Il Parlamento del Regno d'Italia/Alfonso La Marmora
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deputato.
Alfonso Ferrero della Marmora discende da famiglia nobile e antica, originariamente fiorentina, ma stabilitasi in Piemonte, a Biella, fin dal secolo decimosesto. Alfonso è nato in Torino nel 1804 ed è entrato di buon’ora all’Accademia militare, dalla quale è uscito nel 1825 col grado di sottotenente d’artiglieria. Il futuro generale d’armata era dotato di non comune ingegno, di molto gusto per la carriera militare e di quella fermezza di volontà che porge quasi sempre a chi ne va fornito, prima o poi, l’occasione di riuscire in ciò ch’egli intraprende.
L’esercito piemontese al tempo in cui il Lamarmora prendeva posto nelle sue fila era ben poca cosa. Certo, non mancava di disciplina, ma era più un esercito da parata che una truppa animata da vero ardore marziale e dalla speranza di dedicare il proprio braccio alla salvezza della patria. Le promozioni non avevan luogo che per anzianità, o per favoritismo di corte, e le occasioni di distinguersi e di farsi conoscere più istruito e più valoroso de’ proprî colleghi quasi assolutamente mancavano. Alfonso Lamarmora non si lasciava tuttavia scoraggiare dall’arida prospettiva che gli si parava dinanzi, e accogliendo speranze di mutamenti nei destini della patria intraprendeva lunghi viaggi all’estero onde accrescere le proprie cognizioni militari. A tale oggetto visitò la Francia, la Spagna, l’Inghilterra, la Germania, l’Egitto e l’Algeria, ove seguì le truppe francesi durante taluna delle spedizioni ch’esse facevano contro l’emir Abd-el-Kader.
Malgrado tanto buon volere, sembrava non glie se ne tenesse gran conto, dappoichè egli dovette restare per ben sette anni luogotenente, e non si fu che all’avvenimento al trono di Carlo Alberto che il Lamarmora era alfine promosso al grado di capitano.
Il nuovo re di Sardegna, che maturava grandi progetti, e che comprendeva che per l’eseguimento di tali progetti gli era d’uopo poter far calcolo sovra un esercito ben disciplinato, non solo, ma che potesse stare sotto tutti i rapporti a livello degli altri eserciti stanziali europei, cominciò a iniziare delle riforme, delle quali il primo corpo ch’ebbe a risentirne gli effetti si fu appunto quello dell’artiglieria.
Al Lamarmora fu in parte affidata l’opera importante dell’introduzione delle divisate riforme, mentre fu messo a capo della scuola di equitazione stabilita alla Veneria, e fu anche incaricato di provvedere all’ammegliamento delle razze dei cavalli da traino.
Il Lamarmora, col carattere attivo, intraprendente e perseverante che ognun gli conosce, si dette a tutt’uomo all’adempimento di quelle incumbenze, nelle quali riuscì al di là di ogni aspettazione, non trascurando intanto di mettere a profitto tutto quel po’ di tempo che gli rimaneva di libero per istudiare quante novità utili venissero adottate in tulle le armate straniere, e vedere se potessero essere introdotte nella piemontese.
Gli sforzi del futuro ministro della guerra per istruir sè e migliorare l’armata nazionale sono tanto più da apprezzarsi in quanto che, se le riforme di cui egli nella sua sfera si faceva un caldo fautore erano benevise al re, pure incontravano una quantità indicibile d’ostacoli per parte di quei capi, cui tutte le innovazioni erano in orrore, un po’ per pregiudizio, un po’ per non volersi dar la briga d’apprendere cose nuove e di uscire dalla carreggiata. Nonostante, dopo avere operata la rimonta dei cavalli per l’artiglieria, Alfonso Lamarmora organizzò le scuole pei sott’ufficiali e pei soldati, le quali ultime riuscirono della più grande utilità.
Ma le riforme militari per essere radicali e di una vera importanza dovevano essere accompagnate dalle politiche; e queste alla fine s’iniziarono nei 1847 ed aprirono un nuovo e più vasto campo ai soldati subalpini divenuti i propugnatori dell’indipendenza nazionale.
Lamarmora, all’aprirsi della guerra del 1848, ebbe il comando d’una batteria, e si segnalò più volte durante la campagna, e sopratutto alla battaglia di Pastrengo, ove contribuì forse alla vittoria. Da quel momento Carlo Alberto lo distinse particolarmente e lo chiamò ne’ propri consigli e lo avvicinò maggiormente alla propria persona. Alfonso Lamarmora dovette a ciò se gli fu dato di potere accorrere con poche truppe in soccorso del Re, quando questi nella funesta giornata del 5 agosto si vide circondato da una plebe tumultuante entro il palazzo Greppi in Milano.
Poco tempo dopo egli era promosso al grado di maggior generale, e dappoichè Carlo Alberto comprendeva che per riordinare con qualche efficacia l’armata, dopo i disastri della campagna era necessaria una mano abile e ferma, chiamò il nostro protagonista al ministero della guerra.
Ma appena appena aveva egli incominciata l’opera sua difficilissima, che gli fu giuocoforza ritirarsi insieme ai suoi colleghi, per cedere il posto a coloro che si preparavano a ribandire la guerra per condurci alla funesta rotta di Novara.
Quando questa fu dichiarata, al Lamarmora venne dapprima affidato il posto di capo dello stato maggiore generale del generale in capo, il polacco Czarnowski; ma poscia alla testa di una divisione fu inviato in Toscana per ristabilirvi l’autorità del granduca.
Se non che questo intervento non avendo più potuto aver luogo, il Lamarmora, valicati gli Appennini con una marcia faticosissima, si trovava già presso Piacenza, quando apprendeva la funestissima notizia della rotta di Novara, e riceveva quasi contemporaneamente dal proprio governo l’ordine di retrocedere e valicare di nuovo l’Appennino per recarsi a sottometter Genova ch’erasi insorta.
Noi non ci estenderemo sul modo pronto ed abile col quale in men di due giorni i ribelli furono debellati, e la città dei dogi ridotta di nuovo a far parte di quel regno sabaudo di cui era uno dei più preziosi giojelli. — Certo si deve saper grado al Lamarmora di aver condotto con estrema vigoria l’attacco onde la guerra civile non avesse campo d’ingigantirsi e di estendersi. Nell’anno susseguente, il 2 di novembre Vittorio Emanuele, cui piaceva assai il carattere franco e schietto del generale, tornò ad affidargli il portafogli del ministero della guerra ch’esso, come ognun sa, ha conservato quasi senza interruzione fino al 1860.
Le più importanti riforme introdotte in questo lasso di tempo nell’armata da Lamarmora furono due: l’epurazione degli ufficiali e l’istituzione della 2.a categoria.
Il Lamarmora non era uomo da ammettere tutte le innovazioni alla cieca. Guardingo assai, e diffidente sopratutto dell’utilità di sconvolgimenti e agitazioni politiche, le quali non credeva valessero a mutare così per fretta e durevolmente la situazione delle cose in Italia, egli, a vero dire, non si è dato gran premura di nazionalizare l’esercito introducendovi il più che poteva gli altri elementi italiani estranei al Piemonte, che anzi si è mostrato estremamente difficile nel conservare tra le sue file quelli che eranvi stati ammessi durante le campagne del 1848 e 1849. Ma tuttavia ha data tale solida organizzazione all’armata, e l’istituzione stessa della seconda categoria ci sembra misura così efficace per accrescere le file dell’esercito in tempo di guerra, come anche per rendere la leva meno onerosa in tempo di pace, che noi non sappiamo disconoscere che il Lamarmora come ministro della guerra abbia reso importanti servigî allo Stato.
Sopraggiunse il momento della guerra di Crimea, e sebbene si ritenga per sicuro che il nostro protagonista non potesse dirsi appartenere al numero dei suoi più caldi fautori, tuttavia quando si trattò di scegliere un capo a guidare il piccolo esercito che la Sardegna inviava ad aumentare le file degli oppugnatori di Sebastopoli, la scelta corse naturalmente sopra il Lamarmora. Questi prese tosto a cuore l’impresa e si dette a provvedere di tutto il bisognevole i propri soldati, tenendo conto di quanto la Francia e l’Inghilterra avevan successivamente giudicato necessario di fornire ai loro per renderli più atti a resistere alle durezze inaudite di una campagna d’inverno in quelle desolate regioni.
Il corpo d’armata affidato al Lamarmora ammontava a circa 17,000 uomini, ed era animato da uno spirito veramente pieno d’ardore. Bisognava dar saggio alle truppe degli eserciti alleati che gl’italiani erano degni di star loro a fianco, e che le disfatte di Custoza e di Novara dovevano piuttosto essere attribuite alle fatalità che a mancanza di coraggio e di disciplina. Bisognava dare un nuovo e glorioso battesimo alla bandiera tricolore fregiata dello scudo di Savoja, bisognava insomma mostrarci degni anche pel vigore e la maestria dell’armi, come già ci mostravamo tali pel senno dei nostri governatori e de’ nostri legislatori, di assiderci al gran banchetto delle nazioni.
Il Lamarmora non era uomo da venir meno all’importanza dell’alto incarico che gli era affidato, e si può dire senza ombra di adulazione ch’egli ne adempiè in ogni occasione tutti gli obblighi con pieno soddisfacimento della nazione. Egli comprese che perchè quello sforzo, quasi gigantesco pel piccolo Piemonte, e che costava certo non lievi sacrifizî, potesse partorire tutti i grandiosi resultamenti che quel gran genio del conte di Cavour aveva preveduti doverne arrivare per l’avvenire della penisola, era di mestieri che il generale in capo dell’esercito italiano valesse ad inalzarsi e a conservarsi a quell’altezza che lo ponesse a livello degli altri generali in capo, come più tardi il rappresentante della Sardegna al congresso di Parigi si poneva a paro dei plenipotenziarî delle grandi nazioni. Nè fu agevolissimo dapprima il compito del generale Piemontese, in quanto che il generalissimo inglese aveva in certa qual guisa considerato il corpo d’armata sardo come un soccorso a lui specialmente inviato, e sembrava disposto a volerla veder dipendere dai suoi ordini immediati. Ma il Lamarmora seppe rivendicare la propria indipendenza e colla sua fermezza e colla dignità che gli è propria si fece ammettere nei consigli dei generalissimi delle armate alleate, ed in quelli discusse qual sarebbe stato il posto più conveniente al rinforzo ch’egli guidava, e si fu anzi sulla sua proposta che gli fu concesso quello di Kadikoc, posto di molta importanza. Noi non parleremo dell’eroismo ch’ebbero a dispiegare i nostri soldati alla battaglia della Cernaja, solo diremo che si deve in gran parte alla vigilanza del Lamarmora se gli alleati non furono sorpresi in quel rilevantissimo fatto d’arme dall’improvviso attacco dei Russi. In quell’occasione i più eroici soldati d’Europa ammirarono il contegno delle truppe piemontesi e le proclamarono non inferiori alle migliori del mondo. E di questo onore, il ripetiamo, bisogna attribuirne in gran parte il merito al Lamarmora.
Ma per lasciare ormai il militare da parte e per discorrere dell’uomo politico, noi diremo francamente che non pensiamo che il Lamarmora abbia in questa qualità un’individualità ben distinta. Egli naturalmente è l’uomo dell’ordine, è un conservatore, ma che non rifugge dal progresso, sebbene intenda non mettersi troppo in furia sulla sua via.
La sua principale qualità, a detto di quanti lo conoscono a fondo, è di essere un eccellente amministratore. Intelligente, economo, dotato di un’attività proprio straordinaria, vede tutto co’ suoi proprî occhi, pesa tutto, risolve con prontezza e sa trovar pronto il rimedio a danni che a prima vista potrebbero sembrare i più irreparabili. Ma ha forse il difetto di essere di soverchio minuzioso, sicchè in certe circostanze lo si è accusato perfino di meschinità e gretteria, e quella tenacità di proposito, che è in molte occasioni uno dei pregi del suo carattere integro e leale, non manca talvolta di prendere l’aspetto d’una ostinazione che i suoi avversarî caratterizzano di caparbietà.
Come membro del Parlamento, il Lamarmora, deputato di Biella, sembrava dapprima non potere mai essere oratore, tanto la sua parola era imbarazzata e disadorna. Ma poco a poco ella si è fatta più spontanea, più facile, più eloquente, e a quest’ora, sebbene abbia sempre conservato quella sorta di franchezza e talvolta di rudezza militaresca che non è propriamente un difetto in un generale d’armata, essa suol cattivare l’attenzione della Camera non solo, ma viene ascoltata con soddisfacimento.
L’incarico che il ministero Ricasoli affidò al generale Lamarmora e ch’egli tuttora sostiene nelle province napoletane, vale a dare un’alta idea della sua capacità amministrativa. Ove si rifletta che molti uomini eminenti si sono succeduti al timone dell’ex reame di Napoli, senza sapervisi mantenere al di là di pochi mesi, e ch’egli già da molto tempo vi si sostiene, non solo, ma vale realmente a padroneggiare la situazione e a mettere l’ordine e la quiete in quel caos di confusioni d’ogni maniera, si dovrà convenire che le alte qualità da noi attribuite all’illustre personaggio di cui abbiamo descritta la vita, esistono in lui incontestabilmente e ne fanno uno degli uomini i più chiari della nostra epoca.