Il Leone di Damasco/XVIII. Il tradimento dell'armeno

XVIII. Il tradimento dell'armeno

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XVIII. Il tradimento dell'armeno
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XVIII.

Il tradimento dell’armeno


Mico, accompagnato dai quattro ufficiali veneziani, sempre pronti a menare le mani sulle pelli dei turchi, e preceduti da Sandjak, che portava una grossa lanterna, e dall’armeno, si era cacciato dentro una interminabile scala, scavata nella viva roccia, e che pareva dovesse finire a livello del mare.

— Qui c’è da rompersi l’osso del collo — disse l’albanese. — Signor capitano d’armi alzate bene la lampada. Non sono mai stato un gatto, né di Cipro, né d’Angora.

— Ecco fatto, signore — rispose il povero governatore, che tremava ancora per quella maledetta lettera del Sultano.

— Dove finisce questa scala?

— Nelle prigioni del castello.

— I prigionieri devono stare molto bene in fondo a questa interminabile scala. Che odore di vecchiume, e che umidità!...

— Il Castello ha le sue radici piantate sul mare, — rispose Sandjak — e le onde del Mediterraneo le bagnano senza posa.

— La tua padrona, però, non andava a riposarsi in quei sotterranei durante le giornate afose.

— Aveva di meglio — disse, bruscamente, l’armeno.

— Lo credo — disse Mico. — Si sta meglio sulle ottomane coperte di seta dinanzi ad una vasca zampillante.

— Che voi non avete mai pagato.

L’albanese, che aveva già disceso cinquanta gradini, senza essere giunto alla prigione, si volse impetuosamente contro l’armeno, dicendogli:

— Vuoi che faccia scrivere al Sultano di strapparti la lingua? Vi sono, sappi, otto galere che incrociano al largo, montate tutte da uomini fedelissimi al capo dei credenti. Un segnale, e saranno qui, ed allora non saprei rispondere più della tua vita, giacché il mio padrone può uccidere senza rendere conto a chicchessia, nemmeno al Gran Vizir di Costantinopoli.

— Non arrabbiarti, effendi — disse l’armeno, diventato d’un colpo umilissimo. — Non ho voluto che scherzare.

— In Albania si amano poco gli scherzi — rispose Mico, piccato.

— Ah!... Sei albanese?

— Ti si sente dall’accento, signore — disse Sandjak. — Alcuni anni or sono, ho passato non poco tempo fra quelle montagne, combattendo i bosniaci che non volevano decidersi a gettare in un canto la Croce.

— Ottanta!... — esclamò Mico. — Ottanta gradini!... Ma dove andiamo a finire noi? Sotto il mare?

— Le acque del Mediterraneo sono ancora assai più basse — rispose Sandjak. — Cinque gradini ancora, e saremo nella prigione.

— Allora scendiamo ancora.

La scala cominciava ad allargarsi, tutta umida, per le infiltrazioni che stillavano attraverso le rocce, sulle quali si reggeva l’hisar d’Hussiff. Ad un tratto Mico si trovò dinanzi ad una grossa porta di ferro arrugginita, coperta di gigantesche borchie metalliche.

— Ci siamo — disse Sandjak, togliendosi dalla fascia una chiave enorme.

— Era tempo — rispose Mico.

La porta fu aperta, ed i sette uomini si trovarono in un vasto sotterraneo, illuminato da un fascio di luce che non si sapeva da dove provenisse. In mezzo non vi era che un letto, con coperte di seta però, e su quello riposava il Pascià di Damasco.

— Come vedi, signore, il prigioniero è ancora vivo — disse Sandjak. — Puoi mandarlo a dire al Sultano, onde non creda che la mia padrona l’abbia soppresso.

Il Pascià, udendo quelle voci, si era subito alzato a sedere, guardando i sette uomini.

— Che cosa si vuole da me? — chiese, inarcando le ciglia. — Non bastava ad Haradja di avermi fatto provare i rasoi del suo carnefice, per poi cacciarmi dentro questa prigione, che il mare percuote rabbiosamente giorno e notte, impedendomi di dormire?

— Signore, — disse Mico — ho l’ordine di liberarvi e di farvi trasportare in una stanza del castello, dove potrete essere meglio curato, se la vostra ferita non fosse rimarginata. Qui regna troppa umidità.

— Chi sei, tu? — chiese il Pascià. — Un altro capitano d’armi di questo maledetto castello?

— No, mio signore: lasciatevi trasportare, senza opporre resistenza, ed io vi prometto di farvi riposare in una stanza piena di sole.

— O gettarmi giù dalle rocce dell’hisar? Da Haradja tutto posso aspettarmi.

— No, ve lo giuro sul Corano.

Il Pascià, che pareva non avesse affatto sofferto, né per la prigionia, né pel pezzo di pelle, gettò via la coperta, ed essendo vestito, disse:

— Se si tratta di cambiare stanza andiamo. Qui vi era troppa umidità, e poi quel rombo eterno del mare.

Quantunque non fosse più giovane, discese dal letto rifiutando l’aiuto di Mico, diede un lungo sguardo alla sua prigione, come ad imprimersela per sempre nel cervello, poi disse:

— Andiamo: tu hai giurato sul Corano.

— Sì, signore — rispose l’albanese. — Permettete che vi aiuti a salire la lunghissima scala.

— Come vuoi.

Il drappello lasciò il sotterraneo senza prendersi la briga di chiudere la pesante porta di ferro, e si mise a salire giungendo, dopo cinque minuti, sulla vasta spianata del castello. Il Pascià si fermò un momento sotto una porta, respirò a lungo l’aria marina, poi, sempre guidato da Mico, da Sandjak e dai quattro veneziani, entrò nell’immenso castello.

L’armeno, nel frattempo, era scomparso.

Sandjak fece attraversare al Pascià parecchie stanze piene d’aria e di sole, e sontuosamente ammobiliate, dicendo:

— Scegliete, signore: quella che meglio vi piacerà vi servirà, per ora, di prigione.

— Almeno potrò dormire — disse il Pascià. — Dirai ad Haradja che in quel sotterraneo un prigioniero non potrebbe resistere tre mesi. Dov’è ora la nipote del Bascià?

— A Candia — disse Mico.

— All’assedio?

— Sì, signore.

— In compagnia del suo grande zio — disse il Pascià, con voce ironica.

Tornò a rivedere le stanze e scelse la più vasta e la più arieggiata, le cui finestre, di stile moresco, a sesto acuto, permettevano di spingere lontani lontanissimi gli sguardi sul Mediterraneo.

— Andate tutti e lasciatemi dormire — disse il Pascià, lasciandosi cadere, quasi come un corpo inerte, su un largo letto abbellito da magnifiche coperte di seta.

— Andatevene — disse Mico a Sandjak ed ai veneziani. — Voglio vedere prima se il Pascià si addormenta. Poi vi raggiungerò.

L’albanese li accompagnò fino alla porta, non perché diffidasse dei veneziani, attese qualche minuto, poi, non udendo nessun rumore sul marmoreo scalone, rientrò nella stanza avvicinandosi rapidamente al letto del Pascià. Il vecchio guerriero asiatico, preparato a tutti i tradimenti, udendo quel passo balzò a sedere, gridando con voce terribile:

— È qui dunque che mi si deve strangolare? Sei il carnefice, o meglio, uno dei carnefici di Haradja, tu? Sii breve, della vita ormai poco m’importa.

L’albanese si tolse dalla larga fascia di seta rossa i due yatagan ed una pistola e depose quelle armi sul letto dicendo:

— Mio signore: ecco qui per difendervi se qualcuno volesse farvi male, ma vi è qui, nell’hisar, un uomo, che veglia su di voi. Disgraziato il miserabile che osasse toccarvi.

— Chi è?

L’albanese si curvò sul Pascià, come avesse paura che le sue parole fuggissero e venissero udite, e gli disse:

— Vostro figlio.

Il vecchio guerriero ebbe un soprassalto, e per un momento rimase muto, fissando sull’albanese i suoi occhi ancora intensamente vivi e pieni di fuoco. — Mio figlio qui!... — esclamò finalmente, quasi balbettando.

— Sì, effendi.

— Prigioniero anche lui? — chiese il Pascià, con angoscia.

— Padrone dell’hisar, almeno finché non giungerà la squadra di Ali Bascià.

— In qual modo?

— Ve lo dirà lui solo.

— Come siete giunti qui?

— Su galere veneziane.

— Muley dunque aveva saputo che io ero stato catturato?

— Sì, effendi.

— Ed ha pensato subito a salvarmi. E sua moglie? E suo figlio?

— Lo chiederete a Muley, che fra qualche minuto sarà al vostro letto.

— È sempre cristiano?

— Sempre, effendi.

— Ha fatto bene: anch’io rinnegherei Maometto ed il Corano. Va’ a chiamare mio figlio. Sono tre anni che non lo vedo.

— Sono ai vostri ordini, signore — rispose Mico. — Conservate le mie armi.

— Lasciami solamente un yatagan — disse. — Il mio braccio è ancora buono per tagliare qualche testa.

— Vi credo, effendi — rispose Mico, rimettendosi nella fascia la pistola ed uno dei due yatagan. — Vado a chiamare vostro figlio, ma siate prudente, poiché noi abbiamo i nostri motivi di crederci, anche essendo qui come padroni, strettamente sorvegliati.

— Va’, vola!... Nessun grido uscirà dalla mia gola quando Muley mi comparirà dinanzi.

Mico socchiuse un po’ le finestre, che avevano dei vetri azzurri ed aranciati, attraversò la stanza senza far rumore, scese lo scalone, e dopo essersi fermato qualche po’ sull’ampio piazzale, per vedere se scorgeva le galere dell’ammiraglio veneziano, entrò nel salone.

Muley-el-Kadel era ancora seduto a tavola, e stava fumando uno scibouk carico di tabacco profumato di Morea, a fianco di Nikola. In un angolo si erano ritirati i veneziani, sempre pronti però ad accorrere alla prima chiamata, ed a far rimbombare le solide corazze di Milano, che superavano, in resistenza, tutte quelle dei turchi.

— Vostro padre è libero, signor Muley — disse Mico, curvandosi verso il Leone di Damasco, che fingeva di non vederlo. — Venite e conducete Nikola ed anche i veneziani, perché guardino le scale. Vi è troppo odore di tradimenti nell’hisar di Haradja.

— Ci minaccia qualcuno? — chiese il damaschino.

— Nessuno, per ora.

— Come sta mio padre?

— Mi pare che non abbia sofferto della sua prigionia.

— Nemmeno della ferita che quella donna le ha fatto fare dal suo carnefice?

— Non mi pare, signore. Parlate sottovoce: queste muraglie possono avere degli orecchi. Dov’è Sandjak?

— L’ho veduto poco fa ronzare sul piazzale coi curdi — rispose Nikola.

— E l’armeno?

— Non è più rientrato.

— Si direbbe che tu l’hai a morte con quell’uomo — disse il Leone di Damasco.

— Temo più da parte di quell’uomo che del capitano d’armi — rispose l’albanese. — Quegli occhi non mi vanno.

Muley vuotò lo scibouk, diede un rapido sguardo alle sue armi e disse ai veneziani:

— Andiamo, o signori, a prendere possesso del castello. Non dimenticate gli archibugi. Non si sa mai che cosa può succedere.

I sette uomini, guidati da Mico, lasciarono il salone e si diressero verso la scala marmorea che conduceva nelle stanze del Pascià.

Erano appena usciti, quando da due porte diverse entrarono, cauti e sospettosi, Sandjak e l’armeno.

I due ribaldi si scambiarono un segno, poi uscirono nel cortile, nascondendosi dietro le colonne.

— Sai proprio leggere, tu, Hassard? — chiese il capitano d’armi.

— La padrona non mi avrebbe preso per suo segretario — rispose l’armeno. — Ho imparato a leggere e scrivere ad Erzerum, città che vanta famose scuole. Perché mi hai fatto ora questa domanda?

— Perché sono tormentato da un dubbio che mi gela il sangue dentro le vene — disse Sandjak.

— Quale?

— Che quella lettera possa essere stata falsificata.

— Stupido — rispose l’armeno. — Credi che io non abbia veduto, qualche volta, i suggelli del Sultano?

— Eppure sento che intorno a noi aleggia non so quale pericolo. Che quegli uomini siano proprio inviati dal Sultano?

— Io lo credo. Non hai notato nel loro capo la sua grande aria signorile? Deve essere qualche Vizir, se non di più. Io me ne intendo di persone.

— E gli altri? — chiese Sandjak.

— Sembrano guerrieri ed alcuni devono essere d’alto lignaggio.

— Turchi anche quelli? Non ne hanno l’aspetto.

— Invece di guardare i visi degli uomini, hai tu osservata la scialuppa che ha condotto qui quelle persone?

— Perché mi fai questa domanda?

— Perché poco fa l’osservavo, e non mi parve affatto una imbarcazione turca.

— Che cosa mi dici tu, Hassard?

— Che io sono ben più furbo di te — rispose l’armeno. — Io osservo tutto, mentre tu non ti occupi che di bere del vino di Cipro.

Sandjak si alzò di scatto ed uscì sul terrazzo, seguito, dall’armeno, e guardò attentamente la gran scialuppa dell’ammiraglia veneziana, che si dondolava in fondo al bacino, presso la diga.

— Corpo d’un yatagan!... — esclamò facendo un balzo. — Tu hai ragione. Quella barca non è turca; ha un taglio ben diverso dalle nostre.

— Dove sono gli ospiti?

— Presso il prigioniero — rispose Sandjak.

— Allora pel momento non avranno tempo di occuparsi di noi. Scendi con me.

— Dove?

— Fino alla cala.

— A pescare i granchi?

— No, a guardare meglio quella scialuppa.

— Forse hai ragione.

Si guardarono intorno, e non avendo scorto nessuno degli ospiti, si cacciarono giù per la lunghissima e stretta scaletta che conduceva allo specchio d’acqua. Quando raggiunsero la gettata, presso la quale era stata legata la gran scialuppa, Hassard vi salì sopra e si diresse verso la barra del timone.

Un nome era impresso a fuoco: «Mocenigo — Venezia».

— Tu non sai leggere, per tua disgrazia — disse l’armeno.

— Lo sai già — rispose il capitano d’armi, seccato. — Io non so che menar le mani e uccidere.

— Ed allora devo dirti che questa scialuppa è veneziana, e che porta il nome di quel famoso ammiraglio che osò gettare le ancore in vista di Costantinopoli.

— Potrebbe essere una barca catturata ai veneziani.

— Hum!... — fece Hassard. — Non vedi che è quasi nuova?

— Che cosa vuoi concludere allora, tu?

L’armeno si lisciò parecchie volte la barba, sputò sulla tolda della scialuppa, socchiuse tre o quattro volte gli occhi come se volesse raccogliere meglio i suoi pensieri, poi disse:

— Io non ci vedo chiaro in tutta questa faccenda.

— Ed io meno di te — rispose Sandjak.

— E vorrei darti un consiglio.

— Parla.

— Di mandare, questa notte, una barca a Candia ad avvertire la padrona.

— Per farla tornare?

— Sarà meglio.

— Credo che tu abbia ragione. Se quei signori saranno veramente degli inviati del Sultano, se la sbarazzerà Haradja. Questa sera, appena il sole sarà tramontato, farò partire il grosso caiccio con otto rematori ed un timoniere.

— E farai bene, Sandjak — disse l’armeno. — Vorrei che giungesse qui col Bascià per vedere meglio in questo affare.

— È occupato nell’assedio di Candia.

— Ha galere da staccare finché vuole, e che si logorano inutilmente nelle acque della baia candiota. Mi approvi?

— Pienamente — rispose il capitano d’armi. — Tu mi hai levato un gran peso che mi schiacciava lo stomaco. Andiamo a vedere che cosa fanno i nostri ospiti. Non suscitiamo sospetti.

— Eh!... Hanno da fare col prigioniero.

Lasciarono la gran scialuppa e salirono lentamente la lunghissima scala, tornando sul terrazzo. Il primo uomo che incontrarono fu Mico, il quale passeggiava gravemente, fumando un corto scibouk.

— Dove siete stati? — chiese l’albanese il quale si dava già l’aria di essere almeno un mezzo Vizir.

— A pescare i granchi, — rispose prontamente l’armeno — per offrirne a voi un bel piatto, ma quest’oggi la marea è stata un po’ burrascosa, e non ha gettato alla spiaggia nessuno di quei deliziosi crostacei che tanto piacevano ad Haradja.

— Sicché cena magra questa sera — disse Mico, con accento un po’ ironico, e guardando ben fisso l’armeno.

— Nell’hisar d’Hussiff si mangia sempre bene — disse Sandjak, con voce brusca. — Nessun ospite si è lamentato della tavola della nipote del Grande Bascià.

— Avete mandato fuori i pescatori?

— E sono già ritornati con le reti piene da scoppiare. Vi è molto pesce nella piccola rada, e soprattutto vi abbondano le ostriche.

— Piacciono assai al mio signore — disse Mico.

Sandjak lo guardò un momento sospettosamente, poi gli chiese a bruciapelo:

— Che grado occupa il tuo padrone a Costantinopoli?

— È un pascià dei più ammirati e dei più ascoltati di tutta la corte. Ha combattuto in Asia ed in Austria, ha spezzato lame contro croati e serbi, si è misurato nell’Adriatico coi veneziani, e porta un nome famoso che un giorno conoscerai.

— Un forte guerriero dunque?

— Sia per mare che per terra. Il Sultano non l’avrebbe mandato qui se non avesse saputo a quale uomo affidava la missione.

— Ma che cosa si teme a Costantinopoli? — chiese Hassard. — Che il castello d’Hussiff si arrenda, un giorno o l’altro, ai veneziani?

— I segreti di stato non si dicono — rispose il furbo albanese. — Noi vedremo, guarderemo, giudicheremo, e poi riferiremo al Sultano.

— Su chi? — domandò l’armeno.

— Tu va’ a scrivere delle carte, o meglio, va’ ad ordinare la cena. A Costantinopoli non si aspetta mai il tramonto del sole per mettersi a tavola, per poter ben digerire e dormire tranquillamente. Mi hai capito?

— Parli il turco troppo bene per non comprenderti — rispose l’armeno, stringendo i denti e saettando sull’albanese uno sguardo quasi feroce.

— Ed allora vattene, o meglio, levati dai piedi.

— Chi? — chiese Sandjak, il quale era diventato pallido, ed aveva appoggiata la destra su uno dei due kamgiar che portava attraverso all’alta fascia di seta rossa.

— Il tuo compagno — rispose Mico. — Lascia stare i tuoi kamgiar: ne ho due anch’io nella cintura e nessuno eguaglia gli albanesi in una lotta ad armi così corte.

— Mi sfidi?

— Io? Non ho nessuna voglia di rompere delle lame né di trasgredire gli ordini del Sultano, m’intendi bene? Del Sultano.

Il capitano d’armi abbassò la testa, masticò qualche cosa fra i denti, però non osò replicare, e si allontanò coll’armeno che schizzava veleno dagli occhi.

— Bisogna sorvegliarli — disse l’albanese, seguendoli collo sguardo. — Questa sera niente caffè: la polvere di diamante si mescola troppo facilmente allo zucchero, ed anche qui ve ne potrebbe essere.

Entrò nel salone e vide quattro negri ed altrettanti valletti occupati a preparare la gran tavola, ornandola di grossi mazzi di fiori.

— Corpo d’un pescecane!... — mormorò Mico. — Come mi obbediscono. Basta nominare il Sultano, ed ecco tutte queste canaglie volare. Il padrone cenerà con suo padre, questa sera, quindi resteremo noi padroni assoluti del salone. Pensiamo anche alla loro cena.

Il bravo ed intrepido giovanotto passò nella cucina del castello, dove due cuochi stavano cucinando pesci, pezzi di montone, volatili e granchiolini di mare, e diede gli ordini opportuni affinché parte della cena si servisse nella stanza del prigioniero.

— Ordine del Sultano — disse. — Noi siamo i suoi inviati e parliamo per la sua bocca.

I due cuochi, spaventati, fecero dei profondi inchini, promettendo di fare miracoli per gli illustri ospiti.

— Si diceva che Hussiff era un triste castello, — mormorò l’albanese — mentre invece a me pare che vi regni l’abbondanza. Se rimarremo due settimane qui, torneremo a Creta grassi come botti.

Fece ai cuochi un’ultima raccomandazione, poi tornò nel salone dove trovò Nikola che chiacchierava coi veneziani.

— Contento dunque il Pascià d’aver riveduto suo figlio, anche se cristiano? — chiese.

— È stata una scena commovente, — rispose il greco — che non avrei voluto vedere. Ora però il Pascià, informato di tutto, e sapendosi sotto la protezione di suo figlio e nostra, è tranquillo. Egli spera un giorno di ritornare a Damasco, se non getterà all’inferno il Corano. Credo che sia perfino troppo nauseato della ferocia dei suoi compatrioti, e non sarebbe improbabile che la cristianità contasse un rinnegato di più.

— E di quel valore — disse uno dei quattro veneziani. — I pascià che calpestano la Mezzaluna non nascono come i funghi.

— Abbassate un po’ la voce — disse in quel momento, prontamente, Mico.

Ad una porta si era affacciata la poco simpatica figura dell’armeno. Il losco individuo pareva che cercasse di raccogliere attentamente le parole che gli ospiti si scambiavano.

— Ecco un uomo che io getterei volentieri giù dalle rupi del castello — disse l’albanese, stringendo i pugni. — Non so il perché, ma quell’uomo sarà ben più pericoloso del capitano d’armi.

Si alzò, gli mosse incontro e gli disse con voce dura:

— Fa’ servire la cena qui e nella stanza del prigioniero.

— Sì, mio signore — rispose Hassard, colla sua voce strisciante, antipatica. Cinque minuti dopo i cuochi ed i valletti entravano portando ogni ben di Dio, poi si ritirarono prontamente per lasciare gli ospiti in piena tranquillità.

Muley-el-Kadel e suo padre erano stati già serviti nelle loro stanze, con grande sfarzo di piatti d’argento e di bicchieri di Venezia colorati e non pesanti più d’una noce.

I quattro veneziani, Nikola e Mico cenarono in fretta, per raggiungere e vegliare sul Leone di Damasco.

Non era però trascorsa mezz’ora, che l’albanese ed il greco ridiscendevano nel salone, colle pistole rinnovate di micce.

— Che cosa c’è, dunque? — chiese Mico, dopo essersi ben assicurato che nessuno potesse ascoltarli.

— Questa notte, appena la guarnigione d’Hussiff dormirà, ritorneremo sul mare e raggiungeremo le galere veneziane.

— E le sentinelle?

— Le ammazzeremo con un colpo di yatagan o di kamgiar alla gola.

— Così presto scappare? Cominciavo a trovarmi bene in questo castello.

— Siamo sospettati, malgrado la lettera del Sultano, e da un momento all’altro, il capitano d’armi potrebbe avventarci contro tutta la guarnigione.

— C’imbarcheremo sulla grande scialuppa?

— Sì, ed è meglio andarcene al più presto.

— Ed infatti io ho paura di quell’armeno, tanta paura che, come hai veduto, ho fatto rimandare il caffè, per paura che nello zucchero avessero potuta mescolare della polvere di diamante.

— Si avvelena facilmente in Turchia ed anche fuori della Turchia — rispose Nikola. — In Hussiff poi non se ne parla, e chissà quanta gente Haradja ha mandato all’altro mondo con un bicchiere di Cipro.

— Se andassimo a vedere se la grande scialuppa è sempre al suo posto?

— È quello che volevo proporti, Mico, e sai perché? Perché oggi, da una finestra, ho veduto l’armeno scendere la scala insieme al capitano d’armi.

— Fulmini di Scutari!...

— Parla sotto voce. Il sole è scomparso, la notte è scesa, quindi possiamo permetterci il lusso di andare a respirare una boccata d’aria fresca sulla calata del bacino. Accendi però prima le micce delle tue pistole.

— Non suscitiamo sospetti, Nikola — rispose Mico. — Lavoreranno i nostri yatagan.

Si alzarono, visitarono prima tutte le porte per vedere se vi erano dei curdi nascosti dietro, poi uscirono sul vasto piazzale. Avevano fatto un po’ tardi, però la notte era abbastanza chiara, limpida, piena di astri brillantissimi, i quali si riflettevano vagamente nelle tranquille acque del Mediterraneo che nessun vento tormentava.

Sentinelle non ve n’erano al di fuori: d’altronde sarebbero state affatto inutili. Hussiff non si poteva prendere per sorpresa, e la sua guarnigione poteva dormire tranquilla fra due guanciali e le colubrine delle terrazze.

Il greco prima di avviarsi verso la scala salì sul largo parapetto, che cadeva a piombo sul mare con un salto di duecento e più metri, e guardò attentamente verso ponente prima, poi verso settentrione.

— Vedi nulla? — chiese Mico.

— Sì, otto punti luminosi, ma che solamente i miei occhi possono distinguere, possedendo io una vista estremamente acuta.

— Dunque l’ammiraglio incrocia sempre aspettando il nostro segnale per venire a raccoglierci.

— Sì, Mico.

— E quale deve essere il segnale?

— Solo Muley-el-Kadel lo sa. Andiamo: io non so per quale motivo, questa sera, non sono affatto tranquillo.

— Quel brutto armeno ti ha gettato indosso qualche stregoneria.

Il greco alzò le spalle e si avviò verso la scala, scendendo i gradini lentamente. I due uomini si erano abbassati di circa cento metri, quando udirono salire, dallo specchio d’acqua, dei colpi sordi che si succedettero quasi subito con rapidità prodigiosa.

— Che cosa succede laggiù? — chiese Mico.

— È a te che vorrei chiederlo.

— Questi colpi...

— Si direbbe che si sfonda un galleggiante nella piccola cala. Questo è il mio pensiero.

— Ragione di più per andare a vedere, Nikola.

— Non sarò io che tornerò indietro senza aver veduto — rispose il greco, che appariva assai preoccupato. — Giù, a salti!

Si precipitarono giù dalla scala, facendo i gradini a quattro a quattro, ma quando giunsero in fondo, un silenzio assoluto, appena rotto dal borbottare della risacca, regnava nella piccola cala dell’hisar.

— Noi dobbiamo spiegare questo mistero — disse Nikola. — Qui, poco fa, vi erano degli uomini che sfondavano qualche cosa, ed ora non si vede anima viva e...

Un grido dell’albanese lo interruppe:

— Ah!... Cani!...

— Che cos’hai, Mico? — chiese il greco, volgendosi impetuosamente con un yatagan in mano.

— Sai che cosa sfondano quegli uomini?

— Un pezzo della gettata?

— La nostra gran scialuppa!...

— È impossibile!...

— Guarda: è affondata, e non emerge che il suo alberetto. Ormai è piena d’acqua come una botte!...

Fra i due uomini regnò un breve silenzio, poi il greco fece un gesto di furore.

— Ci hanno assediati — disse. — Noi non possiamo più riprendere il mare se l’ammiraglio non ci manda altre scialuppe.

— Io ho notato una cosa — disse Mico. — Che in questa cala prima vi era un grosso caiccio turco, e che ora non lo vedo più. Guarda tu pure: è scomparso.

— Siamo stati traditi, e la lettera del Sultano non ha prodotto l’effetto di poche ore.

— Che ci massacrino?

— Non siamo uomini da lasciarci infilzare come polli — disse Nikola. — Ci barricheremo nelle stanze che occupano i nostri compagni ed il Pascià, e resisteremo finché giungeranno gli uomini dell’ammiraglio. Da’ fuoco alle micce delle pistole e seguimi subito. Ho fretta di vedere Muley-el-Kadel.