsi la soddisfazione di sorprenderlo. Fouché diceva: quando vi sono tre persone che conoscono una cosa, il segreto è impossibile. Ora il segreto della polizia particolare del re era conosciuto da parecchi: il Marchese di Sora non poteva ignorarlo. E’ piaggiò nonpertanto il re, mostrandosi di una grande discrezione in proposito, facendogli comprendere nello stesso tempo ch’egli si sapeva sorvegliato.
Il dì seguente, il conte di Altamura fu rudemente maltrattato ed umiliato, quando il re gli apprese il complotto scoverto da lui la notte precedente, al di fuori delle sue due polizie, ed alla loro barba.
Il conte esaltò la perspicacia ed il coraggio di S. M. e disse: che come gli era vietato di avere gli occhi e le mani nelle dimore di certi stranieri, egli non poteva evidentemente indovinare ciò che vi si ordiva, e che perciò egli non era colpevole di aver ignorato ciò che accadeva in casa lady Keith. Il re lo malmenò forte, malgrado ciò, lo minacciò, gli rimproverò il danaro ch’egli sciupava per nulla e conchiuse:
— Ora, bisogna avvisare.
— Vostra Maestà mi faccia la grazia di esprimermi i suoi desiderii, rispose il conte, ed essi saranno compiuti a capello.
— Vi è un uomo straordinario che ha rivelato ad una certa Bambina Spani un segreto del marchese di Sora. Voglio sapere chi è codest’uomo.
— Io posso in questo istesso istante rivelarlo a V. M. Gli è il padre Piombini della società di Gesù.
— Come! egli avrebbe dei segreti che tace ai suoi superiori, — i quali ce li avrebbero certamente comunicati, — e cui rivela ad una sgualdrinella? I gesuiti sarebbero anch’essi contro di noi, per avventura?
— I gesuiti, sire, fanno come l’Inghilterra: accettano tutti i fatti compiuti. Per essi il diritto è a colui che lo esercita. Quanto al padre Piombini, egli ama quella fanciulla di una bellezza incantevole.
— L’ho vista, interruppe il re.
— Allora V. M. può giudicare della potenza del fascino che quella ragazza ha gettato sul suo confessore. In un altro secolo la si sarebbe bruciata viva come stregona. Nel nostro la si giudica come cantoniera, scroccona ed intrigante. Ella si reca ogni dì presso di quel confessore. Il padre Piombini va a vederla in casa lady Keith. Il vostro confessore esso stesso, sire, il santo vescovo di Patrasso, ha corso il pericolo di essere ammaliato da quella sirena. Ma egli ha rifiutato di vederla. Ella ha un fratello che la vende e che cospira contro lo Stato, — in questo momento a Santa Maria Apparente.
— Egli ne è uscito. Ed io debbo adesso nominar vescovo il fratello di quella cortigianella. Lo debbo: ciò avrà luogo stamane stessa.
— Sono io, sire, che lo avevo fatto imprigionare come cospiratore.
— E sono io che, dietro il rapporto del marchese di Sora, l’ho fatto mettere in libertà. Ma non si tratta più di ciò.
Il re si tolse dagli occhi del conte di Altamura ed andò ad inginocchiarsi nel suo gabinetto e pregare. Qualche minuto dopo rientrò e continuò la conversazione.
— Quel Don Diego Spani è un cattivo prete. Egli sarà un abbominevole vescovo. Ora, siccome sono io che introduco nella Chiesa questo lupo pericoloso, debbo esser io a cui incomba preservare l’ovile dalle sue scelleratezze. Ho dato la mia parola di nominarlo: è mestieri ch’egli sia vescovo. Ma io non ho promesso ch’egli godrebbe di un posto cui mi ha fatto estorquere.
— V. M. non ha bisogno di dir altro. Solamente io supplico la M. V. d’inspirarmi ove questa esecuzione della giustizia di Dio debba aver luogo, a Roma, dopo la consacrazione, ovvero a Napoli, dopo il suo ritorno?
Il re si allontanò per pregare, poi ritornò e disse:
— A Napoli, con abilità e mistero, dando alla punizione il marchio dei gastighi di Dio: il terribile e l’inatteso.
— Quelli che spiacciono al re non son essi nemici di Dio? Non mercè di sorte dunque.
— Ma di ciò a suo tempo. Per il momento, concentra ogni tua attenzione sul marchese di Sora. Ho degli ordini speciali a darti su questo soggetto.
Il re fece un segno. Il conte di Altamura s’inginocchiò, baciò la mano del re ed uscì.
La notte precedente, il colonnello Colini, il marchese di Tregle, il barone di Sanza e tre dei delegati delle Provincie erano stati arrestati. Essi lo sapevano. Il colonnello Colini n’era instrutto; perchè, come ho detto, era stato convenuto tra loro che il marchese di Sora, trovandosi in pericolo essendo scoverto per uno di quei casi imprevisti che accompagnano le cospirazioni, farebbe arrestare i suoi complici onde assopire la rivolta e salvarli poscia in un modo o nell’altro.
Il barone Colini aveva altresì contezza del mandato di arresto che il ministro della polizia portava sempre, tutto all’ordine, nel suo portafogli. Egli die’ quindi sesto alle sue carte, rientrando dalla villa di lady Keith. Il marchese di Tregle fece altrettanto. Gli altri presero eguali precauzioni. Tutti si coricarono ed aspettarono. Alle tre del mattino essi erano tutti in gabbia, non nelle prigioni della polizia, ma nel castello S. Elmo, — quella magnifica fortezza che corona così pittorescamente il paesaggio di Napoli.
Il ministro spiegò al re perchè egli si fosse comportato in quel modo.
Egli fece un quadro dello stato degli spiriti nel regno, che spaventò re Ferdinando. Poi lo consigliò di esiliare quei prevenuti, anzichè aumentare l’eccitamento dell’opinione pubblica con un processo che avrebbe un eco immenso in Europa. Una scintilla su quella polveriera poteva perder tutto.
Parecchi ambasciatori stranieri parlarono al re nello stesso senso. Ed il principe di Schwartzemberg gli fece inoltre osservare, che non si avrebbero prove, che sir William Temple aveva di già minacciato una tempesta diplomatica sulla violazione del domicilio di un suddito inglese, anche cortese e regale come la si era compiuta.
Il re dimandò tempo a riflettere. Lasciare una preda di quell’importanza! si minchiona dunque?
Don Diego aveva portato seco sua sorella.
Egli non fu arrestato.
Il marchese di Tregle gli mandò don Gabriele per avere delle spiegazioni; perocchè e’ fu accertato da lady Keith che Bambina aveva introdotto il re e l’ambasciatore d’Austria nel padiglione. Don Diego aveva tutto appreso da sua sorella. E’ negò tutto.
Egli aveva ricevuto la mattina stessa la lettera del ministro del culto, il quale gli partecipava, che il re aveva degnato proporlo vescovo di Noto, in Sicilia, e ch’egli avesse a presentarsi al ministero. Don Gabriele, che apprese codesto dal suo amico Fuina, ne portò tosto la notizia al castello S. Elmo.
Ahimè! essi ignoravano gli ordini che re Ferdinando aveva dato il mattino al conte di Altamura, e la conversazione che S. M. aveva avuto la vigilia col principe di Schwartzemberg!
Una carrozza a due cavalli infrattanto si fermava, tre o quattro giorni dopo, verso mezzodì, alle sponde del mare alla punta di Baia. Le due persone che ne discesero erano: il conte di Altamura, travestito da viaggiatore inglese, ed il commissario di polizia addetto al ministro, Fuina. Una barca condotta da sei rematori li aspettava.
Quel sito è desolato. Il promontorio di tufo giallo, forellato come una spugna, corroso, incrostato di uno strato di sale dall’evaporazione marittima, tigrato qua e là da un ciuffo di erba grigia a filamenti ossei, animato solo da un formicolaio di piccole lucertole color piombo, intaccato da ogni lato, non esprimendo nulla, avendo dei bernoccoli insulsi, dei crepacci ciechi, dei gibbi muti, questo promontorio, dico, non ha nulla di poetico, nulla di bello, nulla di terribile nè di assolutamente lugubre. Esso giace sopra un letto di sabbie grige, che lo contornano di un lembo triste e terminano l’arco del golfo come un braccio mutilato.
Nessuno abita la spiaggia. Alla cima del promontorio, che dal lato di Baia declina a dolce scoscesa, torreggia una ruina, un dì casotto di doganieri, ora (1847) abbandonato e demolito. La si direbbe, questa punta di Baia, un dente cariato spezzato.
Il mare era cattivo. Il cielo losco. Le onde sonore si frangevano con alacrità sulla spiaggia e lasciavano sulla sabbia un collare di schiuma giallastra mista di brandelli di alga. Procida, dall’altro lato del canale, si abbozzava appena sopra un fondo di vapori cenerognoli. L’aria era pesante, densa; punto di vento. I gabbiani e gli smerghi non pigliavano posa. Malgrado però il rumore dei fiotti e l’animazione degli esseri viventi, si sarebbe creduto trovarsi immersi nella solitudine e nel silenzio.
— Il tempo è cattivo, osservò Fuina.
— No, rispose il più anziano dei marinai: e’ porta il broncio, forse brontolerà un poco stanotte, ma nulla di serio. Il mare dorme al fondo. Fa un cattivo sogno e l’epidermide si corruga un tanto.
— Possiamo avventurarci alla traversata?
— Senza alcun pericolo. Non isseremo vela e forse arriveremo un poco più tardi: ecco tutto.
— Tutto?
— Tutto. Salite.
Il conte di Altamura dette ordine al suo cocchiere di venirlo ad aspettare allo stesso sito, l’indomani, alle nove, e s’imbarcò.
Il padrone aveva detto vero: le onde grosse, frante, capricciose, dettero loro non poco rovello, ma non si corse alcun pericolo. Nondimanco, le barche dei pescatori rientravano. Il canale di Procida è perfido e nasconde delle situazioni drammatiche imprevedute. Voi ammirate un lago pagliettato di oro? ad un tratto, la superficie dell’acqua si oscura, trema, fa brutto ceffo, si screpola, ringhia, ed il diavoleto comincia. L’è un mare nervoso, soggetto a degl’increspamenti interni. Non rotola desso forse, del resto, sopra un cratere vulcanico?
Bentosto si cominciò a distinguere l’isola. Bentosto si distinse spiccatamente quell’edifizio bianco, un dì castello reale, ora ergastolo. Due ore dopo, sbarcavano.
Fuina conosceva la terra. Ma l’avesse pure ignorata, il caso lo avrebbe servito con compiacenza: incontrò il comandante del forte con cui avevano a fare. Il maggiore Scalese conosceva Fuina. E’ l’abbordò.
— Noi veniamo da voi, maggiore, disse Fuina.
Il maggiore squadrò il travestimento all’inglese del conte di Altamura e dimandò:
— Partita di piacere, eh?
— Forse, sclamò Fuina. Andiamo nel vostro alloggio.
— Ripartite voi stasera? Non ve lo consiglio. Il mare è minaccioso.
— Restiamo.
— Allora voi resterete con me. Milord accetta?
— Senza complimenti, rispose il conte con un accento britannico vigoroso.
Il maggiore comperò qualche provvigioni, poi salirono alla fortezza.
— I vostri canarini van bene? domandò Fuina, indicando con quella parola i galeotti.
— Si bezzicano di tanto in tanto. Milord sarebbe per caso uno scienziato che coltiva questa parte dell’istoria naturale?
— Un poco, rispose d’Altamura.
— Milord, non sarebbe per avventura un emissario di lord Palmerston che viene qui per fare un rapporto in segreto?
— E se ciò fosse? mi mettereste alla porta? domandò il conte.
— Per chi mi prendete voi dunque, milord? Venendo col mio amico, il commissario Fuina, voi dovete conoscere i regolamenti della casa. L’è un affare di tariffa un pochino più caro per le mercanzie straniere. Ma altresì, se voi pagate un maggior prezzo, voi vedrete le cose più segrete e curiose, che noi riserbiamo per gli amatori di filantropia stranieri.
Arrivarono, così cicalando, alla porta esterna della fortezza. Una donna la traversava al punto stesso, — una monaca di casa, tutta in lagrime, in disordine, singhiozzando e torcendosi le braccia per disperazione.
Era Concettella, ora suor Crocifissa, al servizio di Don Diego Spani, e sua ganza.
Ecco ciò che era succeduto.
Note
- ↑ Vedi il Sorbetto della Regina.