Il Leone di Damasco/XX. Il passaggio misterioso

XX. Il passaggio misterioso

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XIX. La morte del governatore XXI. Il fanale verde

XX.

Il passaggio misterioso


Muley-el-Kadel allontanò col piede il gigantesco fanà, il quale ormai non proiettava altro che una luce bianca, piuttosto smorta, e si affacciò al verone, impugnando però due pistole le cui micce ardevano, crepitando.

— Chi chiama? — domandò.

— Io, l’armeno Hassard.

— Che cosa vuoi?

— Dirvi che i curdi chiedono la testa dell’uomo che ha ucciso il capitano d’armi.

— A noi, inviati del Sultano?... — gridò Muley-el-Kadel. — Tanto osano? Non si comanda forse più a Costantinopoli?

— Io non so che cosa dirvi, signore, ma inviati o no, intendono vendicare Sandjak.

— E tu credi che io ti consegni l’uomo che ha fatto fuoco, o meglio, che ha risposto al fuoco del capitano d’armi?

— Io non posso trattenerli, signore.

— Da’ loro da bere.

— Parlano di forzare le vostre stanze, e di farvi fare a tutti la miseranda fine di Sandjak — disse l’armeno.

— Tu esageri, corvo maledetto!... — gridò Nikola. — Sei tu che cerchi di aizzarli contro di noi.

— Io ho sempre avuto in orrore il sangue.

— Concludi — disse Muley-el-Kadel.

— Io dico che i curdi esigono la testa dell’assassino del capitano d’armi, e che se non lo consegnerete, verranno a cercarlo.

— Fra noi.

— Certo.

— E noi non contiamo per nulla?

— E le colubrine d’Hussiff non valgono meglio delle spade e degli archibugi? — rispose l’armeno.

— Vuoi rovinare il castello della tua signora?

— Non sono più io che comando ora: i curdi non vogliono obbedirmi.

— Chiama i negri e lanciali contro di loro.

— Non mi obbediscono nemmeno quelli, signore.

— Allora vieni a prenderci, se ne avrai il coraggio.

— Vi consiglio di consegnare l’assassino di Sandjak.

— Tu sei pazzo, Hassard.

— Allora parleranno le colubrine — rispose l’armeno con voce minacciosa.

— Le muraglie sono grosse, le porte sono bene barricate, e la nostra squadra incrocia sempre in vista d’Hussiff.

— Io non l’ho veduta.

— Tu non sei mai stato un marinaio — urlò Nikola. — Sei un gatto delle montagne dell’Armenia, che non ha nemmeno la fortuna di vedere di notte.

L’armeno mandò un urlo selvaggio, un urlo da tigre in furore.

— Ah!... Se potessi prenderti!... — gridò poi. — Mi sentirei di morire più tranquillo.

— Se vuoi una partita di yatagan o di kamgiar, non hai da far altro che salire, e noi ti apriremo — rispose il greco.

— Per assassinarmi?

— Buffone!... Siamo gente d’armi, noi, e non già degli scrivani.

— Ti tarperò la lingua.

— Parla meno ed agisci di più.

— Curdi!... Negri!... — urlò l’armeno, che pareva impazzito. — Fate tuonare le colubrine e diroccate tutto l’hisar.

— Troppa roba — rispose il greco. — Noi stiamo qui ad aspettare le tue cannonate.

Gli assediati, temendo qualche scarica, si erano ritirati dietro gli angoli del verone, che misuravano quasi un metro di spessore, e che erano formati con lastre dure di marmo cipriota.

Nel piazzale si udivano i curdi e i negri chiacchierare ad alta voce, e si vedevano, di quando in quando, delle micce che gettavano dietro il ridotto, dei riflessi rossastri.

— Non osano — disse il Pascià di Damasco, il quale aveva lasciato il letto, per prendere parte alla difesa, nel caso che vi fosse stato bisogno d’un uomo di più. Muley-el-Kadel e Nikola scossero il capo.

— Vedrete, padre, che quell’armeno riuscirà a convincere la guarnigione — disse il primo.

— Eppure è stato lui che ha decifrato la lettera del Sultano e che ha rotto i suggelli — disse il greco.

— Pare che i suggelli del capo dei credenti non abbiano fortuna in Hussiff — disse Muley-el-Kadel, accostandosi cautamente al verone.

La voce strascicata ed antipatica dell’armeno risuonò di nuovo:

— Comando io!... Rispondo io di tutto presso la padrona!... Fuoco!...

Dieci o dodici colpi d’archibugio imberciarono il verone, e le palle andarono a cacciarsi dentro la parete di fronte, sollevando un fitto polverio.

— Non rispondete!... — gridò Muley-el-Kadel, vedendo i veneziani, Mico ed il greco cogli archibugi in mano. — Risparmiate le munizioni per l’attacco finale.

— Se potessi però scorgere quel cane d’armeno, una carica la consumerei volentieri — disse Nikola. — È lui l’astro maligno del castello.

— Si terrà ben nascosto, mio caro — disse il Leone di Damasco. — Ha veduto come abbiamo spacciato il capitano d’armi, e non commetterà la sciocchezza di mostrarsi sul parapetto del piazzale, per offrirsi ai nostri colpi.

Un’altra bordata di proiettili attraversò la stanza, fracassando tutti i vetri dell’ampia finestra e due lanterne che erano sospese al soffitto, e quello fu tutto il successo che ottennero i curdi ed i negri d’Hussiff. Ci voleva ben altro per le salde muraglie dell’hisar, costruite con gran cura dai turchi. Per cinque o sei minuti i soldati d’Haradja continuarono a sparare con maggior rabbia, poi vedendo che non ottenevano nessun successo, e che gli assediati non si degnavano nemmeno di rispondere, misero in batteria una colubrina.

— Ora canta il cannone!... — urlò l’armeno, con gioia selvaggia.

— Dirocca pure il castello — rispose il Leone di Damasco. — Il Sultano lo coprirà più tardi di pali per voi tutti.

— Intanto vi costringeremo alla resa.

— Noi!... T’inganni, amico. Vieni ad assalirci nel nostro nido.

— Aspettate un po’. Volete cederci l’assassino del capitano d’armi?

— Ma se è già morto!... La vostra prima fucilata lo ha ammazzato.

— Allora gettatelo giù dal verone affinché i curdi gli taglino la testa, e poi scaraventino il corpo sopra le scogliere.

— È ancora caldo, e noi stiamo pregando intorno a lui — rispose il Leone di Damasco. — Ne parleremo domani mattina!

— Avanti le colubrine!... — urlò l’armeno.

— Spara pure!... — gridò Nikola. — Guasti solamente la casa della tua padrona. In quanto a noi, prenderemo le palle in mano e giocheremo a zara.

— Vi fracasserete le dita.

— Non preoccuparti di ciò: noi stiamo qui, in piena sicurezza, a contare le cannonate.

Nella stanza non erano rimasti che il Pascià, suo figlio e Mico, poiché i quattro veneziani si erano messi a guardia delle due porte che mettevano sullo scalone, temendo un attacco a colpi d’ascia dai robustissimi negri.

— Teniamoci dietro la muraglia, — disse Nikola — e non avremo nulla da temere. Per rovesciare queste mura ci vogliono delle grosse bombarde e non già delle colubrine. Ridurranno questa stanza e fors’anche le altre in pessimo stato, ma sarà Haradja che pagherà. In guardia!... Vedo una miccia grossa brillare dietro il ridotto.

Tutti si erano allontanati dal verone, che era rimasto spalancato.

Trascorsero cinque o sei secondi, poi un lampo avvampò sul ridotto, ed un’acuta detonazione si disperse pel mare. Una palla di forse tre libbre, entrò di volata pel verone, facendo saltare, col solo suo ronfo, tutti i vetri, e andò a fracassare un magnifico specchio di Venezia che si trovava dall’altra parte, formando un buco dentro la massiccia parete.

— Zara!... — gridò il greco, accostandosi cautamente al verone. — Ho vinto la partita, Hassard, e la tua padrona pagherà.

— Che cosa pagherà? — urlò l’armeno, tenendosi sempre nascosto.

— Il grande specchio di Venezia che la palla ha rovinato. Non sono un veneziano, però sono certo di non ingannarmi assegnandogli un valore di cento zecchini per lo meno. È così, Hassard, che curi gli interessi della tua padrona?

— Morte di tutti i demoni della terra!... — urlò l’armeno. — Uno specchio?

— Quello grosso, che luccicava così bene a fianco del letto. Lo ricorderai, spero. Cento zecchini!... Hassard è ricco e può permettersi questi lussi, è vero, amico? — gridò Nikola.

— Fate che non vi prenda!

— Che cosa vorresti fare di noi? Levarci la pelle per esercitarvi la tua penna?

— Ti getto giù dalla scogliera!...

— Bisogna prenderci però prima.

— Cederete, ve lo dico io.

— Ecco uno scriba che da un momento all’altro si crede diventato un uomo terribile — disse Nikola, ridendo. — Non è colle penne, amico, che si diventa guerrieri, anche se sono d’oca azzurra.

— Ti arrendi?

— Ma che!... Si sta così bene in Hussiff.

— E che cosa mangerete domani?

— Che cosa? Scenderemo noi nelle cucine, e se i cuochi non ci serviranno li accopperemo.

— È troppo!... — urlò Hassard, che pareva dovesse schiattare. — Su, un altro colpo!... Snidiamo quei falsi inviati del Sultano. Vi dico io che sono dei cristiani.

— Anche il Pascià di Damasco? — chiese il greco.

Hassard non credette opportuno rispondere.

— Orsù, prepariamoci pel secondo colpo — disse il Leone di Damasco. — Che cosa fracasseranno questa volta? Il letto di mio padre?

In quel momento comparve Mico, il quale aveva fatta una rapida visita ai veneziani, sempre in armi dietro le due porte, fortemente barricate.

— Padrone — disse il giovane, con voce alterata. — Ci assalgono da due parti.

— Montano la scala i curdi?

— Saranno piuttosto i negri, signore. I curdi non valgono che per le armi da fuoco, e non lasceranno certamente i loro cannoni.

— Avrei desiderato meglio che fossero curdi, perché assai meno robusti — disse Muley-el-Kadel. — Hanno già attaccato colle asce?

— Non ancora, signore, però credo che non tarderanno ad assalire le porte. Sono già sullo scalone e si odono parlare.

— Tutti i mobili sono stati utilizzati? — chiese il Pascià.

— Sì, signore, e poi le porte sono robustissime, montate su enormi arpioni, e per di più hanno tre grosse sbarre ciascuna — rispose Mico. — Se però...

Un’altra palla era entrata nella stanza, infilando il verone, ormai privo di vetri, ed era andata a cacciarsi sopra un quadro antico, sgretolando le pareti e sollevando un polverone enorme.

— Zara!... — gridò Nikola, che si divertiva a far arrabbiare l’armeno. — Anche questa volta ho guadagnata la partita e reclamerò i danni presso la tua signora, mio caro Hassard.

— Un altro guasto? — urlò l’armeno. — E tu non sei ancora morto!...

— Se sto giocando a zara colle palle delle tue colubrine. Te l’avevo detto io che con noi avresti perduto il tuo tempo. Preparati a slacciare la tua borsa per rifondere alla tua padrona quel quadro antico, che io stimo valere almeno cinquanta zecchini.

— Anche un quadro dopo lo specchio!... Va tutto in rovina lì dentro?

— E sono le cose più costose, amico, che fai fracassare dai tuoi curdi. Compiango i tuoi risparmi, perché dovranno finire nelle casse della nipote del Bascià.

— Ma muori una volta!...

— C’è tempo. Non ho che quarantacinque primavere sulle mie spalle — rispose il greco.

— Vi prenderemo dalla parte delle porte.

— Imbecille!... Avresti dovuto tentarlo prima, senza gettare via centocinquanta zecchini, per i capriccio di vedere un paio di belle partite.

— Che Maometto ti maledica!...

— Non ne ha tempo in questo momento. Sta confabulando coll’arcangelo Gabriele e le sue favorite.

— Lo farai morire idrofobo, Nikola — disse il Leone di Damasco, il quale, malgrado la gravità della situazione, non poteva trattenere le risa. — Sei troppo feroce.

— Quell’armeno è un gattopardo resistente come quelli che infestano le sue montagne — rispose il greco. — Non morrà d’un colpo di rabbia, ve l’assicuro io.

— Oh!... Conosco perfino troppo bene gli armeni, e mio padre più di me.

Gli assediati udirono i curdi discutere animatamente, poi videro comparire Mico con due pistole armate.

— Quali novità? — chiesero il Pascià ed il Leone di Damasco.

— Ecco la risposta — disse l’albanese.

Un colpo secco rimbombò in fondo alle stanze occupate dai veneziani, che pareva prodotto da un formidabile colpo di scure, avventato contro una delle due porte.

— Il pericolo sta là — disse il Pascià, staccando dalla parete una spada ed un paio di pistoloni. — Dei curdi non occupiamoci almeno per ora anche se continuano a far tuonare le colubrine.

— Io credo che ci penseranno ai danni che potrebbero produrre — disse il greco. — Alla lotta!...

Lasciarono la stanza, dove la loro presenza non era necessaria, e si precipitarono verso l’ultima camera occupata dai veneziani, e che era ingombra di mobili pesanti e di letti accumulati dietro le porte, gridando:

— Ci siamo anche noi!...

Un altro colpo formidabile rimbombò, seguito da un lungo scricchiolio. I negri assalivano già, a gran colpi di scure, una delle due porte, tentando di sfondarla. Le grosse sbarre di ferro però, ed erano quattro, non erano facili a cedere, anche sotto l’urto poderoso dei muscolosi figli dell’Africa.

— Chi batte? — gridò il Leone di Damasco, che aveva armato l’archibugio.

— Io, Hassard — rispose l’armeno.

— Come!... Non hai più fiducia nel tiro delle colubrine?

— Guastano troppo.

— Ed hai pensato di forzare le porte?

— Le getteremo giù, mio signore, e più presto di quello che credete.

— Fa’ picchiare ancora, dunque; bada però che siamo armati d’archibugi e di pistole, e che qualche palla potrebbe farti scoppiare la testa.

— Sarò prudente, mio signore — rispose l’armeno. — Avete avuto il torto di avvertirmi e mi terrò in guardia.

— Vuol dire che ammazzeremo i negri.

— Sono uomini d’armi che non sanno né leggere né scrivere.

— Ah!... Canaglia!... — urlò Nikola. — Mostra un pezzo del tuo viso, grosso solamente come uno zecchino, e ti prometto una superba ferita.

— Ti prenderò, io spero, e ti farò fare un bel salto sugli scogli d’Hussiff — rispose l’armeno, colla sua solita voce irosa.

— Non mi hai ancora nelle tue mani.

— Su, poltroni: forza colle asce!...

Un terzo colpo, che parve una cannonata, rimbombò nella stanza, facendo cadere parecchi piccoli quadri, e attraverso la porta comparve una lama.

— Che cosa dobbiamo fare, padre? — chiese il Leone di Damasco.

— Lasciali fare — rispose il Pascià. — Quando saranno riusciti ad aprire un varco, interverremo noi colle armi da fuoco, e non saranno quei negri lì che resisteranno ai nostri tiri. La polvere fa paura agli schiavi dell’Africa maledetta.

Dietro la porta gli assalitori si sforzavano di strappare la scure, mettendo a dura prova i loro muscoli, poi un’apertura si produsse, non più larga di due dita, ma sufficiente per far parlare le armi da fuoco. I quattro veneziani, che si trovavano dinanzi, furono lesti, tenendosi seminascosti dietro ad un mobile pesante, a fare una scarica di archibugi.

Si udirono dei clamori spaventevoli, poi Hassard urlò: — Poltroni!... Haradja vi farà impalare, massa di canaglie.

— Sono scappati come conigli — disse Nikola. — Noi possiamo resistere anche un mese.

— Senza mangiare? — chiese Mico.

— Stringeremo le cintole.

— Io spero che non ne avremo bisogno. Ho fatto, poco fa, una scoperta importante.

— Quale? — chiese il Pascià.

— Stavo osservando un quadro che mi pare voglia rappresentare Roxelana, quando fui colpito da una punta acutissima che sporgeva dalla cornice.

— Tira avanti pigrone — disse il greco. — Non siamo già fra le montagne dell’Albania.

— Ho provato a premerla, e mi si è aperto dinanzi un passaggio, aperto fra le pareti, e dal quale salivano dei profumi di cucina.

— Per la barba di Maometto!... — esclamò il greco. — Un passaggio che mette nelle cucine di Haradja?

— Credo — rispose Mico.

— Fa’ vedere — disse il Leone di Damasco.

— Seguitemi nell’altra stanza — rispose l’albanese.

Essendo ormai i negri fuggiti, almeno pel momento, poiché non dovevano essere uomini così pusillanimi da rifiutare un combattimento, lasciarono i veneziani a guardia delle barricate, e seguirono l’albanese.

— Qui — disse Mico, mostrando un grande quadro che rappresentava una bellissima sultana, e che doveva essere stato dipinto da qualche cristiano, poiché i turchi non conoscevano affatto la pittura.

— Sì, è Roxelana — disse il Pascià di Damasco.

— Apri il quadro, Mico — disse il Leone di Damasco, armando, per precauzione, le pistole.

L’albanese fissò gli sguardi sulla cornice che era assai larga e riccamente scolpita, poi posò un dito su un punto.

Si udì subito lo stridere di una molla, ed il quadro scomparve entro un’apertura. Subito un tanfo caldo di grassi fritti colpì in pieno viso gli assediati.

— È odor di cucina questo — disse l’albanese. — Che cosa dici tu, Nikola, che continui a fiutare?

— Che questo passaggio segreto deve mettere nelle cucine del castello — rispose il greco.

— Andiamo ad esplorare!...

— Aspetta che accenda un pezzo di candela.

— Voglio venire anch’io — disse il Leone di Damasco.

— No, signore — rispose Nikola. — Per il momento siete più utile qui che su questa stretta scala aperta fra le muraglie. I negri ritorneranno alla carica, forse insieme ai curdi, ed avrete da fare. Tenete occupata quella gente finché noi esploriamo.

— Cercami un fanale verde.

— Faremo il possibile, signore. Andiamo, Mico.

I due valorosi passarono sopra il quadro e si trovarono su una scala così stretta, da permettere il passaggio appena ad una persona per volta. Il greco, che teneva con una mano la candela e coll’altra uno dei suoi due yatagan, cominciò a scendere senza far rumore, seguito dall’albanese.

Il tanfo di grassume, a misura che si abbassavano, diventava più acuto, quasi asfissiante. Discesero undici gradini, descrivendo una larga curva, poi si trovarono dinanzi ad una porta che era chiusa internamente da due grosse sbarre di ferro coperte di ruggine.

— Questo passaggio non doveva essere noto forse nemmeno ad Haradja — disse il greco. — Questa porta non è stata aperta da parecchi anni.

— Hai veduto in alto due piccoli buchi ovali? — chiese l’albanese.

— Sì — rispose Nikola, alzando la candela. — È di là che entra l’odore di cucina.

— Che possiamo aprire?

— Io credo di sì, essendo la porta sbarrata internamente.

— Vedi nessuna luce brillare nelle cucine?

— Nessuna. I cuochi avranno approfittato di tutto questo trambusto per ubriacarsi di Cipro e scappare a letto.

— Ad inventare nuovi pasticci.

— È il loro mestiere. Attacca, Mico, finché io sorveglio.

L’albanese scosse le grosse sbarre, facendo cadere a terra molta ruggine poi, con un grande sforzo, riuscì a levarle. Afferrò una larga maniglia di bronzo e tirò fortemente. La porta dapprima resistette, poi si aperse cigolando sui cardini non più unti.

I due valorosi scesero tre gradini e si trovarono in una spaziosa cucina, dove si trovavano dei giganteschi fornelli e delle immense pile di tondi e di pentole di rame.

— Alle dispense, prima di tutto — disse il greco.

Vi erano due immensi armadi, col davanti di filo di ferro. Le chiavi erano nelle toppe. I due valorosi, senza preoccuparsi d’un altro colpo di colubrina, che doveva aver fatto un nuovo guasto nella stanza del Pascià, si lanciarono al saccheggio delle dispense, le quali erano abbondantemente fornite, essendo gli abitanti d’Hussiff abbastanza numerosi.

Arrosti, schidionate di uccelli, che dovevano servire per la colazione dell’indomani, pani e dolciumi, furono portati sui primi gradini della scala segreta, unitamente ad una mezza dozzina di bottiglie di vino di Cipro.

— Ora, — disse Nikola — possiamo continuare l’esplorazione. Per ventiquattro ore e più il mangiare non ci mancherà, e poi potremo sempre fare di queste sorprese notturne finché i cuochi dormono. Ah!... Se potessimo sapere dove si trovano i magazzini del castello.

— Nulla di più facile — rispose Mico, il quale aveva alzato il kamgiar come se volesse ammazzare qualcuno.

— Lo sai tu?

— Io no, ma ecco qui un uomo che ce lo dirà.

Aveva fatto il giro di una tavola, ed aveva scoperto, sdraiato su una vecchia ottomana unta e bisunta, un cuoco grasso come una botte, il quale russava placidamente. — Ecco una bella fortuna, se nessuno viene a disturbarci — disse il greco.

— I curdi ed i negri sono troppo occupati in questo momento per pensare alle cucine — disse Mico.

Nikola avvicinò la candela al volto del cuoco, arrosolandogli leggermente la folta barba. Il disgraziato spalancò gli occhi e tentò di mandare un grido, che Mico gli soffocò prontamente con una energica stretta al collo.

— Silenzio o ti spacco il cranio!... — disse Nikola, alzando l’yatagan.

— Sono un povero uomo — balbettò il cuoco, alzandosi.

— E per questo non ti manderemo all’altro mondo, purché tu risponda alle nostre domande.

— Ma... voi siete gl’inviati dal Sultano. Come vi trovate qui?

— Ciò non ti riguarda — rispose Nikola, il quale continuava a far roteare l’yatagan. — Alzati e guidaci.

— Dove, signori? — chiese il cuoco, con voce tremante. — Non scordate che io sono un povero uomo che non ha mai impugnata un’arme.

— Fuorché per sgozzare dei capponi — disse Mico, con voce ironica.

— È vero, signore: io non sono che un cuoco. Non sono mai stato guerriero, ed anche mio padre era cuoco del Pascià...

— Lascia stare tuo padre — disse Nikola, mentre dei colpi d’archibugio rimbombavano nelle stanze dei veneziani ed un colpo di colubrina rombava al di fuori. — Sai dove si trovano i magazzini del forte?

— Quali magazzini?

— Dove si conservano tutti gli oggetti necessari alle scialuppe ed alle galere?

— È qui vicino, signore.

— Guidaci, se ti è cara la pelle.

Il cuoco, che pareva avesse bevuto troppo Cipro quella sera, tirò un sospirone, girò intorno uno sguardo spaventato fissandolo sul yatagan e sul kamgiar di Nikola e di Mico, poi disse:

— Seguitemi, signori, purché non diciate nulla a Sandjak. Il capitano d’armi è cattivo come la padrona.

— Non ti darà nessun fastidio perché è morto — disse Nikola.

— C’è l’altro però, che è più cattivo ancora.

— L’armeno?

— Sì, Hassard.

— Non ti darà nessun fastidio, te lo prometto. Sbrigati, conducici nel magazzino.

Il cuoco si passò una mano sulla larga fronte adiposa, come se volesse scacciare gli ultimi vapori del Cipro, poi, dopo d’aver fatto alcuni passi a casaccio, si avvicinò ad una porta, girò la chiave ed aprì. Una immensa sala si presentò agli occhi di Nikola e dell’albanese, ingombra di scialuppe, di remi, di attrezzi di ricambio per galere, di montagne di funi, e di grossi fanà.

— Che cosa dici tu, Mico? — chiese il greco, avanzandosi col suo pezzo di candela.

— Che Maometto ci protegge — rispose l’albanese, slanciandosi, con gran stupore del cuoco, in mezzo ai grossi fanali da galera.

— Cerca!... Cerca...

— È trovato!...

— Uno verde?

— Sì, Nikola.

— Vale più dei viveri che abbiamo rubati.

Prese da terra alcune funicelle che erano aggrovigliate a dei timoni ed a delle ribolle, ne tagliò alcune, poi avvicinandosi al cuoco, il quale appariva terrorizzato, gli disse:

— Ed ora, mio caro, lasciati legare le gambe e le braccia. Tu, Mico, taglia un pezzo di vela e forma un bavaglio.

— Che cosa volete fare di me? — chiese il cuoco, con voce semispenta.

— Renderti inoffensivo e null’altro — rispose Nikola.

— Chiudetemi a chiave in una dispensa, ed io non manderò nessun grido, ve lo prometto.

— No, mio caro — rispose l’inesorabile greco. — Allunga le gambe e le braccia.

— Voi volete ammazzarmi.

— Ma no — disse Mico. — Tu, domani, tornerai a sgozzare i capponi d’Hussiff e le anitre delle «acque morte» per empire il ventre ai negri, ai curdi ed alle donne.

— Me lo giurate?

— Sulla barba di Maometto e sulla penna di luce dell’arcangelo Gabriele — disse Nikola. — Allunga, allunga, e non parlare altro.

Il disgraziato che temeva, da un momento all’altro, di sentirsi spaccare il cranio sotto un terribile colpo d’yatagan, fu pronto ad obbedire. I due valorosi lo legarono per bene, lo imbavagliarono, poi lo sollevarono e lo misero dentro una vecchia scialuppa fuori d’uso.

— Puoi terminare tranquillamente il tuo sonno — disse Nikola. — Domani qualcuno verrà a liberarti. Sogna la barba di Maometto e quella del Sultano, che si dice sia bellissima.

Il povero uomo rispose con un rantolo soffocato, e si abbandonò nel fondo della scialuppa.

Mico intanto aveva preso il fanale verde, grosso come quello che avevano fracassato i curdi, e, dopo essersi assicurato che era ben pieno d’olio, fuggì in cucina. Nikola chiuse la porta del magazzino, sprangò quella del passaggio segreto, e salì i gradini a quattro a quattro, portando, pel momento, alcune bottiglie di vino di Cipro.