Il Leone di Damasco/XIX. La morte del governatore
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XIX.
La morte del governatore
Quando il greco e l’albanese salirono nell’appartamento destinato agli inviati del Sultano, Muley-el-Kadel stava seduto presso il letto occupato da suo padre, mentre i quattro veneziani, all’estremità della sala, su un tavolino di madreperla, giuocavano, sottovoce, una partita a zara, colle spade snudate però, e le pistole e gli archibugi a portata di mano.
Nikola e Mico chiusero le quattro porte delle splendide stanze, sbarrandole per di dentro, poi si precipitarono nella stanza ove si riposava il Pascià di Damasco, colle micce delle pistole accese ed un yatagan in pugno.
Muley-el-Kadel, vendendoli entrare in quel modo, e coi volti sconvolti, era balzato prontamente in piedi, snudando la sua terribile spada.
— Che cosa avete, amici? — chiese, con voce un po’ alterata.
— Che noi non possiamo più lasciare il castello senza l’aiuto delle scialuppe dell’ammiraglio — rispose Nikola.
— E la nostra?
— Si trova a due metri sott’acqua sfondata, signore.
— Da chi?
— Da qualcuno che aveva interesse a trattenerci qui.
— Narrami tutto, Nikola.
Il greco non se lo fece dire due volte, e lo informò minutamente dell’esplorazione che aveva compiuta con Mico, nella piccola rada del castello.
— E gli uomini che poco prima sfondavano la nostra scialuppa? — chiese Muley-el-Kadel, il quale appariva assai preoccupato per quell’inatteso disastro.
— Scomparsi, signore — disse Mico. — Non ne abbiamo veduto alcuno. Mancava invece il gran caiccio turco.
— Affondato anche quello?
— No, signore — disse Nikola. Muley-el-Kadel guardò suo padre, il quale non aveva perduto una sillaba di quel racconto, e gli chiese:
— Che cosa ne pensi tu, padre?
Il Pascià si lisciò un momento la foltissima barba, poi disse:
— Io ho già indovinato il disegno del capitano d’armi. Egli ha fatto partire degli uomini per Candia, onde avvertano Haradja di ciò che succede qui. Mi pare che sia facile.
— Per far accorrere il Bascià e prenderci tutti? — chiese Muley, impallidendo.
— Certo, figlio mio. Qui si devono nutrire dei forti sospetti sulla lettera del Sultano.
— Eppure i sigilli erano perfetti.
— Non voglio contraddirti, Muley, ma come vedi, questa gente cerca di giocarti dei pessimi tiri. Come faremo noi tutti a lasciare il castello e raggiungere la squadra veneziana, se non vi sono più imbarcazioni a Hussiff?
— Posso segnalare la gravità della mia condizione all’ammiraglio, e farlo subito accorrere con le sue otto galere ed i suoi ottocento combattenti. Basta che io collochi, su una finestra qualunque, o su una terrazza, fra le undici e le due del mattino, un fanà verde.
— L’hai? — chiese il Pascià.
— No, ma nel castello ne troveremo certamente qualcuno, o anche più di qualcuno.
— Signore — disse Nikola. — Lasciate a me ed a Mico questo incarico. Vedrete che il fanà, coi vetri verdi, fra mezz’ora sarà collocato sul davanzale di quella finestra.
— E che cosa dirai a Sandjak?
— Ho pensato a tutto. Mico, spegni la miccia e andiamo a vedere se è rimasto ancora, nel salone, qualche bottiglia di Marsala da vuotare.
I quattro veneziani si erano alzati, dicendo: — Veniamo anche noi.
— No, signori — disse Nikola. — Se avremo bisogno di aiuti chiameremo, ed allora daremo battaglia disperata ai curdi ed ai negri, e li faremo saltare tutti in mare. Per ora lasciate fare a noi.
— E ci sono anch’io se occorresse un guerriero di più — disse il Pascià di Damasco. — Sono ancora in forze.
— Speriamo di non averne bisogno, almeno per ora — rispose Nikola. — Siamo in due, ma faremo il possibile di sciabolare per otto, se i curdi vorranno guardare, un po’ troppo da vicino, i nostri baffi.
Arrotò un momento i due yatagan, con grande strepito, subito imitato da Mico poi i due valorosi lasciarono le stanze e scesero cautamente lo scalone, che era illuminato da una lampada a vetri azzurri.
Giunti sotto il porticato, Nikola e Mico entrarono nel salone, anche quello illuminato da una grossa lampada azzurra, che faceva scintillare vivamente le piastrelle di maiolica che coprivano le pareti. Subito fecero, entrambi, un movimento di gioia.
L’armeno era seduto tranquillamente dinanzi al tavolo, fumando il narghilek. Da parte aveva un lungo e largo pugnale, come usavano gli uomini del suo paese, ed una tazza di caffè ancora fumante.
Vedendo entrare Nikola e Mico, il losco individuo si alzò, pallido come un cadavere.
— Come!... Non dormite ancora? — chiese. — A Hussiff, alle dieci, si spengono tutti i lumi, e non mancano che pochi minuti.
— Noi andremo a dormire, signor mio, — disse Nikola, con voce un po’ minacciosa — quando tu ci avrai dato delle spiegazioni che ci interessano.
— Non potreste rimandarle a domani mattina?
— No: è una cosa che ci preme assai a noi.
— Avete trovato, forse, delle sanguisughe nei vostri letti? — chiese l’armeno, con voce beffarda. — Non credo, poiché gli stagni delle «acque morte» sono secchi, e la razza che rendeva così bene alla padrona, è scomparsa col sangue cristiano che assorbiva.
— Lascia andare le mignatte, che a noi non interessano affatto — rispose Nikola. — È ben altro che noi vogliamo sapere.
— Dite.
— Noi siamo giunti qui al castello a bordo d’una grossa scialuppa che ora non galleggia più nello specchio d’acqua della piccola rada.
— Come!... È scomparsa!... — esclamò l’armeno, alzando le mani al cielo. — È impossibile!...
— Ti dico, Hassard, — disse il greco, con voce irata — che è stata sfondata, e che non emerge dalle acque che il suo solo albero.
— Da chi?
— Tu lo saprai.
— Ah!... I granchi!... — esclamò l’armeno.
— Quali granchi? — chiese Mico.
— La vostra barca era forse un po’ vecchia...
— Sì, come la barba del Profeta — disse Nikola. — È stata varata sei mesi fa.
— Varata, o presa?
— Che cosa vuoi dire?
— Io sono andato ad osservarla, e sulla barra del timone ho trovato, impresso a fuoco, il nome d’un famoso ammiraglio veneziano, che anni fa ha fatto tremare Costantinopoli: Mocenigo.
— E che cosa vuoi concludere? — chiese Nikola, che si sentiva una pazza voglia di saltargli al collo e di strozzarlo.
— Che mi è sembrato un po’ strano che voi siate arrivati su una barca veneziana.
— E se quella scialuppa fosse stata catturata dalle galere turche?
— Anche questo è possibile — disse l’armeno, prendendo la tazza colma di caffè.
— Continua la storia dei granchi — disse Mico.
— Ah!... Non mi ricordavo più. Volevo dirvi che nella cala del castello, di quando in quando, fanno eruzione dei giganteschi ragni di mare, che tutto distruggono.
— Anche le galere? — chiese Nikola, ironicamente.
— Non hanno branche così solide, ma non mi stupirei che ne affondassero qualcuna.
— Sei un marinaio tu?
— No, sono un uomo di penna.
— E che cosa vieni a raccontare a gente navigata come noi? — disse Nikola. — I granchi erano delle scuri maneggiate da mani robuste, che sfondavano il fasciame della gran scialuppa.
— A quale scopo?
— Lo sapremo più tardi, ma noi siamo venuti qui per un altro motivo.
— Dite, dite pure.
— Il Pascià di Damasco non può soffrire la luce bianca, e desidererebbe un fanà a vetri verdi.
— Fanale da segnali!...
— Per illuminare una stanza.
— Non so se ve ne saranno.
— Andrai a cercarlo ed io ti seguirò coll’yatagan in pugno — disse Nikola, che aveva esaurita tutta la sua pazienza.
— Vuoi uccidermi?
— Anche, se mi accorgo di qualche nuovo tradimento.
— Vi sono qui dei curdi e dei negri che non hanno paura di una battaglia.
— E noi al largo abbiamo otto galere, sempre pronte ad accorrere, montate da ottocento uomini ed armate da duecento colubrine, fra grosse e piccole.
— E chi sono quegli uomini?
— Turchi come noi!... — gridò Nikola. — Fuori il fanale!...
— Io non posso darvelo senza il permesso del capitano d’armi — rispose l’armeno, che cercava di farsi piccolo piccolo e che non osava allungare la mano verso il grosso pugnale.
— Ne farai a meno.
— Io non posso.
— Su, canaglia!...
In quel momento entrò nella sala Sandjak, il capitano d’armi del castello.
— Quale fanà... — chiese, posando ambo le mani sui due yatagan che portava infilati attraverso la fascia di seta.
L’armeno, ripreso animo, lo mise al corrente dello strano desiderio degli ospiti. — Un fanà verde!... — esclamò Sandjak, facendosi oscuro in viso. — Segnale di pericolo. Che cosa volete farne, voi?
— Servirà agli occhi del Pascià — rispose Nikola. — La sua vista è assai sofferente.
— Mi pare che voi diventiate un po’ troppo esigenti — disse Sandjak. — Qui non c’è Haradja.
— Ma qualcuno, a quest’ora, correrà sul mare per avvertirla della nostra presenza — disse il greco. — Venga: noi aspettiamo lei ed anche il Gran Bascià. Vedremo chi impallidirà di più quel giorno.
— Un fanà verde — ripetè il capitano d’armi, il quale pareva che non sapesse decidersi.
— E subito!... — comandò il greco, con voce minacciosa. — La lettera del Sultano parlava chiaro.
— E se fosse falsa?
— Chi oserebbe falsificare i sigilli del capo dei credenti? Tu, forse, ma io no, avendo paura del palo.
— Vi è proprio necessario questo fanale? — chiese Sandjak, stringendo i denti.
— Assolutamente. L’umidità del sotterraneo ha rovinato gli occhi del Pascià in modo da non poter più soffrire la luce bianca.
— È così caro al Sultano il Pascià?
— Un pascià di Damasco!... E come osi domandare ciò?
— Perché la mia padrona non lo stimava affatto, a quanto pare.
— Haradja non è il Sultano — disse il greco, con voce ferma.
— Potete aver ragione.
Si volse verso Hassard, che stava raggomitolato su una sedia, continuando a fumare, e gli disse:
— Fa’ portare un fanà verde. Ve ne sono cinque o sei nel magazzino.
— Ma serviranno per i segnali — osservò l’armeno.
— Obbedisci e non seccarmi. Sono io che comando ora qui; se avrò sbagliato, la padrona si prenda pure la mia vita. Va’!...
L’armeno masticò qualche cosa fra i denti, ed uscì per tornare poco dopo in compagnia d’un negro, il quale portava un magnifico fanà montato in argento, alto più d’un metro, e con tutti i vetri verdi.
— Ecco per gli occhi del Pascià, — disse Sandjak — però vi avverto che se lo esponete sulla finestra, io lo farò scoppiare a colpi d’archibugio.
— Farai ciò che vorrai — disse il greco, prendendo la lampada, che era stata già accesa. — Mico, è ora di ritirarci e di provare i letti d’Hussiff.
Fece colla mano un saluto, piuttosto ironico, al capitano d’armi ed all’armeno ed uscì, spalleggiato da Mico, il quale aveva già sguainati gli yatagan, onde premunirsi contro qualunque sorpresa. La loro ritirata si compì invece felicemente, e dopo qualche minuto i due valorosi erano nella stanza del Pascià.
Quando il Leone di Damasco seppe delle intenzioni del capitano d’armi, di spezzare il fanale con una archibugiata se veniva esposto sulla finestra come un segnale, ebbe un movimento d’inquietudine.
— Qui siamo sospettati — disse. — Ora non ci rimane che andarcene prima che giunga Haradja colle galere del Bascià. Il segnale però è assolutamente necessario per fare accorrere l’ammiraglio.
— Come siete stato d’accordo? — chiese Nikola.
— Esporlo tre volte, ad intervalli d’un minuto, e questo sarà il segnale di gravissimo pericolo. Vedi le galere tu, che hai degli occhi portentosi?
Il greco s’avvicinò alla finestra ed osservò a lungo il Mediterraneo che cominciava ad illuminarsi per qualche irruzione di nottiluche, miste ad altri piccoli pesci fosforescenti.
— Sì, signor Muley, io le vedo: otto punti luminosi. I miei occhi non m’ingannano.
— Credi tu che altri possano vedere i fanà delle veneziane?
— A questa distanza, no, signore — rispose il greco.
— Allora aspettiamo che la guarnigione si addormenti. Pel segnale abbiamo tempo.
Spensero tutti i lumi, non conservando che il gigantesco fanale collocato in mezzo alla vasta camera, visitarono le sbarre delle porte, poi i veneziani, Nikola e Mico si sdraiarono sui letti delle stanze vicine, mentre il Leone di Damasco s’addormentava sulla sua poltrona, accanto a suo padre.
A mezzanotte, il greco, che dormiva come i marinai, balzò dal letto, entrò silenziosamente nella stanza del Pascià, e prima di tutto diede fuoco alle micce dei sei archibugi. Ciò fatto si affacciò al finestrone che dava sul largo terrazzo e scrutò le tenebre.
— Pare che siano andati tutti a dormire — disse. — Ed allora, succeda quello che si vuole, agiamo senza perdere tempo.
Uno ad uno svegliò tutti, poi prese il fanale e lo espose audacemente sul davanzale del finestrone a sesto acuto.
Un momento dopo si udì alzarsi dal basso una voce minacciosa, la quale chiedeva:
— Che cosa fate lassù?... Ritirate subito quel fanale o sparo.
— Chi sei? — chiese il greco, facendosi passare da Mico un archibugio, onde poter subito rispondere.
— Sandjak.
— Buona notte.
— Scherzate? Vi ho detto di ritirare quel fanale.
— Il fanale fa troppo fumo, ed il Pascià è troppo sofferente per tollerarlo.
— Allora spegnetelo.
— Vogliamo vederci, noi signor capitano d’armi. C’è poco da fidarsi d’Hussiff.
— Volete obbedirmi sì o no? — gridò Sandjak, il quale usciva dai gangheri.
— Non trovi piacevole scambiar quattro parole sotto il raggio verde? Guarda come la luce si espande sul terrazzo.
— Basta!... Sparo!...
— Ritira il fanale, per ora — disse Muley al greco. — Ormai deve essere stato rilevato dagli uomini di guardia delle galere.
— Dovremo però rimostrarlo.
— Due volte ancora.
— E quel bestione non vuol saperne della luce verde!...
— Bada di non prenderti qualche colpo d’archibugio a tradimento.
— Sorveglio il mio uomo — disse Nikola, il quale aveva già ritirato il fanà.
— Ed anch’io — disse Mico. — Se spara faremo fuoco anche noi.
— E poi ci assedieranno — disse Muley.
— Penserà l’ammiraglio a venirci a prendere, signore — disse Nikola. — Il segnale è necessario per la nostra salvezza, e noi lo ripeteremo due volte ancora, anche se i curdi dovessero puntare contro di noi le colubrine.
— Insomma, tu vuoi battaglia completa — disse Muley-el-Kadel.
— Credo sia giunto il momento, signore.
— Ed anche a me — disse il Pascià. — Se non vi imporrete colla forza o colla prepotenza, da questo maledetto hisar non uscirete, e non dovete dimenticare che Candia non è molto lontana, e che là si trova il Bascià.
— Signore, — chiese il greco a Muley — che sia passato già un minuto?
— Sì — rispose il Leone di Damasco.
— Ed allora in alto il fanà.
La luce verde si era appena proiettata sull’ampio terrazzo, quando la voce irosa del capitano d’armi si fece nuovamente udire, più minacciosa che mai.
— L’avete finita?... Dentro quel fanà, sangue di un cristiano! Dentro, o chiamo i curdi ed i negri e faccio parlare le colubrine.
Nikola, tenendosi prudentemente nascosto dietro le due colonnette di marmo verde che reggevano il magnifico finestrone, lanciò al di fuori un rapido sguardo.
Sandjak stava ritto sul parapetto sopra l’abisso, e soffiava sulla miccia dell’archibugio.
— Signor capitano d’armi!... — gridò. — Non si può dormire tranquilli in Hussiff.
— Fin che vorrete, ma senza quella luce, che è proibita.
— Tu hai delle storie, mio caro — rispose il greco. — La luce verde non ha mai fatto male a nessuno. Fa piacere, anzi a conversare dall’alto d’un balcone, quando non si ha sonno. Il caffè d’Hussiff deve essere troppo cattivo.
— Dite?
— Che non ho sonno — rispose Nikola il quale cercava di prendere tempo, affinché l’ammiraglio potesse rilevare il nuovo segnale.
— Venite allora qui a passeggiare.
— Fa troppo scuro.
— Se vorrete ci diremo quattro parole a colpi di yatagan...
— Si è guastato il filo del mio, poco fa, nel tentare d’aprire una porta troppo arrugginita.
— Fatevene dare un altro dai vostri amici.
— Dormono come ghiri, e mi spiacerebbe svegliarli ed interrompere i loro sogni.
— Per tutte le mignatte delle «acque morte»!... — urlò il capitano d’armi, alzandosi quanto era lungo sul parapetto, e puntando l’archibugio. — Basta!... A te!...
Un lampo ruppe le tenebre, ed una palla passò sopra il fanà, senza toccarlo. Mico, che si trovava accanto al greco, e che per un vero miracolo non era stato colpito, puntò a sua volta, rapidamente, l’archibugio e sparò.
Il capitano d’armi, che, come abbiamo detto, si trovava in piedi sul largo parapetto del piazzale, accanto ad una piccola colubrina, colpito dall’infallibile palla del montanaro, girò due volte su se stesso, annaspando le mani come se cercasse di aggrapparsi a qualche cosa, poi stramazzò indietro, e la spinta lo portò fuori del parapetto.
Dall’immenso e tenebroso abisso, in fondo a cui muggiva il mare, s’alzò un urlo spaventevole, poi s’intese come una detonazione. Il secondo capitano d’armi di Haradja doveva essersi sfracellato su qualche scoglio.
— È morto — disse Mico.
— Lo credo — disse il Leone di Damasco, il quale si era avvicinato al verone, armato pure d’archibugio.
Per alcuni istanti non si udì più nulla, poi ad un angolo od altro del piazzale s’alzò un risolino beffardo.
— Ah!... Cane!... L’armeno!... — urlò Nikola. — Mostra anche la tua faccia, o meglio sali sul parapetto del piazzale.
Il risolino sardonico si fece ripetere, seguito poco dopo da grida furiose. Curdi, negri, mulatti, si precipitavano giù dagli scaloni, muniti di torce ed armati di sciaboloni, di yatagan, di kamgiar, di pistoloni e di archibugi, urlando:
— All’armi!... I giaurri!
Sulle terrazze le donne del castello, uscite ai due colpi di fuoco, strillavano spaventosamente, come se avessero già i coltelli alla gola. I soldati d’Hussiff, una quarantina in tutto, poiché vi erano nell’hisar molti servi e molti valletti negri che non valevano per le armi, fecero, correndo, il giro del piazzale, ululando spaventosamente, ma una voce li arrestò. Era Hassard, uscito dall’ombra, pronto a occupare il posto del disgraziato capitano d’armi.
— Fermatevi!... — urlò. — Sandjak è stato ucciso dagli ospiti del Sultano, ed io prendo il vostro comando. Levatevi dalla luce verde e seguitemi. Ora rideremo.
— Sei tu che vorrai ridere, lurido spione? — gridò Nikola. — Non osare mostrarti, perché la prima palla che esce dal mio archibugio è tua.
— Che io ti ricambierò con una palla di colubrina — rispose audacemente l’armeno, diventato ad un tratto coraggioso.
— Provati e ti manderemo a Costantinopoli a provare le delizie del palo.
— Aspettami.
Tutti i soldati erano scomparsi, ritirandosi verso un ridotto armato di due colubrine, e che si alzava di fronte al palazzo verso la gradinata che metteva nella rada.
— Leva il fanale!... Basta!... — gridò il Leone di Damasco.
Nikola stava per obbedire, quando due colpi d’archibugio rintronarono al di fuori, ed i vetri del fanà andarono in pezzi. Muley-el-Kadel aveva mandato un grido di disperazione.
— Ecco la nostra rovina!... — esclamò, mentre i vetri cadevano in terra, rimbalzando e spezzandosi.
Il greco, che per poco non aveva presa qualcuna di quelle due palle, non aveva levato dal davanzale del verone che l’armatura del fanà.
— Corpo di Maometto arrostito!... — esclamò. — Non c’è più un pezzo di vetro largo un palmo.
— E così non possiamo fare il terzo segnale — disse Muley-el-Kadel, passeggiando nervosamente per la sala.
— Era proprio necessario, figlio? — chiese il Pascià.
— Sì, padre. L’ultimo segnale doveva significare estremo pericolo, e noi non possiamo più farlo.
— Ne hai fatti ben due.
— Il primo doveva significare: tutto va bene; il secondo: incrociate sempre; il terzo: accorrete subito. Così ero d’accordo coll’ammiraglio veneziano.
— E tu credi che senza il terzo segnale la squadra non si avvicini ad Hussiff?
— No, padre.
— Dove trovare ora un altro fanale? — si domandò il greco, torcendosi rabbiosamente le dita. — Eppure Sandjak aveva detto che ve ne dovevano essere quattro o cinque. Ti ricordi, Mico?
— Sì, l’ha detto a quel maledetto armeno.
— Dove si troveranno?
— Pel momento non pensarci, Nikola — disse il Leone di Damasco. — Vorresti scendere a frugare le sale ed i magazzini con tutti quei curdi e quei negri in agguato?
— Eppure, signore, il segnale ultimo dovremo ben darlo se vorremo venire raccolti dall’ammiraglio.
— Lo so, ma per ora vediamo come si svolgono qui le cose. Forse i soldati d’Haradja, pel timore di offendere dei veri rappresentanti del Sultano, non oseranno nulla. Sono sbarrate le porte?
— Tutte, signore — risposero i veneziani.
— Sarà meglio barricarle coi mobili delle stanze.
— Lo faremo, signore.
In quel momento si udì l’armeno gridare dal di fuori:
— Si può parlamentare? Ho fatto spegnere tutte le micce.