Il Leone di Damasco/XVII. Nell'hisar d'Hussiff

XVII. Nell'hisar d'Hussiff

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XVI. Battaglia notturna XVIII. Il tradimento dell'armeno

XVII.

Nell’hisar d’Hussiff


Quarant’otto ore dopo, la piccola squadra delle galere veneziane, dopo d’aver percorse tutte le coste settentrionali di Candia, giungeva in vista d’Hussiff, arrestandosi però a tale distanza da non poter essere scorta.

Il fortissimo castello, che nessuno avrebbe potuto prendere di sorpresa per la sua posizione, appariva come una semplice macchia giallastra, appena spiccante sull’azzurro cupo delle montagne dell’isola.

Accostarsi di più sarebbe stato pericoloso, poiché il Leone di Damasco ed i suoi compagni, volevano giungervi di sorpresa, quindi l’ammiraglio fece mettere in mare la gran scialuppa della capitana, capace di portare anche venti uomini, ed armata a prora di due petrieri, poi inalberare a poppa la bandiera turca.

Muley-el-Kadel, Mico, Nikola erano saliti sul cassero dell’ammiraglia accompagnati da quattro ufficiali veneziani travestiti da turchi, uomini di polso, che avevano già battagliato molte volte contro gli eterni nemici della Repubblica nell’Adriatico, nell’Arcipelago greco e nel Mediterraneo orientale.

Il Leone di Damasco ebbe con Sebastiano Veniero un ultimo colloquio per mettersi ben d’accordo su quanto poteva succedere, poi la grossa scialuppa, spiegata la sua vela latina, filò lungo la fronte delle galere, salutata dagli «evviva» degli equipaggi, poi a lunghe bordate, poiché il vento non era del tutto favorevole, si diresse verso il castello.

— Quando giungeremo? — chiese Muley a Nikola, che teneva la barra del timone.

— Fra un paio d’ore vedremo le scolte delle terrazze segnalarci — rispose il greco.

— O salutarci con qualche colpo di colubrina?

— Battiamo bandiera turca col segnale del Sultano. Chi oserebbe fare fuoco su di noi?

— Che nessuno ti possa riconoscere dei soldati d’Hussiff?

— Non c’è nessun pericolo, signore. Sono passati tre anni e più, è vero, da quando vostra moglie, la duchessa, osò presentarsi ad Haradja?

— Sì, — rispose il Leone di Damasco — ed io vi sono rimasto così poco, che non credo che la mia fisonomia sia rimasta impressa in nessuno di quei manigoldi.

— Crederanno alla lettera?

— Ha creduto anche Ali Bascià, che passa pel più furbo marinaio della squadra ottomana!... E poi una lettera con tanto di sigilli!...

— E che cosa ordina alla guarnigione d’Hussiff?

— Di trattarci come messi del Sultano, incaricati di sorvegliare la condotta di Haradja.

— Così mangeremo e berremo allegramente finché ci si presenterà l’occasione opportuna per liberare vostro padre.

— Giacché Haradja e Metiub sono entrambi a Candia, a Hussiff si sarà nominato un governatore, ed a quello imporrò subito, d’ordine del Sultano, di far uscire dal carcere il Pascià di Damasco. Vedrai che tutto andrà bene se Haradja rimane ancora un po’ di giorni a Candia.

— Che possa ritornare?

— Io spero di no, poiché la sua ferita non è ancora guarita, ma se giunge qui improvvisamente colle galere del Bascià, resteremmo ben presi dentro l’hisar.

— Certamente, poiché l’ammiraglio, malgrado tutta la sua buona volontà, sarebbe costretto a lasciarci soli alle prese coi turchi, rifugiandosi in qualche porto cipriota, in attesa di aiuti.

— Come credi che finirà tu, Nikola, questa guerra?

— Candia resiste sempre, e la Serenissima ha grossi arsenali capaci di lanciare in mare le più grosse galere. Io credo signore, che dopo tanto silenzio, avremo uno scoppio spaventevole, un urto terribile fra cristiani e turchi, e che non saranno questi ultimi che sapranno cavarsela. L’ammiraglio mi ha già detto che tutte le potenze cristiane si preparano a dare il gran colpo al lurido ottomano.

— Non sono ancora d’accordo, mio caro Nikola — rispose il Leone di Damasco. — Hanno troppi interessi contrari.

— Per lasciar assassinare quanti più cristiani potranno? Non giunge l’eco delle cannonate di Candia fino allo sbocco dell’Adriatico? Non si sa dunque che diecimila eroi sono già caduti sotto le rovine e le bombarde, e che gli altri ventimila resistono ferocemente, lottando colla fame giorno per giorno, ed inghiottendo pagnotte di segatura di legno per la gloria del Leone di San Marco?

— Si ha paura appunto del Leone di San Marco — disse Muley-el-Kadel. — Una vittoria completa sui turchi, quale potenza darebbe alla Serenissima? E perciò, mio caro, si indugia ad aiutarla, specialmente la Spagna, che si è sempre proclamata lo Stato più cristiano di tutta l’Europa. E perché non si è mossa quando Mustafà trucidava ferocemente la popolazione di Famagosta? Era qui che il suo re doveva mandare i suoi guerrieri, invece che spedirli al di là dell’Atlantico alla caccia dell’indiano e dell’oro. Ho navigato diversi anni lungo le coste della Spagna, da Alicante a Gibilterra, da Barcellona a Cadice, e conosco benissimo quel paese.

— Alto!... — gridò in quel momento l’albanese, che stava seduto a prora.

La grossa scialuppa, a furia di bordate, era giunta a due o tre miglia dal castello d’Hussiff, sicché il forte maniero ormai appariva in tutta la sua imponenza, colle sue terrazze coperte, coi suoi bastioni, colle sue lunette, coi suoi ridotti accovacciati gli uni vicini agli altri come tante tigri in agguato. Una immensa bandiera rossa, con una mezzaluna senza stella, era sta spiegata proprio allora su uno dei più grossi bastioni, e pareva che dicesse agli audaci naviganti:

— Badate!... Qui regna il turco!... Questo è il covo della nipote di Ali Bascià!...

Poi una nuvola di fumo si era alzata su un ridotto, ed una detonazione secca si era distesa rapidamente sul mare.

— Colpo in bianco — disse Nikola. — Ci invitano a mostrare i nostri colori!...O che non vedono ancora la bandiera turca che ci sta alle spalle? Che siano tutti ubriachi lassù, ora che la terribile padrona ed il capitano d’armi sono assenti?

— Mico, — disse il Leone di Damasco — rispondi anche tu con un colpo in bianco, prima che ci cada dall’alto qualche enorme palla di pietra e ci sfondi la scialuppa.

— Lasciate fare a noi, signor Muley — dissero gli ufficiali veneziani, che occupavano la prora.

Come abbiamo detto, la scialuppa portava due petrieri, armi leggere, ma all’occorrenza abbastanza buone per un fuoco a corta distanza. Uno dei due pezzi fece fuoco a polvere, mentre l’altro, per precauzione, veniva caricato con una buona palla di ghisa.

Trascorse qualche minuto, poi la grande bandiera turca fu ammainata fino a mezz’asta, per risalire poi rattamente al suo posto. Era il saluto. La scialuppa poteva ormai avanzarsi senza correre alcun pericolo.

Se vi fosse stata ancora Haradja al castello, quel saluto non avrebbe convinto nessuno, ma ormai si sapeva che la tigre d’Hussiff dolorava a Candia nella cabina di qualche galera, e forse insieme al suo capitano d’armi.

Nikola diede uno sguardo all’entrata della minuscola rada, capace di contenere solamente qualche mezza dozzina di gagliotte, osservò attentamente il passaggio cosparso di grossi massi, precipitati probabilmente dall’alto, poi disse:

— Ammainate la vela e diamo mano ai remi. Voi, signor Muley, passate al timone.

— Le ho salde anch’io le braccia per battere il mare — disse il Leone di Damasco.

— Lo so, ma voi dovete passare come il rappresentante del Sultano, e mi seccherebbe che quelle canaglie, che spiano tutti i nostri movimenti, vi vedessero arrancare come un galeotto.

— Forse hai ragione, Nikola — rispose il Leone, prendendo la barra del timone.

La vela fu ammainata e chiusa contro il pennone inferiore, poi i quattro veneziani, Mico ed il greco si misero a lavorare di remi. Il mare era abbastanza tranquillo, quantunque da quella parte le coste dell’isola cadessero quasi a piombo, dando così agio alla formazione dei flutti di fondo, quindi la gran scialuppa, malgrado la sua pesantezza, sotto i vigorosi colpi dei sei remi, in meno d’un quarto d’ora, potè oltrepassare il canale e gettare l’ancorotto a pochi passi da una banchina da sbarco, sulla quale in quel momento era comparso un omaccione assai barbuto e d’aspetto poco rassicurante, armato d’un archibugio, di due pistole e di due yatagan.

— Corpo d’un pescecane!... — esclamò l’albanese. — Che sia questo Maometto II risuscitato, o Mustafà il Massacratore?

— Chi siete e che cosa volete? — chiese l’omaccione, dandosi l’aria d’un grande personaggio, e ravvivando, con una rapida mossa della mano, le micce delle sue armi da fuoco.

— Domando a te chi sei — disse il Leone di Damasco, mentre i suoi uomini, per precauzione, preparavano pure i loro archibugi. — Haradja non è più qui, e nemmeno il suo capitano d’armi.

— Come lo sai, signore?

— Lascia andare ora. Io voglio sapere chi governa ora il castello, avendo una lettera del Sultano.

— Per la mia padrona?

— Niente affatto: per la persona che l’ha surrogata nella vigilanza d’Hussiff.

— Sono io — rispose l’uomo barbuto. — Sono il nuovo capitano d’armi, e qui io solo comanderò fino al ritorno della mia padrona.

— Allora sarai tu che aprirai la lettera del Sultano.

— Io! — esclamò l’omaccione, impallidendo.

— Devo consegnarla al governatore del castello, e giacché ora sei tu che qui comandi, aprirai anche la lettera.

— Non mi manderà poi il Sultano qualche bel laccio di seta, per aver violati, con le mie mani impure, i sigilli?

— Stupido: ho l’ordine di fare così, quindi tu non puoi avere nessun timore. Lasciaci sbarcare ed andiamo a leggere insieme la lettera, quantunque io conosca a memoria il contenuto. Come ti chiami innanzi tutto?

— Sandjak.

— Sei dell’Asia, mi pare.

— Sì, signore.

— Ora lasciaci il passo, e da’ ordine a tutti quei negri che si nascondono dietro i parapetti della gradinata con gli archibugi fumanti, di andare a far colazione. Per ora non abbiamo bisogno dei loro servigi.

Il turco, impressionato dall’aspetto del Leone di Damasco, che anche sotto semplici vesti poteva passare per un effendi almeno, si tirò tre o quattro volte la lunga barba nera, poi spense le micce delle sue armi e gridò ai negri, che si erano appiattiti sui gradini:

— L’inviato del Sultano vi ordina di recarvi a fare colazione. Sgombrate.

I dieci o dodici archibugieri, udendo quelle parole, si affrettarono a salire la scala, scomparendo in alto.

La grossa scialuppa fu assicurata ad un anello di bronzo che era infisso nella banchina, e che in alto raffigurava l’eterno Leone di San Marco ruggente, poi i sei uomini, vestiti completamente d’acciaio, prese le loro armi, archibugi, pistole, draghinasse e mazze, presero terra.

— Guidaci — disse il Leone di Damasco al governatore. — Spero che avrai una colazione da offrire anche a noi. L’aria del mare aguzza l’appetito.

— Sì, effendi, per te e per i tuoi uomini — rispose il turco.

Il drappello salì la lunghissima e stretta scala aperta nella viva roccia, che due soli uomini sarebbero bastati a difendere quasi senza correre pericolo, varcò, trecento passi più sopra, un ponte levatoio, e raggiunse il gran cortile d’onore, tutto circondato da bellissimi porticati di stile moresco, con in alto ampie terrazze sulle quali curiosavano parecchie donne.

Tutta la guarnigione, malgrado l’ordine ricevuto di andare a far colazione, si era schierata, sia per prudenza, sia per fare onore agli ospiti. Si componeva d’una dozzina di negri, quasi tutti di forme erculee, e di altrettanti curdi, ai quali forse era affidato il tiro delle artiglierie.

Vi erano poi servi e valletti quasi tutti negri o mulatti, che si nascondevano dietro i colonnati dei chioschi, e moltissime schiave sulle terrazze che facevano udire delle risa argentine.

Il nuovo capitano d’armi fece attraversare al drappello il cortile, mentre i soldati salutavano, con le micce accese però, e lo introdusse in una vasta sala, anche quella di stile moresco, nel cui centro una fontana di marmo verde zampillava, grillettando allegramente.

Tutto intorno vi erano delle superbe ottomane di seta bianca di Damasco, e sulle pareti grandi trofei di armi cristiane, conquistate, probabilmente da Ali Bascià, dopo d’aver massacrati inesorabilmente coloro che le portavano. Da una parte si allungava una tavola di cedro del Libano, capace di servire a venti convitati, con sgabelli di stile marocchino montati in madreperla e cuoio rosso di Rabat.

— Effendi — disse il governatore, che pareva ancora assai scombussolato. — La colazione verrà subito. Ti prego di accomodarti coi tuoi amici.

— Un momento — disse Muley-el-Kadel, vedendo entrare uno strano individuo coi capelli lunghissimi, il cappello altissimo e la veste tutta di seta nera. — Chi è quell’uomo?

— Era il segretario di Haradja — rispose Sandjak, con voce un po’ esitante.

— Lo si direbbe un armeno.

— Ed infatti, è un armeno.

— Razza di traditori — borbottò Nikola, stringendo i denti.

— Perché lo hai fatto venire?

— Perché lui solo sa leggere, effendi — rispose il capitano d’armi.

— Va bene, ma sarai tu che romperai i sigilli del Sultano.

— Perché io invece di Hassard?

— Chi è questo Hassard?

— L’armeno che ti sta dinanzi.

— La lettera deve esser aperta dal governatore d’Hussiff, chiunque sia — rispose Muley-el-Kadel con voce imperiosa.

Indi trasse la lettera datagli dall’ammiraglio, e che portava i grossi sigilli del Sultano, e la depose sulla tavola dicendo:

— Tu aprila e l’armeno te la leggerà. Questa operazione potete però compierla su qualche altro tavolino, poiché qui noi aspettiamo la colazione.

— È pronta, effendi.

— C’è corte bandita in Hussiff dopo che Haradja non è più qui? — chiese Muley, corrugando la fronte.

— No, mio signore, si è sempre vissuto bene in Hussiff. Abbiamo le «acque morte» che ci somministrano tanta selvaggina da non saperne, talvolta, che cosa fare.

— Ah!... Vi sono dei cristiani che pescano ancora le mignatte?

— La guerra ha rovinata quell’industria, signore.

— Va bene: assaggiamo la selvaggina delle «acque morte» d’Hussiff.

Sandjak si avvicinò ad una porta, prese un martello e fece rullare fragorosamente il gong che stava sospeso allo stipite.

Come per incanto, dieci servi e sei valletti, carichi di piatti e di posate d’argento, invasero la sala, e prepararono in un momento la tavola.

— Per la barba del Profeta — mormorò Mico. — Si deve stare molto bene in questo hisar, ed io credo che passeremo qui dei bei giorni.

Appena preparata la tavola, entrarono altri servi ed altri valletti, portando grandi piatti d’argento pieni d’anitre selvatiche arrostite, di beccaccini, di dorate e di polpi di mare, di yaourt, ossia latte cagliato; di bureke, ossia di sfogliatine fritte nel grasso, e che sono la delizia dei palati mussulmani; poi granoturco bollito, datteri, fichi secchi.

— Ci si può stare — disse Mico, che aveva un appetito feroce, e che fiutava avidamente gli arrosti. — Ma, signore, qui ora non c’è da bere. Dite al governatore che anche il Sultano beve vino di Cipro. Qui ve ne deve essere, nascosto nelle profonde cantine.

— Hai capito? — domandò Muley al capitano d’armi.

— Sì, effendi: anche a Hussiff si può ora bere dopo che ne ha dato l’esempio il Sultano che è il capo dei credenti.

— Fa’ portare le migliori bottiglie e lasciaci mangiare tranquilli. Tu, intanto, va’ a leggere la lettera insieme al segretario d’Haradja.

Tutti si assisero intorno alla lunghissima tavola, preparata con lusso orientale, e diedero l’attacco alla colazione, mentre dei valletti già accorrevano portando dei canestri pieni di bottiglie polverose.

In un angolo, il capitano d’armi e l’armeno studiavano la terribile lettera che pareva avesse messa, indosso a tutti e due, una vera febbre senza conoscerne il contenuto.

— Il colpo è fatto — disse Nikola al Leone di Damasco, squartando una superba anitra. — Fra mezz’ora, o meglio, fra cinque minuti, noi saremo i padroni d’Hussiff e potremo sapere la sorte toccata a vostro padre.

— Io spero che viva ancora in qualche sotterraneo di questo maledetto castello — rispose Muley. — Era un vecchio dalle fibre d’acciaio che non avrà sofferto gran che se gli hanno levati pochi palmi di pelle. Più di venti ferite ha riportate, combattendo ferocemente contro le indomabili tribù dei curdi di Bassora, senza morire. Non sarà quindi un colpo di rasoio che lo avrà ucciso, ma se dovessi trovarlo morto, d’Hussiff non rimarrà pietra su pietra.

— Ed appiccheremo tutti questi furfanti — disse Mico. — Ho notato che vi sono molte corde di seta nei tendaggi di questa sala: serviranno meravigliosamente, e questi banditi morranno coll’illusione di aver ricevuto il laccio fatale del Sultano.

— Stiamo un po’ a vedere come vanno le cose — disse il greco. — Noi siamo solamente sette, e qui dentro fra soldati, schiavi, valletti, vi sono almeno cinquanta persone, senza contare le donne. È vero che al largo incrocia la squadra veneziana.

— La faremo accorrere per tarpare tutti i merli d’Hussiff.

— Il segnale lo darete questa notte? — chiese il greco a Muley.

— Sì, dalla più alta terrazza del castello, se tutto andrà bene. Non voglio compromettere la squadra veneziana per la salvezza mia e di mio padre. Ah!... Ecco il moka che giunge scortato dal capitano d’armi. Povero uomo!... Ha il viso ben oscuro.

— Gli è crepato il cuore rompendo i sigilli del Sultano — disse Mico.

Un negro portava sulla testa lanuta un gigantesco vassoio, di argento cesellato, con chicchere di porcellana semiracchiuse entro piccole gabbie d’oro.

— Ehi, faccia nera — disse Mico che era in vena di scherzare, avendo bevuti non pochi bicchieri del Cipro d’Hussiff. — Sarà veramente moka!

— È quello che beveva la padrona — rispose il povero africano, tremando.

— Un caffè un po’ vecchio, poiché la tua padrona manca da molti giorni da Hussiff.

— Tostato stamani, effendi.

— Ebbene, proviamolo — rispose l’albanese, guardandolo un po’ di traverso.

Come si sa, i turchi sono maestri nella preparazione del caffè. Non macinano il grano prezioso ed aromatico, lo stritolano fra due pietre fino a ridurlo polvere quasi impalpabile, che si getta dentro il bricco quando l’acqua bolle.

È spesso come una cioccolata, ma nessuno che sia stato a Costantinopoli mai si è lagnato di quel moka. Il negro depose l’enorme vassoio sulla tavola, poi ad un gesto imperioso di Mico, scappò via lesto come una gazzella delle sue terre. Il governatore intanto si avvicinava, a passi lenti, seguito dall’armeno, tenendo in mano la terribile lettera che portava i sigilli del Sultano.

— Il segretario di Haradja è riuscito a decifrare gli sgorbi arabi impressi su quella carta? — chiese Muley-el-Kadel, dopo d’aver sorbito in fretta la sua tazza di caffè.

— Sì, effendi — rispose il governatore, mostrando la lettera.

— Hai dunque capito che cosa vuole da te il Sultano?

— Che vi accordi ospitalità fino al ritorno della padrona, e che vi tratti cogli onori che spettano ai principi.

— Il sangue che scorre nelle mie vene — disse Muley — è quello della più alta nobiltà turca. Mia madre era cugina di Maometto II.

— Effendi — disse il governatore, diventato subito livido. — Che cosa posso fare per te?

— Quello che dice la lettera — rispose Muley.

— Lasciare l’hisar nelle vostre mani?

— Sì, fino al ritorno della tua padrona, e bada che io comanderò come per la bocca del Sultano. Lacci a Costantinopoli ve ne sono sempre da regalare.

— Lo so effendi, ma io non sono un grande personaggio.

— Sei un governatore d’un hisar, forte come pochi ve ne sono su queste isole, quindi puoi crederti un grande dignitario, o per lo meno, un grande capitano. Fa’ accostare il segretario di Haradja. Vi è ancora una tazza di caffè per lui.

— Non oserà, effendi.

— Lo trascinerò io — disse Mico, alzandosi. — Nello zucchero noi non mettiamo polvere di diamante, come si usa alla corte di Costantinopoli, per forare gli intestini d’un uomo che dà noia. Questo è zucchero d’Hussiff.

Nikola ebbe un brivido pensando al caffè bevuto ed ai tradimenti dei mussulmani, però si rassicurò subito vedendo l’armeno ad un cenno di Sandjak, accostarsi al tavolino ed accettare la tazza che Mico gli porgeva.

— Troppo onore, illustri signori — disse il losco personaggio.

— Bevi e poi parliamo — disse Muley-el-Kadel, con voce secca, imperiosa.

— Ti ascolto, effendi.

— Siedi anche tu, Sandjak — continuò il damaschino. — Tu devi rispondere ad una mia domanda.

— Dì pure, signore — rispose il governatore, sedendosi accanto a Nikola.

— Quanti prigionieri vi sono nel castello? — chiese allora, a bruciapelo, Muley.

Sandjak e l’armeno si guardarono l’un altro sbigottiti, poi il primo, dopo d’aver bevuto un mezzo bicchiere di Cipro, per prendere animo, rispose:

— Forse che il Sultano crede che il castello sia pieno di prigionieri? Vi ho detto che le «acque morte» non vengono più lavorate dopo che una malattia ha distrutte le sanguisughe.

— E nei sotterranei non si troverebbe, per caso, qualche prigioniero? — chiese Muley.

— Credo.

— Credi?... Ma a Costantinopoli si sa già che quel prigioniero è il Pascià di Damasco.

— Io non l’ho mai saputo, signore, poiché dopo la sua cattura, Haradja non è più tornata qui.

— E si sa anche che la tua padrona ebbe l’audacia di strappare, al vecchio ed illustre guerriero, un po’ di pelle. È vero, sì o no?

Sandjak aspirò una gran boccata d’aria, bevette un altro mezzo bicchiere che il greco gli porgeva, poi rispose:

— Infatti quel prigioniero è giunto qui con una spalla fasciata.

— È stato più curato? — chiese Muley-el-Kadel, con voce terribile.

— Sì, effendi, te lo giuro sul Corano, perché la padrona mi aveva mandato a dire di avere cura di quell’uomo.

— Dove si trova il Pascià?

— Sarà veramente il Pascià di Damasco?

— Si sa più a Costantinopoli, di quello che succede in Hussiff, che voi.

— Io lo ignoravo, signore, pure ritenendolo un grande personaggio che avesse usato qualche torto alla mia padrona.

— Tu farai preparare una stanza per quel prigioniero, ed esigo si trovi vicina a quelle che tu destinerai per noi, poiché voglio sorvegliarlo io.

— Sono pronto a obbedirvi, signore.

— Mico, accompagna Sandjak nei sotterranei con la scorta — disse Muley-el-Kadel.

— Eccomi — rispose l’albanese, mentre i quattro veneziani si alzavano per seguirlo.

Sandjak prese con sé l’armeno ed uscì, seguito dai cinque uomini. Nella sala non erano rimasti che Muley e Nikola.

— Perché non siete sceso voi, signore? — chiese il greco.

— Mio padre mi avrebbe subito riconosciuto, ed allora chissà che cosa sarebbe potuto succedere. Non dimentichiamo che noi siamo i più deboli, e che dobbiamo lavorare più di furberia che colle nostre spade.

— Talvolta divento una bestia — disse il greco. — Ammiro la vostra prudenza.

— Usciamo sul terrazzo. Chissà che qualche punto nero non ci segnali il luogo ove la squadra veneziana incrocia.

Vuotarono un altro bicchiere di Cipro, attraversarono il grandioso cortile, e uscirono sul vasto terrazzo, che era armato da una mezza dozzina di colubrine e da due bombarde.

Muley-el-Kadel si avvicinò al parapetto, senza degnarsi di rispondere ai saluti dei curdi che stavano in quel momento lucidando i pezzi, ed interrogò ansiosamente l’orizzonte che era purissimo, senza la più piccola nube.

— Tu, che hai gli occhi dei marinai, vedi nulla? — chiese al greco.

— Non scorgete proprio nulla, voi?

— Lo confesso, quantunque creda d’aver due buoni occhi.

— Ebbene, signore, la squadra si trova laggiù, verso settentrione. Otto punti neri che io solo posso scorgere: il conto è giusto col numero delle galere.

— Che vista hai tu, Nikola?

— Quella d’un uomo che ha passata quasi tutta la sua vita sul mare, signore. Voi, laggiù, non scorgete che un nembo grigio verdastro, battuto dal sole, ma non vedete niente di quello che si nasconde sugli estremi confini dell’orizzonte.

— Non ho i tuoi occhi, Nikola.

— Bisogna nascere marinai, e vivere lunghi anni sul mare — rispose il greco.

— Tu mi assicuri che le galere sono sempre al largo d’Hussiff?

— Sì, mio signore: volete che lo giuri sul Corano, come rinnegato, o sulla Croce come cristiano sempre fedele?

— Non occorre, Nikola — rispose Muley-el-Kadel. — Tu hai veduto, e per me basta.

— Se volete la mia vita prendetevela, signore.

— No, no, la sapremo difendere anche contro queste canaglie che vegetano in Hussiff.

Il Leone di Damasco stette ancora qualche minuto appoggiato al parapetto, guardando il mare tutto scintillante di pagliuzze d’oro, poi disse:

— Ed ora andiamo a vedere mio padre.

— Non traditevi, signore.

— Caccia dalla stanza, anche a colpi di spada o di mazza il governatore, e soprattutto quell’armeno.

— Sapete, signore, che io ho più paura di quell’Hassard che di Sandjak?

— Ed io pure — rispose Muley-el-Kadel. — Quell’uomo mi è sospetto.

— Appartiene ad un popolo di traditori — rispose Nikola. — Perduta la loro nazionalità, si sono resi schiavi dei turchi, senza tentare alcuna resistenza.

— Andiamo, Nikola.

— Prudenza, signore.

— Ne avrò. D’altronde Mico ha avuto da me istruzioni per mettere in guardia anche mio padre. Andiamo a vedere quel povero vecchio, che da tre anni non ho più riveduto.

Fece scorrere la spada nella guaina, poi tornò, col rinnegato, verso il gran salone.