Il Parlamento del Regno d'Italia/Cesare Braico II

Cesare Braico

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Pasquale Mazzoldi Urbano Rattazzi
Questo testo fa parte della serie Il Parlamento del Regno d'Italia


Cesare Braico.

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CESARE BRAICO


deputato.


Quando la tirannide copre l’uomo di nebbia — quando ella gl’interdice i mezzi di sviluppare le sue facoltà — quando lo separa dagli oggetti del suo amore — quando spegne le speranze da lungo tempo accarezzate e lo circonda d’un vuoto immenso, tra questo vuoto surge la poesia come il verbo della creazione. Ella ritrae il pianto e le aspirazioni del soffrente, profitta della stessa sua impossibilità di agire per dare ai sogni dell’azione proporzioni omeriche. La grande poesia è figlia della sventura; essa, come la Ninfea, nasce sulla verde acqua dove s’annidano e guizzano i rettili. Cesare Braico ha bastantemente salite le scale della infelicità per attingere a quest’alta poesia; egli è uno dei vati più casti e più gentili che han cantato sotto la scure dei Neroni.

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Cesare Braico, dunque, nato nel 1822 in Brindisi da parenti devoti ai principî liberali, venne giovinetto in Napoli, si diede al culto delle scienze naturali e professò medicina per tempo sotto gli ammaestramenti dell’illustre Dimitri. Nel vasto campo della scienza dove l’uomo s’avvezza a tenere per le loro chiome di fiamma le forze più formidabili della natura, egli acquista la superba coscienza della realtà umana, che gl’impedisce di umiliarsi innanzi al titanico fantasma del potere. Se dominati dalle loro sensazioni o dai loro interessi sovente gli artisti, i poeti, gli uomini politici ci hanno dato tristi esempi di debolezza e di servilità, i nomi dei Galileo, dei Cirillo, degli Arago, degli Humboldt rispondono sempre come simbolo della lealtà e della nobile fierezza, e su questi grandi tipi ispirandosi, Cesare Braico addivenne uno dei più ardenti campioni contro la tirannia della notte! Egli cospirò coi più distinti liberali del paese per distruggere gli oppressori e non esitò a gittare la sua vita sulla sanguinosa arena dove si giuocavano le sorti della tirannide e della libertà. Con pochi generosi promosse energicamente le agitazioni che respinsero sul labbro d’un re fedigrafo la menzogna d’una costituzione.

Il tradimento borbonico si smascherò, le barricate sursero, uno dei primi, il Braico vi salì, uno degli ultimi ne discese, insanguinato come la disfatta, ostinato come la speranza della sua nazione.

Per isfuggire una morte ingloriosa, latitò undici mesi, ma infine fu ghermito e chiuso nelle gemonie ove il dispotismo cercava spegnere la vita della libertà. Undici anni di galera gli sfiorirono crudelmente la gioventù della bella persona, ma gl’incrementarono la fede del cuore! Egli rimase tanto saldo a lei, per quanto la quercia si fa più forte alle scosse della bufera. Quando la tirannide borbonica, credendolo indebolito, viene ad offrirgli la libertà a prezzo di umiliazione, egli rifiuta sdegnosamente il velenoso dono della tirannide e rimane incatenato e superbo: la testa degli uomini liberi cade ma non s’inchina!

Dopo le galere viene l’esiglio — dopo le oscure notti della prigione, le nebbie dell’Inghilterra. In [p. 470 modifica]quest’ultimo paese, in questa grande officina della civiltà del mondo, ei si riabbracciò liberamente coi suoi fratelli di principî, e fra i palpiti del sentimento nazionale egli udì il risorgimento italiano tuonare nei campi di Lombardia.

Fu allora che diede un addio all’ospitale Albione, e corse a Torino mentre il genio di Garibaldi preparava la procella che doveva scoppiare a Marsala. Egli non aspettò per isfidar la tirannide, che la tirannide fosse morta. Sbarcò in Sicilia insieme con la procella, seguì passo a passo l’orma immortale che il piè d’Italia stampò da Marsala a Capua. Nella giornata del 1.° ottobre, nella quale la tirannide rimase affogata in un torrente di sangue generoso, alle cure del soldato ei mescolò quelle del medico, e spiegò nell’ajutare i feriti sotto una pioggia di ferro e di piombo, l’alacrità ed il sangue freddo, che avrebbe mostrato in un ospedale. Dopo la battaglia, Garibaldi, che esultava ad ogni prova dell’eroismo italiano, disse a Braico — Voi vi siete comportato da prode! ho il piacere di stringere la mano di un valoroso, e ve ne ringrazio in nome della patria comune.

Oggi in Italia non vi ha tempo al riposo; invano lo stanco operajo vorrebbe sdrajarsi sotto il tetto paterno. Avanti, avanti, gli grida la patria. Siete stato martire jeri, siate soldato oggi, e sarete legislatore domani: il riposo dei patrioti è nella tomba!

Sempre attento a quella voce sacra, incaricato dai suoi concittadini di rappresentarli, Cesare Braico siede in Parlamento sullo stallo che ha sempre ricercato nella vita: al posto della lotta, dove non si dipende da nessuno, dove non si è che l’eco fedele dei bisogni della patria. Egli si trova nella schiera della sinistra e non discontinua coi suoi colleghi di spronare l’inerzia del governo e di mostrargli l’Italia vacillante sull’orlo dell’abisso dal quale uscì jeri.

Non trascuriamo di dire che questa ricca natura non ha potuto tutta spendersi ed esaurirsi in lotte e dolori. Braico ha ancora avuto il tempo di coltivare le muse e di acquistare una conoscenza profonda delle letterature straniere. Alla vista di quella vita sì [p. 471 modifica]completa noi siamo costretti ricordare gli antichi romani di cui parla Montesquieu, che erano nello stesso tempo militari, politici, legislatori, letterati, e ci diciamo con gioja: no, l’Italia non è degenerata, e di lei non si sono mutate che le forme esteriori. La battaglia di Marsala vale quanto l’aulica battaglia del fiume Alia. — La croce dei Mille e quella di Savoja che splendono sul petto di Braico hanno la stessa significazione dell’alloro che cingea le fronti dei vincitori romani.