Il Leone di Damasco/XXI. Il fanale verde

XXI. Il fanale verde

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XX. Il passaggio misterioso XXII. Le ultime difese di Candia

XXI.

Il fanale verde


Come era da prevedersi, i negri, aizzati da Hassard, quantunque avessero subito delle perdite durante il primo attacco, erano tornati alla carica insieme ad alcuni curdi e molti servi, più pronti, questi, a scappare che a combattere.

Si erano ostinati contro una sola porta, come se ignorassero l’esistenza dell’altra, e vi picchiavano dentro a gran colpi di scure, cercando di allargare la fessura già prima fatta. Il legno durissimo, vero rovere di Candia, e spesso cinque dita, sostenuto anche dalle quattro sbarre di ferro, opponeva una resistenza terribile alle salde muscolature degli assalitori. Di quando in quando, fra un colpo e l’altro di scure, si udiva la voce irosa dell’armeno gridare:

— Sotto!... Sotto!... Non sono che in otto!... Avreste paura? Che cosa direbbe la padrona se fosse qui? Spezzate, fracassate, vendicate il capitano d’armi.

I quattro veneziani, il Leone di Damasco e suo padre, cogli archibugi fumanti, non aspettavano altro che un’altra crepatura si facesse per fare una scarica serrata.

Non avevano paura d’una invasione, poiché dopo la porta vi era la barricata, formata, come abbiamo detto, da vecchi mobili massicci, dietro alla quale potevano opporre una furiosa resistenza a colpi di spada e di pistola.

Proprio nel momento in cui Nikola e Mico rivarcavano il passaggio segreto, i negri erano riusciti a sfondare una tavola, al di sopra dell’ultima sbarra di ferro, ma i quattro veneziani avevano risposto subito con una scarica, e, come la prima volta, gli assalitori, sordi alle urla di Hassard, erano scappati, mandando altissime grida.

Qualcuno doveva essere caduto giù dalla scala, morto o ferito, a giudicare da una specie di tonfo sordo, seguito da un lamento. Il Leone di Damasco, vedendo il greco comparire col fanà verde, aveva mandato un grido di trionfo.

— Dove l’hai trovato? — chiese.

— Non è il momento di dare delle spiegazioni, signore — rispose Nikola, prendendo la miccia d’un archibugio ed accendendo il lanternone. — L’abbiamo scoperto, e, come vedete, siamo ritornati tutti e due vivi.

— Questo sarà la nostra salvezza.

— Lo spaccheranno.

— A me basta che la luce brilli qualche istante, e poi le galere dell’ammiraglio non devono trovarsi lontane da Hussiff.

— Lo credo anch’io, attirate dai colpi di colubrina sparati dai curdi.

— Sì, Nikola.

— Andiamo a posarlo. I curdi hanno sospeso il fuoco.

— Forse lo riprenderanno, ma a noi non farà gran male. Sarà Haradja che pagherà, più tardi, i danni.

Passarono nella stanza da letto del Pascià, tutta piena di polvere e di calcinacci, poiché ben quattro palle si erano conficcate nella parte fronteggiante l’ampio verone, e dopo d’aver dato al di fuori un rapido sguardo, e di essersi assicurati che nessuna miccia brillava dietro il ridotto, innalzarono sul davanzale il fanà.

— Hai veduto nulla, Nikola, sul mare? — chiese il Leone di Damasco.

— Sì, signore, otto punti luminosi lontani forse due miglia da Hussiff.

— La squadra?...

— Che si avvicina.

— Allora domani non so come se la caveranno i curdi ed i negri, poiché i veneziani monteranno sicuramente all’assalto.

— Sono abituati ad espugnare i saldi castelli della Dalmazia e della Morea, e non si guarderanno né dinanzi, né dietro.

— È proprio la squadra?

— I miei occhi sfidano quelli del migliore marinaio, lo sapete già — disse il greco.

— Lo so.

— Ed allora, signore, fidatevi di me... ed abbassate subito la testa.

— Perché?

La risposta fu pronta. Un colpo di colubrina rimbombò, e la palla andò a spezzare, con matematica precisione, il fanale verde, portandolo fino in mezzo alla stanza.

Il greco guardò il Leone di Damasco con spavento.

— Non importa — disse Muley-el-Kadel. — L’ammiraglio a quest’ora ha potuto rilevare il terzo segnale, che era il più importante. Odi, Nikola?

— Sì, una lontana cannonata — rispose il greco.

— Sparata senza dubbio dalla squadra.

— Viene dal largo, la detonazione. Che cosa fanno i curdi?

— Accendono le micce e si preparano a rispondere.

— Palle sprecate.

— Lo credo anch’io. I curdi non sono mai stati grandi artiglieri. Giù la testa, giù!...

Un altro colpo di colubrina rombò sull’ampio piazzale, ed un’altra palla attraversò la stanza del Pascià, sfracellando un vecchio stipo arabo di gran valore, pieno di porcellane finissime, che forse erano state acquistate in Persia o nell’Afganistan.

— Povera Haradja — disse Nikola. — Se tarda alcuni giorni ancora a ritornare, non troverà in piedi nemmeno le sue cucine.

— E nemmeno i suoi servi — rispose il Leone di Damasco, sparando una moschettata attraverso l’ampio verone, per poi ritirarsi prontamente.

Alcune archibugiate risposero, fracassando gli ultimi pezzi di vetro del fanà, poi si udì la voce dell’armeno urlare:

— Ci attaccano!... Difendete l’hisar fino alla vostra ultima goccia di sangue.

Alcune cannonate partirono dal ridotto più alto ed altre da quello che difendeva lo specchio d’acqua, ma la squadra continuava a bordeggiare in vista del castello, sparando colpi su colpi. I merli cadevano fracassati, le svelte colonnine, di stile moresco, che dividevano gli ampi finestroni delle terrazze superiori, cadevano pure come se fossero di vetro, anche le merlature della gradinata cominciavano a rovinare. Poi cominciò a salire anche qualche palla di pietra, quantunque i veneziani non facessero grande uso di bombarde sulle loro galere.

I quattro veneziani, Mico, il Pascià, il Leone di Damasco ed il greco, essendo stato sospeso l’assalto dei negri, avevano impugnati gli archibugi e tentavano di prendere alle spalle i cannonieri curdi.

Le scariche si succedevano alle scariche, controbattute solamente da qualche colpo sparato dai negri, i quali erano accorsi alla difesa della scala, guidati da Hassard, diventato improvvisamente un terribile guerriero.

La squadra, dopo d’aver lanciato un centinaio di palle e aver bordeggiato al largo, forse per meglio scorgere il fanale verde, ad un certo momento strinse le linee e mosse risolutamente verso il castello, per gettare le ancore nello specchio d’acqua e sbarcare gli equipaggi indicati per gli assalti.

I turchi avevano costruito un piccolo fortino in pietra, quasi a filo d’acqua, armandolo con sei grosse colubrine, per contrastare l’entrata alle navi che venissero di fuori e che non battessero bandiera della Mezzaluna.

Hassard, coi negri e quattro puntatori turchi, l’aveva prontamente occupato, colla speranza di opporre una valida resistenza; disgraziatamente per loro non avevano avuto il tempo di tendere la grossa catena di ferro che serviva a chiudere la bocca del piccolo porto, sicché le prime navi veneziane avevano potuto entrare, scegliere gli ancoraggi e riprendere subito il fuoco interrotto da quelle manovre.

L’ammiraglio, sospettando un agguato, ed ignorando quanti uomini contasse la guarnigione d’Hussiff, prima di far mettere in acqua le scialuppe per lanciare i suoi uomini all’attacco della stretta e pericolosa scala, decise innanzi tutto di ridurre al silenzio il fortino.

Quattro galere, ad un segnale di tromba, cominciarono a far piovere una grandine di proiettili, mentre le altre quattro, rimaste fuori del porto, rispondevano furiosamente alle cannonate del ridotto. La lotta non doveva durare a lungo. Hussiff, sorpreso quasi senza difesa, doveva cadere rapidamente sotto il vigoroso doppio attacco che lo batteva in alto ed in basso.

— Coraggio, figlioli — gridava l’ammiraglio, il quale s’appoggiava a suo nipote, non essendo la sua gamba ancora guarita. — Ricordatevi delle orrende stragi di Nicosia e di Famagosta, e che questa è terra turca presa a noi.

Le quattro galere che erano entrate nello specchio d’acqua, manovrando lentamente sui loro remi, sparavano bordate terribili, quasi a bruciapelo, diroccando rapidamente il fortino.

Per un quarto d’ora i negri ed i puntatori curdi, quantunque crollassero sulle loro teste le volte, tennero duro, facendo tuonare le sei grosse colubrine, poi vedendo che la tempesta di ferro diventava opprimente e che minacciava di distruggere tutto, inchiodarono i pezzi e fuggirono su per la stretta scala, contando forse di opporre una nuova resistenza, ma non erano sfuggiti agli occhi degli artiglieri veneziani.

Due tremende bordate di mitraglia li raggiunsero prima d’aver toccato gli ultimi gradini, e fu una vera strage. Solo Hassard, pochi negri, più o meno mitragliati, e qualche curdo, erano sfuggiti all’onda di ferraccio e di piombo che scrosciava sui gradini.

— Le canaglie sono scappate, ed il fortino è diventato muto — disse l’ammiraglio, il quale aveva sempre comandato il fuoco. — Ora andiamo a vedere che cosa è successo dei nostri amici.

— Io credo, zio, — disse suo nipote — che siano stati attaccati e che si difendano disperatamente. Odi le archibugiate che partono da quel verone che ci fece il segnale verde?

— Ragion di più per lanciare i nostri uomini all’assalto. Ah! Maledetta gamba!... Non poter io guidare i miei valorosi come a Durazzo e nei castelli della Morea!

— Ci penso io, zio — rispose l’animoso giovanotto, degno nipote d’un così grande eroe.

I caicci venivano messi rapidamente in acqua, e le truppe d’assalto, tutte coperte d’acciaio ed armate di archibugi e di spadoni, vi si affollavano, per niente spaventate dalle palle che cadevano dall’alto, poiché i curdi non avevano cessato di servirsi delle colubrine nel ridotto del piazzale.

Duecento uomini, guidati da ufficiali ormai rotti ai terribili assalti dei castelli della Dalmazia, di Negroponte e della Morea, in un batter d’occhio attraversarono lo specchio d’acqua e sbarcarono sulla gettata, dinanzi al fortino ormai muto. Il nipote dell’ammiraglio si era messo alla loro testa gridando:

— Su tutti, a salvare il Leone di Damasco!... La miglior spada di tutta la cristianità!...

Le galere che erano rimaste fuori e che potevano, data la distanza, fare dei buoni tiri di semiarcata, avvertite che l’attacco cominciava, fulminavano rabbiosamente il ridotto, per impedire ai difensori d’Hussiff di accorrere alla difesa della scala.

Quelle ancorate nello specchio d’acqua mitragliavano in alto, verso i merli, dove i servi del castello, improvvisatisi difensori, sparavano qualche colpo d’archibugio e di pistola.

I duecento veneziani, presa terra, si incolonnarono e salirono rapidamente la scala, senza gridare, per sorprendere i curdi che continuavano a sparare dal ridotto. In un lampo, senza perdite, poiché tutti i negri ormai erano fuggiti, salvandosi forse verso le «acque morte», dove già si erano rifugiate le donne ed i paggi, i veneziani raggiunsero il gran piazzale e si scagliarono furiosamente entro il ridotto, pugnalando i curdi sui loro pezzi.

— Venezia!... Venezia!... — aveva gridato il nipote dell’ammiraglio, vedendo degli uomini affacciati al gran verone ed armati d’archibugi. — Giù le armi o montiamo all’attacco.

— Noi siamo il Pascià ed il Leone di Damasco ed i loro amici! — gridò Muley-el-Kadel. — Salite: le porte sono aperte.

Ormai più nessuno opponeva resistenza in Hussiff. I pochi sfuggiti alla strage, erano scappati verso la campagna che si stendeva dietro il castello, salvandosi in mezzo ai grandi stagni pantanosi, ormai non più pericolosi dopo la morte delle sanguisughe.

Il greco, Mico ed i loro compagni avevano levate le barricate e le sbarre delle due porte, sicché i veneziani poterono entrare facilmente nell’appartamento del Pascià, così valorosamente difeso.

— Signor Muley!... — esclamò il nipote dell’ammiraglio, slanciandosi verso il Leone di Damasco. — Non dubitavamo di trovarvi vivo. Ormai i turchi non vi riprenderanno più!...

— Adagio, signor Lorenzo — disse il Leone. — Non siamo ancora al sicuro, e faremo bene a sgombrare al più presto possibile.

— Chi può minacciarci ora? Mi pare che siano scappati tutti, e Nicosia è troppo lontana da Hussiff perché giungano, da un momento all’altro, delle torme di giannizzeri.

— Il pericolo verrà dal mare, signor Lorenzo. Una barca ha lasciato il castello, ed abbiamo i nostri buoni motivi per credere che si sia recata a Candia.

— A domandare soccorsi al Bascià?

— E ad avvertire Haradja della presenza, nel castello, di messi del Sultano.

— Ciò è grave — disse il valoroso giovanotto.

— Pare anche a me.

— Giacché l’abbiamo conquistato questo saldo castello e non possiamo mantenerlo, lo bruceremo, così Haradja, la piccola tigre, al suo ritorno, troverà il suo covo distrutto.

— Volevo proporvelo io — disse il Pascià di Damasco.

Il nipote dell’ammiraglio si volse verso i suoi guerrieri e diede loro alcuni ordini, poi disse rivolgendosi al Leone di Damasco:

— Venite, signore: mio zio sarà ben lieto di rivedervi e di conoscere anche vostro padre.

I veneziani, guidati da Mico e da Nikola, si erano slanciati attraverso le stanze e le cucine, avevano radunate le mobilie e vi avevano dato fuoco, cospargendoli di polvere.

In un baleno gigantesche nubi di fumo eruppero violentemente dai porticati, avvolgendo le terrazze superiori.

Hussiff, il maledetto e temuto castello di Haradja, cominciava a bruciare. Le trombe suonavano a bordo delle galere veneziane, chiamando imperiosamente a bordo gli equipaggi che avevano preso parte all’assalto dell’hisar. Qualche pericolo minacciava la squadra? Nikola, l’uomo dalla vista lunga, prima di lasciare l’ampio piazzale, aveva gettato sul mare un lungo sguardo.

— Giungono!... — aveva esclamato. — I cannocchiali dei capitani veneziani li hanno scoperti. Abbiamo appena il tempo d’imbarcarci.

Raggiunse il Leone di Damasco che aiutava suo padre a scendere la stretta scala e gli disse:

— Facciamo presto, signore. Ho scoperte parecchie navi all’orizzonte che puntano su Hussiff.

— Navi turche?

— Vengono da ponente, ossia da Candia, e non saranno certamente veneziane. Quel maledetto armeno ha mandato ad avvertire Haradja, ed eccoci ora addosso un altro pericolo.

Le trombe veneziane suonavano con maggior furia, mentre il castello cominciava ad avvolgersi fra lunghissime fiamme che irrompevano violentemente dalle ampie vetrate, facendo crepare i vetri. Immense nubi di fumo rossiccio si stendevano sopra le terrazze e venivano spinte lentamente verso il Mediterraneo, da una leggera brezza.

In cinque minuti i veneziani, il Leone di Damasco ed il Pascià, Mico e Nikola, furono a bordo delle galere.

Le ancore furono salpate, e le quattro navi, capitanate dall’ammiraglia, raggiunsero sollecitamente, a gran battuta di remi, le altre che erano rimaste fuori della piccola rada del castello.

Su tutti gli alberi erano state spiegate le bandiere rosse, come segnale di prossimo combattimento, e sulle tolde si caricavano in fretta cannoni e spingardoni pieni di mitraglia.

Parecchie vele erano comparse all’orizzonte, ed essendo la notte chiarissima e l’aurora non lontana, i veneziani, che già facevano uso dei primi cannocchiali, le avevano scoperte, a tempo.

— Credete che la guidi il Bascià in persona? — chiese l’ammiraglio al Leone di Damasco, che era salito sul ponte di comando della capitana insieme a Nikola.

— Io non credo che l’ammiraglio turco abbia lasciato l’assedio di Candia. Forse ha spedito contro di noi la squadra di Ali Arab.

— Una squadra forte?

— D’una ventina di galere — disse il greco.

— Troppe — rispose l’ammiraglio. — Avremo appena il tempo di scambiare pochi colpi di colubrina e di fuggire verso la rada di Capso.

— Ancora là? — chiese il Leone di Damasco.

— È il luogo d’appuntamento per le navi veneziane — rispose Sebastiano Veniero. — E poi voi dovrete ritornare a Candia per prendere la duchessa vostra moglie. Finché c’è tempo, è meglio che lasci la città assediata e coll’aiuto di Domoko e dei suoi amici potrà farlo. Pensate, Muley-el-Kadel, al terribile assalto di Famagosta. Quelle canaglie di turchi sarebbero capaci di ripeterlo anche contro Candia, ed allora non risponderei di Capitan Tempesta.

— Avete ragione, signor ammiraglio — rispose il Leone di Damasco. — Ma mio figlio?

— Se è sempre sulla galera del Bascià, non pensate, per ora, a salvarlo. È vostra moglie che dovete sottrarre ai pericoli d’una strage generale. I turchi sono furiosi per la lunga resistenza che i veneziani oppongono, e se riusciranno a varcare i bastioni e ad espugnare le torri, passeranno tutti a fil di spada.

— Lo so — disse Muley-el-Kadel, tergendosi il freddo sudore che gli bagnava la fronte. — La mia Eleonora!... Oh che non cada in mano di quei miserabili che non risparmiano né le donne né i fanciulli. Succeda quello che si vuole, coll’aiuto di Domoko e dei suoi amici, rientrerò in Candia e salverò la mia donna.

— E verrete a raggiungermi alla rada al più presto. Avremo presto delle grosse novità.

— Quali, signor ammiraglio?

— Ho saputo che la cristianità si è finalmente decisa a menare un colpo disperato alla potenza turca: Spagna, Austria, il Papa, Genova, armano le loro galere, ed anche la Serenissima ne ha varate parecchie. Fra venti o trenta giorni io spero che due o trecento navi sbucheranno dall’Adriatico e che si scaglieranno verso l’Arcipelago greco. Un giovane principe, figlio naturale del potentissimo Filippo II, pare destinato a comandarle.

— Valente, in cose di mare?

— Oh!... Ci sarò io nel momento del grande urto — rispose l’ammiraglio, sorridendo. — Non basta, sul mare, saper maneggiare solamente le spade per montare all’abbordaggio. Un galeotto qualunque, che abbia spezzate le sue catene del remo, può farlo.

Puntò il cannocchiale verso ponente, uno dei primi che si usavano in quell’epoca, essendo appena stati scoperti, e guardò a lungo, poi si volse verso il greco.

— Quante galere? — gli chiese.

— Diciotto, signor ammiraglio — rispose Nikola. — I miei occhi valgono quanto il vostro tubo.

— Che vista meravigliosa possedete!... Avete due cannocchiali viventi sotto le palpebre.

— È giusto il numero?

— Sì Nikola — rispose l’ammiraglio.

— Allora è la squadra di Ali Arab.

— Ho udito vantare l’audacia di questo allievo di Ali Bascià.

— Accetterete la lotta? — chiese il Leone di Damasco.

— Mi preme troppo conservare le mie navi, signor Muley — rispose l’ammiraglio. — La Serenissima ne ha troppo poche in questo momento, per tentare dei combattimenti parziali senza risultato. E poi non abbiamo che otto navi, siano pure più grosse e più rapide e meglio armate, e non ci conviene. Scapperemo cannoneggiando e fileremo diretti alla rada di Capso.

Imboccò il portavoce, e con voce ancora poderosa, lanciò alcuni rapidi comandi, che il vento portò facilmente fino sui ponti delle altre galere. La rotta fu subito modificata, ed i remiganti dettero furiosamente dentro ai remi, facendo saltellare, rapidissime, le otto navi. Intanto l’hisar d’Hussiff bruciava come una gigantesca fiaccola, lanciando attraverso alle tenebre vampe immense, che si riflettevano perfino nel mare.

Nessuno pensava certo a salvarlo. I pochi negri ed i pochi curdi sfuggiti alle cannonate, od ai rovesci di mitraglia, non si sentivano più l’animo di ritornare al castello che credevano ancora occupato da un reparto di veneziani, e assistevano da lontano, insieme alle donne, ai valletti ed ai servi, all’immane incendio.

Mentre Hussiff a poco a poco crollava sotto i feroci morsi del fuoco, la squadra di Ali Arab forzava la marcia per tagliare la via ai veneziani ed opprimerli con un abbordaggio generale. Sebastiano Veniero però, non era uomo da lasciarsi prendere ed avendo maggior numero di vogatori e navi più rapide, si diresse, su due colonne, verso il nord, per evitare il pericoloso urto.

— Giunge troppo tardi il mussulmano — disse a Muley-el-Kadel, che gli stava sempre a fianco. — Se spera che io mi scaldi, s’inganna, e non m’importa affatto che mi dia poi del prudente.

Diede un altro sguardo alle galere avversarie che precipitavano la corsa, cercando di distendersi, poi imboccando nuovamente il portavoce, gridò:

— Fuoco di bordata!... Poi fate lavorare i pezzi di poppa!

Le duecentotrenta colubrine della squadra, tutte di calibro superiore a quelle turche, tuonarono con un rimbombo spaventevole, avvolgendo i ponti d’un fumo così fitto, che per alcuni istanti gli equipaggi non poterono vedere nulla.

Poi seguì il fuoco degli spingardoni e di poche bombarde, più utili in un assedio che in un combattimento navale. I turchi furono solleciti a rispondere coi loro pezzi di prora, non permettendo la loro rotta i fuochi di bordata, e parecchie palle passarono sulle galere veneziane, fuggenti come rondini, uccidendo degli uomini e producendo dei danni nelle alberature e nelle murate.

Ali Arab, poiché si trattava del luogotenente di Ali Bascià, vistosi sfuggire la preda, allargò le sue linee maggiormente, esponendosi a gravi pericoli. Ed infatti i veneziani, scorte due galere staccate dal grosso, che con audacia ammirabile tentavano ancora di venire all’arrembaggio, con un fuoco infernale le disalberarono, facendo grossa strage non solo sui ponti, bensì anche fra i rematori delle corsie. La battaglia ormai era finita.

Le galere veneziane, avvantaggiatesi nuovamente, continuavano a scappare, sparando le colubrine degli alti castelli di poppa, le sole che potessero servire a qualcosa in quel momento.

— Ali Arab dirà forse che noi abbiamo avuto paura — disse l’ammiraglio a Muley-el-Kadel. — A me non importa affatto. Ho troppe vittorie al mio attivo, ed i turchi sanno quanti danni ho recato loro. Ci rivedremo più tardi, Arab, e o io o tu affonderemo nel Mediterraneo.

I turchi quantunque ormai avessero perduta ogni speranza di raggiungere le galere veneziane e di abbordarle, continuavano la caccia, facendo un grande ed inutile spreco di polvere e di palle.

L’ammiraglio Veniero aveva dato ordine ai suoi uomini di non rispondere più premendogli conservare le munizioni che non avrebbe potuto rinnovare che a Messina, dove le navi della cristianità, a poco a poco andavano radunandosi. Per un paio d’ore le due squadre si tennero in vista poi quella mussulmana a poco a poco scomparve.

Le sue navi, troppo pesanti, non erano riuscite a competere con quelle veneziane.

— Hussiff bruciato, le galere ancora intatte — disse l’ammiraglio al Leone di Damasco. — Non potevo desiderare una giornata più felice. Ed ora andiamo ad affondare le nostre ancore a Capso, affinché voi possiate far fuggire da Candia vostra moglie, ciò che sarà facile, poiché l’assedio, dopo due anni, non si è ancora ristretto.

— Non troveremo il Bascià sulla nostra corsa?

— Ma no, Muley. Ha troppo da fare, o crede di aver troppo da fare a Candia colle sue bombarde. Noi, d’altronde, ci terremo lontani dalle coste dell’isola, e terremo bene gli occhi aperti.

Comandò d’issare le vele, essendo sorta, coll’aurora, una fresca brezzolina d’oriente, poi la squadra filò superbamente verso ponente, aiutata poderosamente anche dai remi.

Le galere turche, come abbiamo detto, erano ormai scomparse, e più nessuna detonazione guastava la grande calma che regnava sul Mediterraneo.