Il Leone di Damasco/XXIV. La battaglia di Lepanto

XXIV. La battaglia di Lepanto

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XXIII. Le frecce infiammate Conclusione

XXIV.

La battaglia di Lepanto


I fuggiaschi si erano appena imbarcati, che la squadra veneziana, non aumentata da nessun legno, malgrado le larghe promesse della Serenissima, salpava le ancore e spiegava le vele. Una grande speranza animava quei prodi: di trovare finalmente a Messina, riunite tutte le galere delle potenze marinaresche cristiane.

Il grande colpo ormai era stato deciso per fiaccare l’orgoglio, o meglio, l’insolenza mussulmana, da Venezia, che sempre alla testa d’ogni audace impresa nell’Oriente, come la maggior interessata, aveva insistito presso il Papa Pio V perché i più forti stati cristiani si unissero in lega.

Già tutti soffrivano della potenza e delle scorrerie turche, che, di quando in quando, intralciavano i commerci, catturando le navi a qualunque paese cristiano appartenessero, e condannando i disgraziati equipaggi alla dura manovra del remo sulle galere della Mezzaluna, senza nessuna speranza di poter un giorno rivedere le loro famiglie, poiché sempre incatenati e strettamente sorvegliati.

Fino dall’anno precedente, il Pontefice era riuscito a decidere la Spagna, che era la potenza marinaresca più forte della cristianità, ma che pei suoi fini politici avrebbe desiderato la completa rovina di Venezia, concorrente sul mare e sempre in armi nel Veneto per impedire l’assorbimento di quella grossa regione che Filippo II, più ambizioso di Carlo V, ma meno valente guerriero, già da tempo desiderava, per compiere poi la totale conquista dell’Italia.

Le flotte si erano riunite senza entusiasmi, salvo da parte dei veneziani, si erano limitate a mandare alcune squadre verso Cipro al comando dell’intrepido Veniero, poi erano tornate in Italia, lasciando solamente quel vecchio capitano con sole otto galere.

Impressionati dai massacri di Nicosia e di Famagosta, poi dalla presa di Canea e dell’assedio di Candia, gli alleati avevano finito per mettersi d’accordo e tentare un gran colpo, quantunque sapessero che la flotta mussulmana era potentissima, e guidata da un ammiraglio che era Ali Bascià, il terrore di tutti i naviganti.

Che ci fosse però poco entusiasmo, almeno da una parte degli spagnoli, che pur reputandosi i più cristiani di tutti, è un fatto constatato. Fuori che dai veneziani e i Cavalieri di Malta, si sarebbe detto che tutti gli altri ci tenevano poco a provare il filo delle scimitarre turche.

Nondimeno, verso i primi di settembre del 1571, una flotta imponente si era raccolta nel porto di Messina, in attesa del ritorno di Sebastiano Veniero. Il comando supremo era stato dato a Don Giovanni d’Austria, figlio naturale di Carlo V, giovane appena ventenne, pieno di fuoco, ma affatto ignaro di cose marinaresche.

Così aveva voluto Filippo II, e Venezia, allo stremo ormai delle sue forze, aveva dovuto subirlo, invece d’un Veniero o d’un Barbarigo, i due più celebri dell’epoca, che avevano sempre armeggiato contro i mussulmani, mentre gli spagnoli mai nulla avevano osato in Oriente e nemmeno in Occidente, in difesa della Croce.

Così, a poco a poco, in Messina si erano raccolte ben settantatré galere spagnole, poi sei maltesi, montate da prodi cavalieri, i più terribili nemici che avessero i mussulmani, quindi altre tre del duca di Savoia.

Più tardi si univano dodici galere del Papa, comandate da Marcantonio Colonna, uomo che godeva altissima fama di valoroso, poi sei immense galeazze piene di cannoni, mandate da Venezia, affidate al provveditore Agostino Barbarigo, un famoso capitano.

Altre poi più piccole si erano aggiunte più tardi ancora, in modo che l’imponente flotta poteva disporre di duecentoventi vele. Don Giovanni non attendeva che il ritorno di Sebastiano Veniero, che doveva portargli altre otto galere di rinforzo, oltre a equipaggi vissuti quasi sempre nelle acque dell’Oriente, e quindi abituati a menar le mani addosso ai seguaci della Mezzaluna.

A Selim II, allora Sultano, non erano sfuggite quelle manovre sospettose, e rammentandosi della comparsa audace, fatta anni prima, dal conte Morosini dinanzi a Costantinopoli, non aveva indugiato a chiamare a raccolta i suoi ammiragli, e cioè Ali Bascià, sempre in prima linea, Petew Pascià Vizir seraschiere, Uluge Ali, il Pascià Mucasizade Ali, i sangiacchi Giafer ed Hassan, per tenersi pronti a parare il gran colpo, col loro abituale valore.

Ali Bascià era stato il primo a muoversi, anche perché informato, fortunatamente troppo tardi, che vi erano galere a Capso e che dubitava appartenessero al Veniero. L’ammiraglio veneto già più volte era sfuggito miracolosamente ai suoi attacchi, sulle coste della Grecia, di Cipro, ed anche di Candia, ed il terribile corsaro algerino si era giurato, di scorticare vivo il glorioso marinaio, come Mustafà aveva scorticato a Famagosta il provveditore Barbarigo.

Sicuri i mussulmani, che gli assediati di Candia, già stremati dalla fame, a corto di munizioni, completamente demoralizzati da quella lunga campagna, nulla avrebbero osato tentare contro i due giganteschi campi d’assedio, guardati ognuno da settantacinquemila uomini, avevano imbarcate frettolosamente le loro colubrine e le grosse bombarde, poi erano corsi a Capso.

L’ammiraglia del Bascià portava a bordo Haradja, Metiub, il suo formidabile capitano d’armi, ed il piccino del Leone di Damasco, che non avevano voluto affidare a nessuno.

Dopo una corsa disperata, le prime squadre irrompevano dentro le acque di Capso, pronte ad una distruzione generale, poiché erano in buon numero le galere e montate da equipaggi quasi raddoppiati.

Guai se il Veniero vi fosse stato sorpreso, colla sua squadra relativamente debole! Forse la battaglia di Lepanto si sarebbe risolta colla distruzione di tutte le navi della Lega.

Il vecchio marinaio veneziano, fiutato il pericolo, aveva già sgombrato, conducendo con sé il Leone di Damasco, la duchessa, Mico, Nikola ed il Pascià.

I cretesi avevano preferito rimanere ancora sulla loro infelicissima isola, sperando in tempi migliori.

Il Veniero non era sfuggito al Bascià che per un vantaggio di poche ore, e doveva veleggiare fino a Messina, dove, come abbiamo detto, le galere della Lega si erano radunate.

Una tempesta, dei venti contrari, un esaurimento nei rematori, ed il Bascià avrebbe potuto avere ancora la speranza di catturarla prima che vedesse le coste della Sicilia.

— Manderò un grosso cero alla Madonna della Salute — disse l’ammiraglio al Leone di Damasco ed alla duchessa, che non lo lasciavano un momento. — Poche ore ancora, e quel cane di Ali ci prendeva tutti e fors’anche ci scorticava tutti.

— Non temete un attacco durante il viaggio? — chiese Muley-el-Kadel.

— Quando sono sul mare, fra i miei legni, non ho paura di nessuno — rispose il valoroso vecchio.

— Non incontreremo altre squadre mussulmane?

— È impossibile, poiché tutte le galere che si trovavano nei golfi dell’Arcipelago, sono state richiamate per l’assedio di Candia. Vi dico che noi veleggeremo tranquillamente, e che fra cinque o sei giorni saluteremo l’Etna.

— E mio figlio, il mio piccolo Enzo? — chiese la duchessa. — Sarà ancora a bordo della capitana turca?

— Ne sono sicuro, signora — rispose l’ammiraglio — come sono sicuro che vi troveremo anche Haradja.

Un lampo pregno d’odio illuminò i begli occhi della duchessa.

— La piccola tigre d’Hussiff!... — disse, con voce rauca per la collera. — Che la trovi ancora, e le affonderò la mia spada nella gola, fino all’elsa. È stata troppo cattiva verso di noi quella donna, è vero Muley?

— Sì, Eleonora — rispose il Leone di Damasco. — Ci sarò però anch’io in quel momento, e saranno due i colpi che riceverà quella perfida donna.

— Serbate il vostro per il Bascià — disse l’ammiraglio. — Vostra moglie saprà sbrigarsela senza il vostro aiuto.

— Sì, a te Haradja, Eleonora, ed a me la vita del Bascià.

— Ed a me quella del capitano d’armi della piccola tigre — disse il padre di Muley, comparendo sul ponte di comando. — Così ognuno avrà il proprio lavoro, è vero, signor ammiraglio?

— Non siete più turco, dunque, signore?

— No!... No!... — gridò il Pascià. — Diventerò cristiano come mio figlio se riusciremo a raggiungere la terra italiana.

— Finalmente!... — esclamò Muley-el-Kadel, gettando le braccia al collo del genitore. — La Croce ti ha toccato.

— Credo di sì, figlio mio — rispose il Pascià. — Ero stanco di appartenere ad una nazione così barbara che non parla che d’impalare e di scorticare. Sia dannato quel bugiardo di Maometto, che ha fatto di noi, prodi e valenti guerrieri, tanti selvaggi assetati continuamente di sangue umano.

— La colpa maggiore, signore, è dei sultani — disse Sebastiano Veniero. — Non hanno mai cessato di chiedere carne cristiana, come se noi fossimo stati creati per provare tutte le atroci torture che sogliono usare i vostri compatrioti. Si direbbe che credano che la nostra pelle è diversa dalla loro, ed i nostri nervi meno sensibili.

— Avete ragione, signor ammiraglio — rispose il Pascià. — Ma io credo che anche per i sultani cominci la decadenza. Chi vivrà vedrà.

La squadra intanto, preceduta da una sottile gagliotta, mandata all’ammiraglio da Don Giovanni d’Austria, per affrettarne il ritorno, veleggiava e remava nelle limpide e tranquille acque dell’Arcipelago greco, tenendosi costantemente in guardia. Le squadre, ormai riunite, dei mussulmani, la perseguitavano forse ad una distanza di cinquanta miglia, facendo sforzi disperati per piombare sui deboli veneziani prima che potessero congiungersi cogli alleati.

Le galere che il Bascià, preceduto dal corsaro Carrascosa, che comandava le più leggere e le più veloci, conduceva alla caccia, erano duecentottanta, montate da ottantamila marinai anelanti di stragi cristiane.

Speravano sempre, quei barbari, che qualche tempesta sorprendesse il Veniero e lo sbattesse sulle coste della Morea o di Negroponte, ma come abbiamo detto, avevano da fare con un marinaio troppo abile e troppo risoluto.

L’ammiraglio infatti, accortosi dell’inseguimento dei nemici, temendo di venire raggiunto dalle navi più rapide e trattenuto, aveva fatto mettere tutte le prore verso le coste della Sicilia, raccomandando a tutti di tenersi uniti.

Sapeva che la sua squadra era assolutamente necessaria alla Lega, la quale, con tutti i suoi sforzi, si trovava ancora inferiore ai figli della Mezzaluna e con ottomila uomini di meno. Fortunatamente il vento erasi mantenuto sempre propizio, sicché tutti gli sforzi del Bascià a nulla avevano approdato, fuorché a stancare immensamente i suoi rematori che le nerbate, dispensate senza misericordia, non potevano certamente rimettere in forze.

Il Veniero, forzando sempre, e ormai certo di non poter essere più raggiunto, un bel mattino del mese di settembre, dopo una corsa meravigliosa, giungeva in Messina, dove le flotte degli alleati lo aspettavano ansiosamente, poiché tutti avevano una immensa fiducia in quel vecchio ed audace capitano. Vedendo apparire le bandiere della Repubblica, un vivo entusiasmo si era manifestato fra tutti gli equipaggi.

Sparavano le galere salutando il valoroso che aveva saputo ricondurre ancora intatta la sua squadra; tuonavano le batterie di terra, mentre il popolo si rovesciava sulle ampie gettate, applaudendo freneticamente.

Don Giovanni d’Austria aveva subito fatto innalzare sulla sua capitana lo stendardo della Lega, offertogli dal Papa, e che aveva ricevuto con grande pompa a Napoli alcune settimane prima, ed aveva invitato il vecchio guerriero a recarsi da lui per accordarsi con tutti i capitani. Grande fu però lo stupore del Leone di Damasco e della duchessa, vedendolo tornare, verso il tramonto, a bordo dell’ammiraglia, col viso assai oscuro.

— Si direbbe che non siete contento del consiglio di guerra tenuto sulla grossa spagnola — disse Muley-el-Kadel. — Eppure eccoci in mezzo ad una flotta che potrà spaventare il Bascià e tutti i suoi sangiacchi. Mai si sono radunate, io credo, tante navi da guerra in un porto.

— È vero, Muley — rispose l’ammiraglio, il quale pareva di assai cattivo umore. — Se io comandassi tutte queste squadre, vi assicuro che andrei a Costantinopoli a far tremare il Sultano.

— Che cosa c’è dunque di nuovo? — chiese la duchessa.

— Che gli alleati, pur essendo animati da un gran desiderio di sbarazzare tutto il Mediterraneo orientale dagli scorridori turchi, come l’anno scorso, non sanno decidersi.

— Don Giovanni avrebbe paura? — chiese il Leone di Damasco.

— Lui no, poiché è un giovane valoroso che non sogna che la gloria, ma deve fare i conti con Filippo II, il quale pare tema assai per le sue galere.

— Sicché rimarremo qui.

— Hanno saputo che Venezia ha mandato un’altra squadra sotto il comando di due intrepidi capitani, che io conosco personalmente: Canal e Quirini.

— E vogliono attenderla?

— Sì, Muley, così intanto i turchi avranno tutto il tempo per radunare le loro ultime navi. Rimanere qui inoperosi, con ottantamila uomini, è un delitto.

— Cercate d’imporvi a Don Giovanni.

— Lui è figlio, sia pure naturale, d’un re, e per di più d’uno dei più famosi che abbia avuto la Spagna, ed a me non spetta che chinare la testa e passare in seconda linea — disse l’ammiraglio, con voce amara. — Dopo tanti anni di navigazione e tante vittorie, non dovevano mettermi sotto gli ordini d’un giovane che per la prima volta vede i turchi e monta una galera di battaglia.

— Il Senato veneziano non doveva sacrificarvi così — disse la duchessa. — Avrebbe dovuto opporsi.

— Ed allora, signora, per la seconda volta la Lega si sarebbe sciolta senza sparare una cannonata e senza arrembare una miserabile gagliotta inalberante i colori della Mezzaluna.

— E così? — chiese Muley, con una profonda apprensione, pensando al figlio che il Bascià teneva fra le sue ugne.

— Aspettiamo — rispose l’ammiraglio, il quale appariva assai scoraggiato.

— Giungerà la squadra del Quirini e del Canal?

— Chi potrebbe dirlo? Sta scendendo l’Adriatico, battuto ormai spavaldamente da navi mussulmane le quali potrebbero, in qualche luogo, sorprenderla ed opprimerla. Confidiamo in Dio e nella Croce.

E le galere della Lega, quantunque abbastanza forti per cimentarsi in un combattimento, rimanevano neghittose nel porto di Messina, lasciando così ai mussulmani maggior tempo per raccogliere tutte le loro forze e per scegliere il miglior posto per attendere gli avversari. Non andavano affatto d’accordo i capitani cristiani.

Gli uni avrebbero voluto spingersi direttamente al largo alla ricerca della formidabile squadra del Bascià, ma erano ben pochi; gli altri continuavano a consigliare la prudenza e l’attesa dei rinforzi che Venezia, quantunque esausta, aveva promessi.

Veramente non vi era che il Veniero che spingeva alla guerra a fondo, trattenuto però dal conte Agostino Barbarigo, provveditore generale della Repubblica.

Aveva il vecchio guerriero tentato perfino di mettersi d’accordo col Colonna per fare una scorreria, onde decidere gli altri a seguirli, ma il leale romano, pur approvando le ragioni dell’ammiraglio, vi si era rifiutato, temendo per le galere del Papa.

Finalmente, verso la metà di settembre, la squadra condotta da Antonio Canal e dal Quirini, dopo essere passata meravigliosamente fra le insidie turche, affondava le sue ancore nel porto di Messina, a rendere potentissima la già formidabile flotta dei collegati.

Ormai nessun pretesto poteva trattenere Giovanni d’Austria, e così pure i troppo prudenti capitani, sicché la mattina del 16 la grande armata salpava, risoluta a non tornare vinta. Sebastiano Veniero era riuscito a decidere tutti i capitani, guastandosi però col figlio di Carlo V, che lo riguardava, quasi, come un intruso.

Erano giunte notizie che le galere turche, invece di avvicinarsi alle coste della Sicilia, si erano rinserrate nel porto di Lepanto, luogo sicuro, perché difeso da molte scogliere.

Nemmeno però la vicinanza dei nemici aveva sopite le invidie fra i diversi capitani. Erano soprattutto gli spagnoli, che colla loro insolenza, mettevano un continuo scompiglio fra gli equipaggi, specialmente veneti.

Il focoso Veniero, fatto più ardito dall’imminenza della grande battaglia, a rischio di rompere la Lega, non tardò a dare un terribile esempio a quei prepotenti caballeros. Alcuni marinai, aizzati dal capitano Scalera, imbarcati sulla galera veneziana di Andrea Calergi, avevano suscitato un gran tumulto, usando perfino le armi. Il Veniero passa sulla galera in subbuglio, fa prendere il capitano e due marinai spagnoli, e li fa impiccare alle antenne.

L’affare era grave. Don Giovanni d’Austria, che già mal tollerava il Veniero, non poteva correre in aiuto dei suoi compatrioti, e per un momento si temette che tutte quelle navi destinate a distruggere la flotta turca, si distruggessero fra di loro, prima di giungere a Lepanto.

Gli altri capitani però, che si sentivano più sicuri col vecchio ammiraglio che col giovane spagnolo, accomodarono, dopo lunghe trattative, le cose. E fu convenuto che da quel momento l’ammiraglio non avrebbe più veduto il giovane, e che gli ordini sarebbero stati trasmessi a mezzo d’intermediari. Tutte quelle questioni non facevano altro che ritardare la marcia della flotta e demoralizzare gli equipaggi.

Era giunta alle Gomenizzi nell’Epiro, però invece di andare subito in cerca dei mussulmani, si era messa a fare delle inutili e spavalde evoluzioni, per ancorarsi nel porto di Guiscardo.

Dobbiamo dire però che anche il Bascià, avendo maggiori forze, non mostrava affatto di aver premura di giungere al tremendo cozzo di tante centinaia di navi.

Non era certo Giovanni d’Austria che lo preoccupava, bensì il sempre vittorioso Sebastiano Veniero, che mai, per quanti agguati gli avesse tesi, e sulle coste di Cipro e su quelle di Candia, era riuscito a catturare. Dopo parecchie e sempre inutili evoluzioni, la squadra possente degli alleati, muoveva finalmente decisa verso le Curzolari, le antiche Echinadi, avendo ormai saputo che il Bascià si celava in Lepanto, mettendosi in ordine di battaglia.

Si era divisa in tre grosse squadre: alla destra vi era Giannandrea Doria, con cinquantacinque galere; al centro Don Giovanni d’Austria con Sebastiano Veniero e Marcantonio Colonna, con sessantadue galere; alla sinistra Agostino Barbarigo, provveditore di Venezia, con altre cinquantatré galere. In coda venivano altre trentasette galere, con molte navi minori, al comando del marchese di Santa Croce.

Il 7 ottobre del 1571, verso l’una e mezzo, le due squadre avversarie si trovano improvvisamente di fronte, dentro il canale di Lepanto. Il momento era terribile: o trionfava la cristianità, o restava l’Islam a continuare i suoi massacri.

Giovanni d’Austria, quantunque appena ventenne, dà ordine alle squadre di schierarsi, poi le passa rapidamente in rivista, e giunto dinanzi alla capitana del Veniero, il quale stava ritto sul ponte di comando, senza elmo e colle babbucce, poiché la ferita non si era ancora rimarginata, dimenticando i rancori vecchi e recenti, dopo d’averlo rispettosamente salutato, come a consiglio ed a conforto gli domanda ad altissima voce:

— Che si combatta?

Il vecchio ammiraglio, dopo d’aver reso il saluto, rispose pronto con queste parole:

— È necessità e non si può far di manco.

E l’imponente flotta allora si avanzò, mentre sull’ammiraglia di Don Giovanni veniva spiegato lo stendardo della Lega, donato dal Papa. Erano duecentotredici navi cristiane che stavano per misurarsi in un duello mortale con duecentottanta turche.

Lo spettacolo che offrivano le due flotte in quel momento, era meraviglioso ed anche terrificante. Tutti i ponti si erano coperti di guerrieri, di archibugieri, di artiglieri e di balestrieri. Il sole, caldissimo, faceva scintillare le corazze, gli elmi, gli scudi, gli acciari di quella gran massa di gente, e faceva risaltare vivamente, soprattutto, gli alti fanà dorati che ornavano i casseri.

Vi fu tuttavia un momento ancora di esitazione da parte dei turchi, del quale approfittarono i cristiani per ammainare tutte le bandiere, per non lasciar visibile che lo stendardo della Lega, rosso fiammante con un gran crocifisso ricamato in mezzo, e per farsi dare la confessione generale dai cappuccini che correvano sui ponti incitando i combattenti, e rammentando loro che tutti gli occhi della cristianità li seguivano anche da lontano.

Ne approfittarono altresì per riordinare meglio la loro linea di battaglia, distendendo molto la fronte ed appoggiando le ali estreme alle vicine scogliere, per impedire agli avversari di salvarsi in mare.

Un colpo in bianco, sparato dai turchi, e che voleva essere una intimazione di resa per le navi cristiane, dà il segnale della battaglia. Don Giovanni d’Austria fa rispondere a quel colpo facendo sparare a palla il più grosso cannone dell’ammiraglia.

Tutte le galere, con gran furia di remi, giacché tutte le vele erano state abbassate, essendo in quel momento più d’impiccio che di utilità, si precipitano le une addosso alle altre per venire all’abbordaggio. Ali Bascià era stato pronto a muoversi per correre sull’ammiraglia cristiana che credeva facilmente di espugnare, mentre Ali Silocco correva ad assaltare le navi di Barbarigo, coprendole con una ininterrotta pioggia di frecce.

In un momento la battaglia diventa generale, spaventosa. Più di ottocento cannoni tuonano, con un rimbombo assordante, da una parte e dall’altra, coprendo i ponti delle galere d’un densissimo fumo.

Sebastiano Veniero che ha scorto il pericolo che corre Don Giovanni d’Austria, si fa innanzi colle sue galere, mentre i turchi, con una mossa ammirabile, avevano ormai quasi circondata la squadra del Colonna.

Con terribili scariche d’artiglieria e di archibugi, per un’ora e più, il valoroso vecchio riesce a trattenere l’ammiraglia del terribile Bascià, deciso ad arrembare prima di tutte l’ammiraglia della Lega, e d’impadronirsi del suo giovane comandante, ma poi, quasi esaurite le munizioni, muove al soccorso col suo equipaggio, fidando nell’abilità dei suoi capitani che si difendono disperatamente quasi addosso agli scogli.

Chi in quel momento si trovava in estremo pericolo era la capitana del Barbarigo. Stretta da tutte le parti da ben quattro grosse galere che saettano i suoi ponti, abbattendo un gran numero di veneziani, sta per essere abbordata e presa, quando il suo capitano ha un lampo di genio.

Nelle corsie vi sono trecento galeotti, i cui remi ormai non servono più a nulla. Si precipita fra di loro seguito da parecchi uomini armati di martelli per infrangere le catene, e promettendo loro di far ottenere la grazia dei loro delitti se sanno dimostrare di combattere da prodi, se li conduce sul ponte ormai in parte invaso dai turchi.

La pugna si rinnova con maggior furore. I galeotti, disprezzando la vita, si gettano sui seguaci della Mezzaluna che non volevano lasciare la galera, ed aiutati dall’equipaggio, ne fanno orrenda strage.

Le teste turche volano in mare senza interruzione, tingendo le acque fino allora limpidissime del canale. Già erano stati scacciati, quando un balestriere di Ali Silocco, senza dubbio abilissimo, vedendo il Barbarigo sul ponte di comando, che volta a volta allontanava lo scudo dal viso per far meglio udire i suoi comandi gli pianta una terribile frecciata, a punta dentellata, in un occhio.

Il disgraziato ammiraglio, per non scoraggiare l’equipaggio che continua a combattere rabbiosamente contro le genti di Silocco, rimane per mezz’ora sul ponte, senza mandare un grido, senza un gemito.

Cadde infine il valoroso e fu portato nella sua cabina, mentre affidava il comando della capitana a Federico Nani.

Mentre le galere maltesi e quelle della retroguardia entravano pure furiosamente in battaglia per aiutare i veneziani che erano più specialmente presi di mira dai turchi, perché più temuti, la grossa galera del Bascià, con una fulminea manovra e con un ardimento senza pari, aveva abbordata l’ammiraglia di Spagna.

Gli ottomani, dopo d’aver scaricate sulla coperta avversaria, tutti gli ultimi colpi delle loro grosse artiglierie, si erano slanciati, con grida spaventevoli, all’assalto dell’immenso castello di prora.

Gli spagnoli però, quantunque terribilmente decimati da quella scarica, alla voce del loro giovane e valoroso principe, avevano affrontati gli assalitori con tanto impeto, da poter saltare sulla grande galera turchesca e formare, fra il castello di prora e l’albero di trinchetto, come una muraglia di ferro, che non cedeva a nessun urto.

Sebastiano Veniero, che come abbiamo detto, si era promesso di vegliare sul figlio di Carlo V, e che voleva tentare il salvataggio del figlio del Leone di Damasco, piomba a sua volta sull’ammiraglia del Bascià abbordandola da poppa. Cinque guerrieri sono i primi a montare sul cassero, dove pochi turchi tentavano una troppo tarda resistenza: erano la duchessa, il Pascià, il Leone di Damasco, Mico e Nikola.

Menando rabbiosamente le mani si fanno largo, e guidati dall’albanese, che sapeva dove si trovava la cabina del fanciullo, si precipitarono nel quadro.

In quel momento un grido echeggiava: — Mamma!... Mamma...

Era stato il piccolo Enzo a mandarlo. La duchessa ed i suoi compagni si scagliano come cinque tigri, non più impugnando le spade, bensì le grosse pistole, e si trovano dinanzi ad Haradja ed al suo capitano d’armi, i quali tentano forse di gettare in mare il piccino approfittando dell’assenza del Bascià.

— Lascia mio figlio!... — urlò la duchessa, affrontando ferocemente la castellana d’Hussiff.

— Non prima d’averlo ucciso sotto i tuoi occhi — rispose la nipote del Bascià, tentando di estrarre una «misericordia» e di affondarla nel petto del piccino.

— Allora muori, infame!...

Due colpi di pistola rimbombarono, facendo tintinnare tutti i vetri del quadro, ed Haradja, che aveva la visiera alzata, cadde colla testa fracassata, lasciandosi sfuggire il piccolo Enzo.

Intanto Muley, il Pascià, Mico e Nikola si erano scagliati contro il capitano d’armi che tentava di accorrere in aiuto della sua padrona. La faccenda fu altrettanto spiccia. Il forte guerriero, crivellato di ferite, stramazzò a sua volta, con un gran rombo di ferraglia.

— Via!... — gridò la duchessa, prendendosi in braccio il fanciullo.

Salirono in coperta proprio nel momento in cui il Bascià, colpito da un’archibugiata, cadeva alla testa dei suoi guerrieri.

Un grido altissimo aveva coperto il rombo della moschetteria:

— Vittoria!... Vittoria...

I turchi, spaventati, ormai fuggivano, mentre la testa del famoso ammiraglio veniva tagliata e piantata su una picca altissima, affinché tutti potessero scorgerla.

Subito dopo lo stendardo della Mezzaluna veniva ammainato, ed al suo posto veniva innalzato lo stendardo della Lega.

Quanti turchi furono trovati sull’ammiraglia, ed erano parecchie centinaia, non ebbero nessuna grazia da parte degli spagnoli vincitori e dei veneziani di Veniero che erano pure montati all’arrembaggio, per proteggere più che altro la duchessa ed il Leone di Damasco.

Tutti furono ferocemente sgozzati e poi gettati in mare a gruppi.

Tuttavia la battaglia non era ancora decisa, anche se Ali Bascià e la castellana d’Hussiff erano morti e la grossa flottiglia conquistata. I turchi erano ancora abbastanza forti per far tremare la cristianità.

Il fuoco delle artiglierie era cessato e tutte le galere correvano all’arrembaggio per combattersi ad una ad una od a gruppi. E la battaglia divenne allora veramente spaventosa. Le spade cristiane trucidarono trentaseimila turchi, perdendo solamente ottomila uomini fra morti e feriti.

Alle sei di sera tutto era finito.

Le galere turche fuggivano dinanzi ai guerrieri della Lega, e piuttosto che arrendersi, andavano a spaccarsi contro le scogliere. Molte invece bruciavano lungo le spiagge coprendo l’aria d’immensi nuvoloni di fumo.

La cristianità aveva vinto e rovinato per molti e molti anni la potenza marinara turca.

All’ultimo colpo di cannone, annunciante la fine del combattimento e la raccolta della flotta, Sebastiano Veniero e Giovanni Colonna montarono sull’ammiraglia spagnola, e si gettarono, piangendo di commozione, fra le braccia del giovane principe, che, quantunque appena ventenne, aveva combattuto da fortissimo guerriero.

In quel momento spirava il Barbarigo, nella sua cabina, felice di aver appresa la notizia della grande strage.

Duecentoquattro navi turche erano state affondate; novantaquattro cacciate sugli scogli ed incendiate, e centotrenta altre erano state catturate, con trentamila schiavi cristiani dannati al remo, centodiciassette grossi cannoni, duecentocinquantasei di minor calibro, i fanà, le bandiere, compresa quella del Bascià, che figura ancora oggidì nell’arsenale di Venezia, le code del seraschiere ed altri magnifici trofei.

Inoltre i valorosi della Lega avevano fatti prigionieri 3.468 mussulmani, risparmiati perché i combattenti non avevano più forze per uccidere. Per due giorni il cielo di Lepanto fu oscurato dal fumo delle galere ancora brucianti, ed il mare rimase rosso per il gran sangue cadutovi dentro. Terminata la terribile pugna, Sebastiano Veniero mandava a Venezia la galera Angelo Gabriele, comandata da Oufredo Giustiniani, e sulla quale si erano imbarcati il Pascià di Damasco, suo figlio, la duchessa, il piccolo Enzo, Mico e Nikola.

Dieci giorni dopo, a gran furia di remi, e trascinando lungo le murate le bandiere turche, la galera entrava in Venezia pel porto del Lido recando la grande novella.

Il comandante era incaricato di recare al Senato la descrizione della battaglia, scritta tutta di pugno di Sebastiano Veniero. Merita di venire riprodotta.

“All’incontro di noi capitani, erano quattro galere con fanale, insegna di comando.

Don Giovanni investì Ali Bascià a prua per prua, ed io all’albero manco et Dio volle che tutti i colpi mi andarono per puppa. In quello sopraggiunsero quelli due valorosissimi gentiluomini, messer Cattarin Malipiero et messer Zuan Loredan che avevo mandati a chiamare e che valorosamente combattendo rimasero tutti doi morti. La mia galera con l’artellaria, archibusi et archi, non lasciava passare nessun turco dalla poppa del Bascià alla prova. Perilché Don Giovanni ebbe largo campo di montare all’arrembaggio le sue genti e conquistare il Bascià, il quale fu morto nella battaglia, et posso dire con verità che se non fosse stata la mia galea, così facilmente non arrembava l’ammiraglia turca.

Io, oltre a combattere a prova, combattevo con altre galee, una al lato destro et l’altra un po’ più per poppa, finché i miei vi montarono sopra.

Menati parte dei prigionieri turchi nella mia galea bene incatenati, tornai ad aiutare l’ammiraglia spagnola sempre pericolante. Dura fu la lotta perché durò tre hore et più...

Faceva seguire la lettera colla lista dei morti e dei feriti e null’altro, ed era seguita da questo commento:

Io per me gli ho tosto invidia che compassione, essendo morti honorevolmente per la nostra patria, et per la fede di Gesù Cristo.”

Grande, straordinaria, fu l’esultanza dei veneziani nell’apprendere una così strepitosa vittoria.

Grandi feste furono organizzate, specialmente date dai mercanti, alle quali non mancarono di intervenire la duchessa, Muley, il Pascià, il piccolo Enzo, Mico e Nikola, ormai stabiliti nel grandioso e magnifico palazzo Loredan sul Canal Grande.