Il Leone di Damasco/XXIII. Le frecce infiammate

XXIII. Le frecce infiammate

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XXIII.

Le frecce infiammate


Gli assediati, vedendo che i turchi si tenevano tranquilli, avevano sospeso il fuoco, cominciando a scarseggiare di munizioni.

Si erano anzi seduti dinanzi alla lunga tavola, discutendo sul da farsi, mentre due cretesi vegliavano al di fuori.

— Ogni momento che passa, per noi aumenta il pericolo — disse Domoko. — Ho già veduto un cavalleggiero fuggire verso Candia, e non si sarà recato per dare l’assalto al bastione del Ponte dei Pugni. Fra poco noi vedremo giungere qui altri volteggiatori, i quali potranno benissimo farci cadere tutti, prima di raggiungere la squadra veneziana.

— Mi sembri più inquieto del solito — disse il Leone di Damasco. — Eppure non ti ho mai veduto tremare dinanzi al pericolo.

— Credo di averne ragione, signore — rispose il cretese. — Non sarà facile attirare qui dentro quei volteggiatori per offrire da bere, come l’altra volta, e poi accopparli tutti.

— Poco manca all’alba — disse la duchessa. — Se provassimo una carica?

— I nostri cavalli sono sfiatati, e cadrebbero in mezzo ai solchi prima di aver attaccati i turchi.

— È lontana la rada?

— Cinque ore ancora — rispose Muley-el-Kadel.

— I nostri cavalli non potrebbero resistere, dopo tanta corsa, è vero, Muley?

— No, Eleonora: hanno estremo bisogno di riposo.

— E la squadra è così vicina!...

— Non dubitare, noi giungeremo alla rada, anche se avremo alle spalle altri volteggiatori — rispose il Leone di Damasco.

— E fino a quando rimarremo qui?

— Poche ore, io credo. Se sei stanca, qui ci sono dei letti e puoi andare a coricarti finché noi vegliamo.

La duchessa scosse energicamente la bellissima testa, poi disse:

— Sono abituata alle lunghe guardie sui bastioni di Candia, e preferisco guardare quello che fa il nemico.

— Sempre valorosa, Eleonora!...

— Non mi hanno forse chiamata Capitan Tempesta? — rispose la bella donna, con un adorabile sorriso.

— Ed hanno avuto ragione — rispose il Leone di Damasco. — Tu sei la donna più fiera e più battagliera della cristianità.

— Oh!... Ve ne sono altre!... Vi è anche Haradja che non la cede a me.

— Non potrà mai tenerti testa.

— Forse ne sono un po’ convinta anch’io — rispose la duchessa. — Eppure ha del coraggio e dei muscoli ben saldi quella donna, per essere una turca. Non è stata certo allevata fra la vita snervante degli harem.

— Ha avuto suo zio per maestro, e poi suo padre era un famoso corsaro che le ha dato del buon sangue.

— Ed Enzo? Che quella donna malvagia lo tormenti? — chiese la duchessa, con angoscia.

— No, il Bascià, per chissà quale strano capriccio, lo protegge, te l’ho già detto.

— E quando potremo riaverlo?

— Aspettiamo il grande urto fra la cristianità e l’Islam — rispose Muley-el-Kadel. — Ci saremo anche noi allora, e siccome si combatterà per mare, assaliremo subito, coll’ammiraglia di Sebastiano Veniero quella del Bascià. Già me lo ha promesso, e quello è uomo da non mancare alla parola data.

— Grande marinaio!...

— E così vecchio!....

Stettero zitti, mentre i cretesi sparavano, di quando in quando, delle archibugiate sui volteggiatori per tenerli lontani. Un grande sconforto pareva che si fosse impadronito di entrambi, malgrado le promesse del grande ammiraglio.

— Orsù, vedremo — disse finalmente Muley-el-Kadel. — Non scoraggiamoci, Eleonora. In qualche modo noi andremo alla rada di Capso, dovessimo passare sul corpo di cento volteggiatori. Quegli uomini non mi fanno paura colle loro scimitarre.

Si alzò e si avvicinò alla porta. I cinque cretesi, l’albanese ed il greco stavano sdraiati dietro alcune balle di lana che servivano magnificamente da barricata, non potendo le palle dei turchi in alcun modo attraversarle, e si accontentavano pel momento di consumare, di quando in quando, qualche carica di polvere.

— E così, Nikola? — chiese Muley al greco. — Come va?

— Male, signore.

— Perché dici che va male, mentre i turchi non si sentono in grado di assalirci?

— Preferirei che ci attaccassero a fondo, signore. Se ritardano, è perché aspettano dei rinforzi.

— Hai troppa paura tu dei volteggiatori.

— Anzi, non mi è mai spiaciuto di piombare su quelle canaglie e di attaccarli colle armi bianche. Date ordine di sellare i cavalli e di correre all’attacco, e mi vedrete pel primo, in testa a tutti.

— Credi tu che le nostre bestie siano in grado di sostenere un tale urto? — chiese Muley-el-Kadel.

— Ecco il nostro male, signore. Dovremo lasciare riposare i nostri cavalli almeno un paio d’ore, affinché abbiano i garretti saldi per filare verso la rada. La via è pessima e lunga.

— Lo so.

— E se i turchi intanto aumentano di numero?

— Li decimeremo più che potremo — rispose Nikola.

— E resisteremo alla meglio.

— Sì, signore.

— Che cosa fanno intanto quei volteggiatori?

— Eseguiscono una manovra sospetta che comincia ad inquietarmi. Vi è la scuderia, a fianco della fattoria, che è ben piena di paglia. Se la incendiassero?

Il Leone di Damasco ebbe un fremito.

— Nikola, vuoi spaventarmi? — chiese.

— Non si può impressionare un uomo coraggioso come siete voi.

— Ah!... Se i cavalli potessero reggere ad una carica!...

— Lo potrebbero, ma poi cadrebbero tutti prima di giungere a Capso.

— Allora non ci rimane che aspettare.

— E di fucilare più che potremo, signore.

— Come stiamo a munizioni?

— Ne abbiamo abbastanza. Cinquanta colpi ciascuno li possediamo ancora.

— Ed allora sparate.

Anche il Leone di Damasco si era impadronito d’un archibugio, e dopo aver alimentata la miccia, aveva cominciato a sparare contro i volteggiatori, i quali, accortisi che a fianco della fattoria vi era una scuderia, cercavano, di quando in quando, di avvicinarvisi per incendiarla.

I cretesi però vegliavano attentamente. Ogni volta che un volteggiatore montava in sella e tentava di passare fra i filari delle viti, lo salutavano a colpi d’archibugio, ed i proiettili non andavano sempre perduti. Alle quattro del mattino gli assedianti non erano più che in nove. Tutti gli altri erano caduti fra i solchi o dinanzi ai filari delle viti ormai quasi spoglie.

— Ecco il momento opportuno per tentare una carica — disse il Leone a Nikola.

— Sì, signore, a cavallo, a cavallo!...

Dopo d’aver fatta una scarica, tutti erano rientrati, insellando rapidamente i destrieri.

— Sei pronta, Eleonora? — chiese Muley a sua moglie, la quale si era addormentata, appoggiata all’orlo della tavola.

— Sempre, Muley — rispose la valorosa donna, accendendo le micce delle sue pistole.

— Sta’ dietro di me. Conosco meglio di te le scimitarre mussulmane.

— Le ho conosciute abbastanza a Famagosta.

— È vero! — rispose Muley.

I cavalli erano stati tratti dalla cucina, dove si erano riposati su abbondante paglia, ed erano stati condotti fuori. Gli assediati stavano per montare in arcione, quando udirono delle urla lontane che si avvicinavano rapidamente.

— I volteggiatori di rinforzo!... — aveva esclamato il greco. — Che nessuno si muova...

— Abbiamo tardato troppo — disse il Leone di Damasco, facendo un gesto di furore, e gettando su Eleonora uno sguardo inquieto.

— La casa è solida — disse Domoko. — Qui potremo resistere a lungo. È la scuderia che mi dà sempre da pensare, essendo quasi aperta. Se la incendiano anche la casa prenderà fuoco.

— Trenta — disse in quel momento Nikola, che si era messo in osservazione. — E tutti balestrieri.

— E quelli che ci stanno dinanzi ancora — disse il Leone di Damasco. — Eccoli in buon numero, troppi per noi.

Si avvicinò a Nikola.

— Tu solo puoi salvarci — gli disse.

— Parlate, signore: la mia vita è vostra.

— Monta sul miglior cavallo, e giacché i balestrieri non sono ancora giunti, corri fino alla rada di Capso ad avvertire l’ammiraglio della nostra terribile situazione.

Muley-el-Kadel aveva appena terminato di parlare, che già il valoroso greco, dopo d’aver scelto, con un solo sguardo, il miglior cavallo, balzava fuori, partendo a corsa sfrenata. I volteggiatori che si trovavano nei solchi, gli spararono dietro parecchie pistolettate, ma non si presero la briga d’inseguirlo. Aspettavano i compagni che giungevano, ventre a terra, sui loro arabi, urlando:

— A morte i giaurri!...

I turchi avevano adottate le armi da fuoco, soprattutto quelle grosse, ma avevano conservate le loro balestre che adoperavano con meravigliosa abilità, molto meglio degli archibugi e delle pistole.

Le frecce erano terribili, poiché avevano la punta d’acciaio o di ferro seghettate, le quali producevano gravissime ferite, difficili a guarirsi. I volteggiatori che giungevano di rinforzo, come abbiamo detto, erano tutti balestrieri.

Appena unitisi ai compagni balzarono a terra e cominciarono a trarre frecce, sulle cui punte avevano messo dei batuffoli di cotone impregnati d’un liquido ardente, forse una specie di fuoco greco.

I cretesi, veduto il pericolo, avevano rinforzata rapidamente la loro barricata con altre balle di lana, materia difficile a prendere fuoco, poi avevano cominciato a sparare rabbiosamente.

Le frecce ardenti si seguivano con rapidità impressionante, ma anche gli assediati ben ricoverati, non risparmiavano i colpi e gli arcieri andavano a gambe levate, mentre i loro cavalli fuggivano attraverso la campagna, spronati dalle sole staffe ad angolo tagliente, che dovevano produrre loro delle dolorose ferite.

Il Leone di Damasco, ed anche la duchessa, alla quale Nikola aveva lasciato il suo archibugio, erano pure accorsi dietro alla barricata, ed essendo, oltreché buoni spadaccini, valentissimi bersaglieri, non risparmiavano i colpi.

E gli arcieri, che si avanzavano spavaldamente in gruppo, cadevano numerosi a fianco dei loro compagni, ma anche i dardi incendiari cadevano fitti sulla fattoria, e specialmente sulla scuderia.

— Muley — chiese la duchessa, dopo d’aver sparato una dozzina d’archibugiate, e non sempre senza fortuna. — Credi tu che potremo resistere fino all’arrivo dei veneziani?

Domoko si era avvicinato in quel momento.

— Il mio orologio suona, perché poco fa l’ho montato, e se non verranno i veneti dell’ammiraglio della Serenissima, accorreranno tutti i cretesi che abitano le fattorie dei dintorni. Signor Muley, li avete già veduti galoppare al suono del mio vecchio orologio.

— Sì, Domoko — rispose il Leone di Damasco. — Purché questa volta non giungano troppo tardi. Sette od otto balestrieri sono già andati a trovare le uri di Maometto, ma ne rimangono ancora troppi. Se provassimo una carica?

— No, signore: sono troppi.

— E se la tua casa va in fiamme?

— Allora scapperemo, non prima.

— Eppure, con mia moglie, mi sentirei in grado di caricarli e di spazzarli via.

— Voi non commetterete questa pazzia, signore. I turchi hanno troppe scimitarre e troppe frecce sulle loro balestre. Se la casa andrà in fiamme, le spegneremo, se non coll’acqua, col vino che si trova in abbondanza nella mia cantina.

— Vino che sarebbe meglio bersi — disse Mico, che era tornato in quel momento per ricaricare l’archibugio, al sicuro dalle frecce infiammate.

— Quanti ne hai gettati giù a quest’ora? — chiese Muley.

— Ne ho contati sette, padrone — rispose l’albanese. — Se gli aiuti non fossero giunti ben pochi sarebbero rimasti.

— Questi montanari sono, infatti, dei meravigliosi tiratori — disse Domoko.

— Ora lascia, per qualche minuto, in pace il tuo archibugio e seguimi in cantina.

— A compiere il sacrificio del vino? — chiese l’albanese.

— La cisterna è fuori, e sarebbe pericoloso per noi attingere acqua in questo momento. Vada la raccolta dell’annata del generoso succo di papà Noè, ed inondiamo la barricata. La lana difficilmente brucia, ma produce molto fumo e molte scintille che vi darebbero noia. Su, bravo giovanotto, ti accorderò il permesso, prima di vuotare tutte le mie pinte, di bere finché vorrai.

— Sì, quando tutti i turchi saranno a terra, o se ne saranno andati.

— Hai da aspettare un bel po’, amico — rispose Domoko. — Non ci lasceranno tanto facilmente.

— Allora sacrifichiamo la cantina — disse il bravo giovane.

Mentre il Leone di Damasco e la duchessa accorrevano alla difesa della barricata con due altri archibugi, il cretese e l’albanese scesero, correndo, nel sotterraneo, portando sopra delle grosse pinte piene di vino.

I turchi, quantunque assai maltrattati dalle archibugiate dei cretesi, non accennavano ad andarsene. Continuavano a lanciare frecce infiammate, non solamente sopra la barricata, bensì anche verso la piccola scuderia protetta da una semplice tettoia di legno, che da un momento all’altro poteva prendere fuoco e distruggere l’intera fattoria.

Mico e Domoko inondarono le balle di lana che cominciavano già a fumare, rovesciandovi sopra due grosse pinte di vino, poi si ritrassero rapidamente per non ricevere qualche dardo.

— È fatto — disse Mico, guardando un po’ malinconicamente le fiamme che si sprigionavano altissime. — Peccato che sia il fuoco che lo beva.

— Orsù, un’altra pinta, amico — disse Domoko. — Se poi vorrai, scendi in cantina dove tengo ancora del Cipro di due anni fa.

La barricata fu nuovamente inondata, e le piccole fiamme e le scintille si spensero subito. I turchi si erano messi a urlare ferocemente, poiché credevano ormai di aver sloggiati quei terribili archibugieri che li decimavano.

Vedendo ormai che non potevano più dar fuoco alla barricata, inzuppata come era stata, cambiarono tattica. Lasciarono i filari delle viti ed i solchi che li proteggevano, e con un coraggio incredibile, si slanciarono sui loro cavalli, tentando di attaccare direttamente la scuderia. Domoko aveva dato l’allarme.

— Tutti agli archibugi, o morremo bruciati.

In quel momento il vecchio orologio che serviva per segnalare i pericoli, suonò alcuni colpi, poiché nessuno aveva pensato a regolarlo.

— Sì, voce di bronzo, corri per le campagne e fa’ accorrere i valorosi che ancora rimangono sull’isola, se ne rimangono.

Tutti avevano dato mano agli archibugi, ed un magnifico e terribile fuoco aveva sorpreso i cavalieri turchi allo scoperto, gettandone parecchi dall’arcione. Si vendicavano gli assalitori con una pioggia di frecce infiammate, che data la poca portata delle balestre, difficilmente giungevano a destinazione.

Mico, il bravo tiratore albanese, faceva miracoli. Ogni palla che usciva dal suo archibugio, scaraventava a terra un turco colla fronte spaccata o colla colonna vertebrale frantumata. Faceva più baccano lui solo che tutti gli altri uniti, ed ottenendo maggiori successi. Per un po’ i turchi resistettero con ostinazione feroce, rinnovando le cariche per avvicinarsi alla scuderia, poi improvvisamente volsero le spalle salvandosi ancora fra i filari delle viti.

— Scappano — disse Domoko. — Brutto segno.

— Perché? — chiese il Leone di Damasco. — Hanno avuto abbastanza dei morti.

— Eppure, signore, ciò non mi persuade.

A rischio di prendersi qualche dardo, balzò al di là della barricata e si avvicinò alla scuderia. Un grido terribile gli uscì dalla gola:

— Al fuoco!... Al fuoco!... Siamo perduti!...

— Che cosa brucia? — chiese il Leone di Damasco, impallidendo.

— La stalla: il fieno fiammeggia già e minaccia la casa.

— Ci lasceremo bruciare vivi qui dentro? — chiese la duchessa. — Io monterò a cavallo col mio sposo ed attaccherò a fondo.

— Non da questa parte, signora — disse Domoko. — Sarà meglio che i turchi non ci veggano fuggire. Mico, aiutami!...

— A massacrare ancora quelle canaglie? — chiese l’albanese.

— Ci penseranno gli altri per cinque minuti. Difendete la porta voi, e tenete lontani i balestrieri che sono più pericolosi, in questo momento, degli archibugieri.

Nella cucina, lungo una parete, vi era una grossa trave. Il cretese e l’albanese la sollevarono, corsero all’estremità del locale e si misero a picchiare furiosamente contro la parete, sgretolandola rapidamente, essendo formata solamente di argilla impastata con strame.

Intanto i turchi non cessavano di lanciare i dardi e di urlare: — Morite tutti dentro, cani di giaurri!... Creta ormai è nostra.

Un gran fumo s’alzava dietro la casa, abbattendosi verso la barricata e disturbando gli archibugieri. Il Leone di Damasco e la duchessa, che avevano ormai capita la idea di Domoko, avevano radunati rapidamente i cavalli, esaminando attentamente le bardature.

La rottura d’una cinghia sola, in una corsa disperata, poteva essere causa d’un disastro. Intanto Mico ed il cretese, picchiavano sempre più rabbiosamente contro la parete, facendo cadere, colla grossa trave, dei larghi pezzi.

I turchi, assordati dalle archibugiate, non potevano udire nulla, essendo al di fuori. E poi, sicuri che i maledetti giaurri sarebbero morti fra le fiamme, si erano allontanati ancora più dalla barricata, limitandosi a sorvegliare la porta, dalla quale speravano, da un momento all’altro, di veder irrompere gli assediati sui loro cavalli.

I quattro cretesi, aiutati, di quando in quando, dall’albanese, mantenevano un fuoco infernale, abbattendo uomini e cavalli. Cadevano però coraggiosamente i mussulmani, esponendosi pazzamente ai colpi. Sette od otto, più pazzi che valorosi, avevano tentata una carica contro la barricata, così ostinatamente difesa, ed erano caduti quasi tutti sotto i loro cavalli.

Ad un tratto una voce echeggiò nella stanza terrena: — In sella!... La porta è aperta!...

Era Domoko che aveva lanciato quel grido.

Un gran pezzo di parete era caduta, sotto i colpi della grossa trave, ed aveva lasciata un’apertura abbastanza larga per lasciare uscire dei cavalli.

— Su, Eleonora!... — urlò il Leone di Damasco. — Non perdiamo nemmeno un minuto. La Croce ci proteggerà fino a Capso.

Gli archibugieri, avvertiti, dopo d’aver fatta un’ultima scarica, si erano ripiegati precipitosamente nella sala pianterrena, dove i cavalli, ben riposati e ben pasciuti, e spaventati dall’incendio, scalpitavano tentando di fuggire.

— Ci siete tutti? — chiese Domoko, mentre il Leone di Damasco aiutava la duchessa a montare in sella.

— Sì — risposero ad una voce.

— Che cosa fanno i turchi?

— Ci sorvegliano dinanzi alla porta.

— Ecco il buon momento!... — gridò il cretese. — In sella, in sella!... E non risparmiate i cavalli!...

Un’altra porta, che i turchi non potevano vedere, era stata aperta, ed abbastanza larga per lasciar passare dei cavalleggieri.

In un lampo gli assediati furono in sella, e mentre il fumo cominciava ad entrare ad ondate, nascondendoli ai turchi, varcarono l’apertura con un gran salto.

— Via!... Via!... — disse Domoko. — I turchi non si sono ancora accorti della nostra fuga. Avremo un vantaggio di cinquecento passi, e forse di mille.

Tutti i cavalli, aizzati a gran calci, attraversarono lo squarcio, e guidati da Domoko, si misero a galoppare disperatamente per la campagna, dirigendosi verso la rada di Capso. I turchi, forse pel gran fumo che avvolgeva la fattoria, destinata ormai alla distruzione completa, non si erano accorti ancora di nulla. Stavano sempre a guardia della porta, pronti a lardellare colle loro frecce gli assediati, nel caso che avessero tentato una sortita. Non dovevano però rimanere a lungo inoperosi a guardare le fiamme che s’alzavano sempre più, tutto avvolgendo. I fuggiaschi avevano percorsi appena mille passi, quando udirono i turchi urlare:

— I giaurri scappano!... Addosso!... Addosso!...

Quei terribili cavalieri erano tutti montati in sella, e si erano messi in caccia, urlando e minacciando.

— Lasciateli fare — disse Domoko, il quale conduceva sempre la corsa. — Abbiamo già un bel vantaggio, e forse i veneziani non sono lontani. Proteggete la signora, quantunque sappia combattere meglio di noi.

Tutti avevano appesi alla sella gli archibugi, diventati inservibili in una galoppata così furiosa, ed avevano tratte le armi bianche, yatagan e spade, più adatte in una carica.

I quattro cretesi con l’albanese erano passati alla retroguardia insieme al Leone di Damasco, il quale agitava la sua valorosa spada gridando ai turchi:

— Venite a prendere i figli della Croce, cani!... Io ho rinnegato quel bugiardo di Maometto, e non appartengo più alla vostra religione. Vi sono nemico!... Assalite il Leone di Damasco, se l’osate, e Capitan Tempesta che tutti i mussulmani hanno ammirata a Famagosta!...

I turchi rispondevano con altissime grida, però non osavano spingere troppo la corsa, giudicandosi ancora troppo pochi per assalire il Leone, la prima scimitarra dell’Islam, e la duchessa, la prima lama della cristianità.

Non cessavano però l’inseguimento, e, di quando in quando, come potevano, si provavano a lanciare qualche freccia che andava sempre perduta. I cavalli dei fuggiaschi, più riposati di quelli dei mussulmani, a poco a poco guadagnavano, distanziando sempre più gl’inseguitori. Correvano ventre a terra fra i solchi dei campi, sfilavano come uccelli fra i filari delle viti, poi attaccavano a gran galoppo una collina, e la ridiscendevano con una velocità vertiginosa, impressionante.

Il Leone di Damasco aveva raggiunto Domoko, il quale sorvegliava il cavallo della duchessa, pronto a sostenerlo.

— Quanto ancora? — gli chiese.

— Tre ore, signore — rispose il cretese.

— Potranno i nostri cavalli resistere e mantenere la distanza?

— Quelli dei turchi, signore, sono più stanchi dei nostri, e non ci daranno la caccia fino a Capso. Questo ve lo assicuro io, e poi incontreremo Nikola.

— Se avrà trovato i veneziani ancora all’ancora.

— Non spaventatemi, signore. Se la squadra fosse partita, avrebbe segnata la morte di noi tutti, poiché questi cani di turchi, finché troveranno terra, continueranno ad inseguirci, anche quando i loro cavalli saranno caduti.

— Lo so — rispose il Leone di Damasco, con un sospiro. Si volse e guardò gli avversari.

— Non guadagnano — disse.

— E non guadagneranno probabilmente — rispose il cretese. — Ma se questa corsa dovesse prolungarsi ancora per ore ed ore, anche le nostre bestie dovranno cedere, signore.

— Ed allora riprenderemo gli archibugi, e finché avremo una carica di polvere spareremo. Le frecce non ci fanno paura a tanta distanza.

— Ma sono troppi per noi.

— Torneremo a decimarli. A questo penserà Mico, che di rado sbaglia il colpo.

Un’altra collina, assai erta, si era presentata di fronte a loro, cosparsa di magri cespugli.

— Non possiamo aggirarla? — chiese la duchessa. — I cavalli cominciano a dare segni di estrema stanchezza.

— È impossibile, signora — rispose il cretese. — Vi sono abissi da tutte le parti e...

Si era improvvisamente interrotto, mettendosi in ascolto.

— Che cosa c’è, Domoko? — chiese il Leone di Damasco, che vedeva i cavalli esaurirsi rapidamente, nell’attacco di quella seconda collina.

— Mi è sembrato di udire lo squillo d’una tromba.

— Non ti saresti ingannato?

— No, signore.

— Tromba turca o veneziana?

— Oh, suonano troppo diversamente per confonderle.

— Che sia Nikola che giunge coi marinai?

— Ascoltate, signore!...

Quantunque i cavalli ansassero rumorosamente e scalpitassero fortemente sulle rocce della collina, tutti i fuggiaschi udirono distintamente uno squillo acutissimo di tromba che pareva scendesse dall’alto. Tutti avevano mandato un gran grido:

— I veneziani!... Avanti!... Avanti!... Non risparmiate i cavalli!...

Anche i turchi dovevano aver raccolto quello squillo che non era rauco come quello delle loro trombe di guerra, ed avevano subito cominciato a rallentare la corsa.

— Muley — disse la duchessa. — Che noi possiamo avere tanta fortuna? Il mio mezzo arabo, sfinito dai lunghi digiuni, minaccia di cadere da un momento all’altro.

— Ti darò il mio, Eleonora.

— Oh, mai!...

— Ti strapperò dalla sella colla forza.

— Resiste ancora.

Un terzo squillo, più acuto, più vicino, lacerò l’aria, poi quasi subito si vide la vetta della collina coprirsi di marinai veneziani. Non vi era che un solo cavaliere: Nikola. Un comando breve, secco, echeggiò lassù:

— Fuoco!...

Cinquanta archibugi tuonarono con un rimbombo assordante, scatenando l’eco degli abissi, ed una pioggia di piombo cadde, fitta, fitta, sui turchi esterrefatti. Dieci e più uomini andarono a gambe all’aria insieme ai loro cavalli.

Gli altri, vistisi impotenti a tentare una carica, colle bestie semisfinite, su per l’erta e contro tanta forza, volsero le groppe, e spronando ferocemente, si allontanarono, scomparendo fra i filari delle viti. I marinai veneziani si erano fermati per ricaricare gli archibugi, pronti a rinnovare la strage, e solo il greco, che montava il suo solito cavallo bianco, discendeva, agitando pazzamente le braccia.

— Ti dobbiamo la vita — disse la duchessa, quando gli fu presso.

— No, signora — rispose il valoroso. — Non ho fatto che il dover mio, e sono doppiamente contento di avervi incontrati, perché l’ammiraglio si prepara a salpare per Messina, dove lo attendono gli alleati. Vi dico io che questa volta daremo una terribile battaglia, che manderà all’inferno la potenza marinaresca turca.

— E Candia? — chiese il Leone di Damasco, con apprensione.

— Non ci pensate, signore. È un’altra città perduta per la Repubblica, e non sarà, disgraziatamente, l’ultima. Sono scappati tutti i volteggiatori?

— Sono stati quasi interamente distrutti — disse Mico. — Che cosa volevi che facessero ancora? Che rimontassero sui loro cavalli morti? O che Maometto facesse risuscitare anche gli uomini? Ha da pensare alle sue uri e non ai suoi guerrieri.

— Venite — disse il greco. — I veneziani hanno fretta di spiegare le vele. Accoppate le bestie, se è necessario.

— Ora che non sono più inseguite, possono tirare innanzi fino alla rada — disse il Leone di Damasco.

Si rimisero in marcia, risalendo lentamente la collina, salutati da altissime grida da parte dei veneziani, i quali avevano una speciale simpatia per la duchessa e pel suo sposo, rammentando ancora gli eroismi di Famagosta. In lontananza, i pochi turchi sfuggiti al massacro, poiché si poteva chiamare tale, galoppavano disperatamente, non urlando più:

— Morte ai giaurri!... In caccia!...

Ne avevano avuto abbastanza dai cristiani, e non osavano ritentare uno di quei colpi disperati pei quali andavano famosi i volteggiatori, rovesciati a migliaia e migliaia dal Sultano, dinanzi alla disgraziata Candia, già ormai impotente a difendersi.

I fuggiaschi raggiunsero i marinai veneziani che con uno sforzo supremo erano venuti da Capso a piedi, non avendo la squadra imbarcato nessun cavallo, poi tutti insieme, lentamente, ridendo e chiacchierando, ridiscesero l’altra parte della collina ammirando il sempre meraviglioso spettacolo del mare soleggiato dai primi raggi, così caro anche ai più vecchi marinai.