Il Parlamento del Regno d'Italia/Lorenzo Ghiglini
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senatore.
Noi abbiamo più volte avuta l’occasione di esprimere il nostro avviso intorno all’utilità di un opposizione parlamentare savia, moderata, proponentesi seriamente uno scopo, ed adoperantesi energicamente a raggiungerlo.
L’opposizione che ci dispiace, e che stimiamo inutile, oziosa e peggio è l’opposizione sistematica che critica e respinge ricisamente ogni atto del Governo, solo perchè atto del Governo egli è, quantunque d’altronde egli possa apparire di un’utilità incontestabile per la cosa pubblica.
Il personaggio di cui dobbiamoora parlare, ha quasi sempre appartenuto alle fila dell’opposizione, ma di quella appunto che fa la parte di controllare e di emendare, non di combattere a oltranza le proposizioni dell’amministrazione.
Nato nel 1803, presso Genova da onorevole famiglia ed agiata, Lorenzo Ghiglini studiosissimo fin da fanciullo si senti preso di buon’ora da caldo trasporto per le scienze, ed in ispecial modo per la medicina.
Quando si abbraccia una professione che c’ispira un gusto assai vivo, le fatiche per riuscire a rapidi progressi in quella ci sembrano molto lievi; ciò accadde appunto al Ghiglini. Egli non esercitava a propriamente dire la medicina, se non quel tanto che gli sembrava dover tornar utile ad approfondire la scienza.
Ben presto egli cominciò a dare alla luce il resultato delle osservazioni da esso fatte, mettendo fuori opuscoli e memorie che richiamarono l’attenzione della gente dotta, tanto e sì bene, che il giovine medico riceveva lettere d’incoraggiamento e di felicitazione da tutte le parti e specialmente dai sommi luminari della scienza in Francia. Re Carlo Alberto, che da quel magnanimo che era, mostravasi sempre pronto a premiare il merito ovunque gli si mostrasse, concesse al Ghiglini la nobiltà, trasmissibile a tutta la sua famiglia; del quale onore il nostro protagonista si palesò degno più tardi come lo era apparso per lo innanzi, seguitando con molto successo e suo vanto ad eccellere negli studi, nei quali si era già tanto distinto.
Se non che la sventura venne a turbare la pace е l’operosità di un’esistenza, che sembrava ed era quasi onninamente consacrata ad alleviare le sofferenze del l’umanità languente. La famiglia stessa del nostro protagonista patiì gravissime ed irreparabili perdite per la morte di alcuni dei principali suoi membri, che le cure e il sapere del Ghiglini non valsero a preservare dall’estremo fato.
Gli affanni domestici, e fors’anco il dover costatare con tanto suo dolore come la scienza da esso praticata non giovasse sventuratamente a salvare coloro che più gli erano cari, lo indussero ad abbandonarne la pratica. Nel 1842 il colleggio di Voltri lo eleggeva a proprio rappresentante nel Parlamento nazionale.
Non appena egli si fu seduto in questo, che si mise nel centro destro alla cui testa trovavasi l’onorevole conte di Revel, sotto la cui bandiera si oppose ai piani finanziari del conte di Cavour.
Questo grand’uomo di Stato si sa che non poteva essere sul principio della sua amministrazione molto popolare, come non lo era di fatti, giacchè la popolazione del regno subalpino, che si sentiva pesare addosso troppo gravemente i balzelli ch’egli con molto coraggio civile proponeva e sosteneva dinanzi al Parlamento, non poteva andare a riflettere, a bella prima, che quei balzelli stessi dovevano dare i mezzi, non d’ingrandire e di profittare al Piemonte, ma sibbene di fare l’Italia.
Il conte di Revel aveva quindi assai bel giuoco a combattere le leggi presentate dal conte di Cavour, e questi in quel tempo era l’impopolare, e il popolarissimo era il suo onorevole contradditore.
Lorenzo Ghiglini, dal canto suo, nella prima legislatura come nelle altre consecutive, nelle quali fu sempre rieletto dallo stesso colleggio di Voltri, si manifestò sempre avverso alla politica cavouriana e fino agli ultimi tempi in cui sede nella Camera elettiva, cioè fino al 1859, nelle occasioni solenni prese la parola e pronunciò discorsi a più d’un titolo rimarchevoli, sempre però diretti a combattere la politica dell’eminente ministro.
Il Ghiglini come il conte di Revel suo capo-fila, avevano una ragione, se non eccellente, almeno speciosa di opporsi così agli intendimenti del conte di Cavour. Essi non negavano certo il sommo suo ingegno e l’ardimento e la vastità dei suoi concepimenti.
Ma appunto si spaventavano della immensità di questi, e temevano che l’ardimento suo non dovesse trascendere in temerità.
Il Piemonte, tale qual era, colle sue istituzioni liberali, colla sua ricchezza di prodotti territoriali, e con quella non meno considerevole delle sue industrie, poteva, essi lo comprendevano a meraviglia, prosperare assaissimo, ove appunto non lo si fosse gravato a quel modo con imposte eccessive. Quindi si dichiaravano avversi a queste imposte, e ciò non tanto per il danno che ne resultava immediatamente al paese quanto e più per tema dell’avvenire. Infatti essi prevedevano che il conte di Cavour voleva condurre il Piemonte a tentare imprese, il resultato delle quali ad essi sembrava più che problematico. Certo, lo scopo di queste poteva esser sublime, giacchè poteva condurre alla rigenerazione di tutta quanta la penisola e cambiare la corona della dinastia di Savoja nel serto fulgidissimo di re di Italia. Ma chi non sa che in quei tempi questa era stimata un’utopia da non potersi mai realizzare, e chi non sa che il magnanimo Carlo Alberto, perito vittima del suo splendido slancio, era chiamato da molti l’augusto sognatore.
Ora cotesti avversari politici del conte di Cavour, l’abile continuatore della politica Carlo Albertiana, non solo erano di buona fede quando combattevano questa politica, ma credevano anche trovarsi dalla parte della ragione, in quanto che, dicevano essi, il Piemonte non aveva che troppo sofferto delle campagne del 48 e 49 e dell’invasione austriaca, per poter pensare senza quasi demensa a rimetterlo a cozzare coi suoi terribili nemici.
Essi non erano tanto municipali da non volgere uno sguardo all’Italia, ma questo sguardo, serviva appunto a mostrare all’animo loro tetrissimi i colori del quadro ella penisola, tanto che non potevano pensare per un tempo più o meno prossimo ad un ammegliamento considerevole nella situazione, e quest’ammegliamento erano soltanto disposti a ripetere dal progresso della civiltà generale.
E bisogna saper grado al conte di Cavour di esser riuscito a vincerla contro tali avversari, i quali, come il Revel e il Ghiglini, avevano studio, eloquenza e la parte bella sotto tutti i rapporti.
Però il Ghiglini quando parlava contro il Cavour, e ciò gli accadde molte volte e sempre in discussioni capitalissime, si serviva di armi cortese, tanto che il grand’uomo di Stato gliene sapeva buon grado e complimentava soventi il suo avversario politico, una volta fuora dello steccato, della gentilezza tutta cavalleresca delle forme da esso adoperate.
Ma la pugna entro l’aringo parlamentare non bastava a quei robusti atleti e un altro campo chiuso essi avevano nel giornalismo.
Come lo si ricorda il conte di Cavour aveva fondato il Risorgimento e non mancava giorno ch’egli non vi appoggiasse o vi facesse appoggiare dal Farini ed altri suoi intimi amici, la nobile causa che aveva preso l’impegno di far trionfare.
La destra moderata senti, dal canto suo, il bisogno di aver un organo da opporre a quello del terribile antagonista e fondò a sua volta la Patria, della quale furono redattori i più importanti corifei di quel partito, tra i quali principalissimi il Revel e il Ghiglini stesso.
La lotta ricominciò più accanita che mai, e si può dire che ogni colpo portava e malmenava fieramente uno dei combattenti. — Finalmente il provvidenziale e definitivo trionfo dei Cavouriani, che di già nel 1854 avevano riportato una segnalata vittoria, riuscendo a determinare la spedizione di Crimea, valse a sgominare quasi affatto il partito avverso che da quel momento rinunciò ad una vana resistenza, o, per meglio dire scomparve, una volta stretta l’alleanza francese e non appena s’udì tuonare il cannone di Palestro e di Magenta.
Il Ghiglini si ritrasse in quella circostanza nella vita privata, e si rimise ai suoi studi.
Egli aveva torto. Niuno sconosceva la rettitudine delle intenzioni che aveva sempre messo nelle lotte parlamentari alle quali aveva presa principalissima parte.
Un uomo come lui, esperto ormai per lunga e fruttuosa pratica del maneggio dei pubblici affari, non doveva adirarsi o fare il broncio e tenersi in disparte perchè felicemente, per l’Italia, le sue previsioni scoraggianti, non eransi avverate, e in luogo di esse i sogni del loro avversario si erano realizzati meglio che fossesi mai potuto immaginare.
Forse il chiaro deputato temette che non avesse a farsegli buon viso, appunto perchè avversario costante e certo non privo di mente e d’abilità erasi dimostrato. Ma non conosceva egli il conte di Cavour? Non sapeva qual antagonista cavalleresco egli fosse, e come, ove di ciò fossevi stato d’uopo, egli si sarebbe trovato pronto a tendergli una mano amichevole onde aiutarlo a rientrare nell’arena?
Ma il Governo non volle ad ogni modo che tanto senno rimanessesi inoperoso, e il Ghiglini nel novembre del 1861, quando meno vi si attendeva, veniva elevato alla dignità senatoriale, e così rientrava per la gran porta in quella vita parlamentare ch’egli non avrebbe dovuto lasciare un solo istante.
Ed ora la parte ch’egli rappresenta in Senato è quella che meglio gli conviene e ne può tornare più utile al paese. La sua saviezza non disgiunta da convinzioni ferme, le quali non rifuggono dal progresso, ma mirano a contenerlo entro giusti limiti affinchè non possa divenire ma causa di danno o di rovina, gli danno un’autorità e un’influenza che non disconosciamo, e che ci sembrano meritate.
La parte attiva ch’ei prende nei lavori del primo corpo dello Stato, e l’abile e coscenziosa sua parola che spande la luce e porge savi consigli nelle discussioni solenni dei più importanti progetti di legge, valgono a provare sovrabbondantemente che noi eravamo dal lato della ragione, quando manifestavamo un ben sentito rammarico per la decisione antecedentemente presa dal Ghiglini di ritirarsi dalla vita pubblica.