Il Leone di Damasco/XVI. Battaglia notturna
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XVI.
Battaglia notturna
La squadra veneziana, quantunque potesse trovarsi esposta ad un repentino assalto da parte delle navi ottomane, non si era mossa da Capso, attendendo il ritorno di Mico e di Nikola prima di prendere una decisione.
Sebastiano Veniero però, sempre prudente, non aveva mancato di lanciare al largo un paio delle sue navi esploratrici, e come abbiamo veduto, aveva avuto una buona idea, poiché i due valorosi che avevano recata la lettera ad Ali Bascià, spingendosi l’albanese, audacemente, dentro la baia di Candia, difficilmente avrebbero potuto sfuggire a tutte le cannonate della feluca.
Quando i salvati giunsero sulla capitana, l’ammiraglio stava pranzando col Leone di Damasco, cui era stato accordato il posto d’onore, e con gli ufficiali del suo stato maggiore.
— Riusciti? — chiese l’ammiraglio alzandosi prontamente, nonostante la ferita che lo faceva sempre tribolare.
— Il Bascià ha promesso di venire — rispose l’albanese.
— Con la sua capitana?
— Ah!... Questo non lo so, signor ammiraglio. Non c’è da fidarsi di quella gente, anche quando promettono.
— Tu sei sicuro, però, che si spingerà fino qui?
— Possiede troppo coraggio quel maledetto algerino per avere paura d’un agguato.
— Hai veduto le galere salpare?
— No, signor ammiraglio — rispose Mico.
— Se ci assalirà lo tenterà questa sera. Ad Ali piacciono i combattimenti notturni, anzi, sono una sua specialità. Venga, e con l’aiuto di Dio, tenteremo uno sforzo disperato. Ah!... Se potessi impadronirmi di quell’uomo!...
— Che cosa ne fareste? — chiese Muley-el-Kadel.
— Proporrei uno scambio con vostro figlio, e nemmeno Haradja lo rifiuterebbe, malgrado tutto l’odio che nutre verso di voi.
— Verrà?... Ecco il punto interrogativo.
— Che cosa dici tu, Mico? — chiese l’ammiraglio.
— Io credo che verrà, signore — rispose l’albanese.
— Di mio figlio hai avuto nessuna notizia? — chiese Muley-el-Kadel.
— So che è ancora a bordo, ma nulla di più. Mi è stato impossibile fare qualche cosa per quel fanciullo.
— Non ti rimprovero — disse il Leone di Damasco. — Hai già compiuta una grande audacia a presentarti al Bascià con quella lettera.
— Che lo avrà fatto certamente arrabbiare — disse Sebastiano Veniero.
— Pareva una belva fuggita da qualche deserto.
— Terminiamo il pranzo, e poi prepariamoci per la battaglia — disse l’ammiraglio.
Si era nuovamente alzato guardando il cielo che andava coprendosi di leggeri veli di vapori, cacciati innanzi dal vento sciroccale che è il guastamestieri del Mediterraneo.
— Avremo una notte assai oscura — disse, facendo un gesto d’impazienza. — Io non so, ma si direbbe che la Mezzaluna protegge più i mussulmani, che la Croce i cristiani. Bah!... Siamo in buon numero e tutti valorosi, e se vedremo di non poter reggere all’urto, passeremo attraverso le galere di Ali a gran furia di remi.
— Per rifugiarvi nell’Adriatico? — chiese il Leone di Damasco.
— No, Muley-el-Kadel, se non potrò salvare vostro figlio, pel momento, andremo al castello d’Hussiff e lo diroccheremo, se la guarnigione non ci consegnerà vostro padre. Ho l’ordine di mantenermi in queste acque per proteggere i cristiani, e non lascerò né Candia, né Cipro.
Poi rivolgendosi agli ufficiali dello stato maggiore, che non avevano lasciata la tavola, disse loro:
— Che questa sera nessuna galera affondi le ancore grosse, per essere noi subito liberi di salpare, di accettare la battaglia o di evitarla se non ci converrà. Passate il mio ordine agli equipaggi, e soprattutto ai mastri.
— Sicché, — disse il Leone di Damasco, mentre gli recavano una tazza di vero moka e delle pipe già cariche, — voi non siete sicuro, ammiraglio, di dare addosso al Bascià?
— Se venisse solo colla sua capitana, malgrado la mia gamba ferita, sarei il primo a montare all’abbordaggio — rispose il prode veneziano. — Qualche cosa questa sera succederà, e molta polvere si consumerà — disse l’ammiraglio. — Aspettate prima che valuti le forze dell’avversario.
Sorseggiato il caffè e fatta qualche fumata, gli ufficiali andarono a visitare tutti i pezzi, le polveriere ed i remi dei galeotti, affinché non mancasse, al momento supremo, la grande spinta per l’arrembaggio. Durante la giornata nessun altro veliero si mostrò nelle acque di Capso.
Non avrebbe potuto, d’altronde, avvicinarsi di sorpresa, poiché le galere più rapide esploravano al largo e lungo la costa, pronte a far tuonare le loro colubrine. Sebastiano Veniero sembrava piuttosto preoccupato dell’assenza di velieri turchi.
— Possibile che Ali Bascià, prudente come è sempre stato, non mandi qualche volteggiatore di mare, per assicurarsi delle mie forze? Avremo una sorpresa, e forse una terribile sorpresa. Bah!... Siamo stati mandati qui per combattere per la gloria del Leone di San Marco, finché le nostre dita avranno la forza di stringere le spade e di reggere gli scudi.
Il sole finalmente tramontò, però sull’orizzonte subito diventato oscuro, non splendette nessun punto luminoso, che potesse tradire l’avvicinarsi dei mussulmani.
Si era pentito il Bascià, ed aveva preferito rimanersene tranquillo sulla sua capitana, per provare qualche nuova bombarda contro le cinte della città assediata?
— Che cosa dite, signor Veniero? — chiese il Leone di Damasco, abbordando sul largo ed altissimo cassero della galera, il valoroso veneziano. — Che sia un’attesa inutile?
— No, signor Muley. La lettera portava i sigilli del Sultano, e credo che nemmeno il Bascià oserebbe rifiutarsi ad un ordine che parte dalla corte di Costantinopoli. Si corre il pericolo di ricevere una cassetta, sia pure elegante, d’argento forse e cesellata con dentro un laccio di seta nera. Voi, Muley-el-Kadel, sapete che cosa significano quei regali, anche se non contengono alcun biglietto.
— L’hanno mandata anche a me — rispose il Leone di Damasco. — Mi sono però ben guardato dall’obbedire, e quel cappio mi serve ora per stringere maggiormente la mia cintura, affinché le armi non cadano.
In quell’istante, sul pennone della vela latina, si udì una voce gridare:
— Luci verso l’est.
— Quante? — chiese l’ammiraglio.
— Non so ancora.
— Fanà di galere, o lampade di galeotte o di feluche?
— Fanà — rispose il gabbiere.
— Guarda bene e conta giusto.
— Quattro.
— Sole?
— Per ora non ne vedo di più.
L’ammiraglio si volse verso il Leone di Damasco e gli disse:
— Mi stupisce che il Bascià venga qui con così poche forze. Già che venisse con la sua sola capitana non era da sperarlo.
— Daremo battaglia? — chiese Muley-el-Kadel.
— E senza ritardi, quantunque io tema un agguato, ma le nostre galere sono più veloci di quelle dei turchi, ormai invecchiate dalla lunghissima crociera, e se vedremo che l’affare si farà serio, daremo dentro ai remi, sparando tutte le nostre colubrine.
Imboccò il portavoce, salì sul ponte di comando, aiutato da suo nipote, e gridò con voce ancora poderosa:
— Tutti a posto di combattimento!... Andiamo a misurarci con Ali Bascià!...
Sulle galere veneziane, per alcuni minuti, regnò un tramestio febbrile. Si formavano, in fretta ed in furia, con panconi e ammassi di grosse gomene, delle barricate, fra il castello di prora e l’albero maestro, onde gli ottomani non potessero subito correre alla conquista del timone; si trascinavano fragorosamente i pezzi, cambiando loro di posto, marinai ed archibugieri gareggiavano fra di loro. I mastri della cala, nel frattempo, si erano slanciati verso i galeotti incatenati tre per tre ai loro banchi, ed incaricati della manovra dei remi.
— Mettete in bocca il tappo — urlavano, facendo fischiare gli staffili. — Morite sul posto senza lamenti.
Le otto galere, alle dieci e mezza, lasciavano la rada, muovendo animosamente incontro ai mussulmani. La capitana, montata da Sebastiano Veniero e dal Leone di Damasco, nonché dai migliori ufficiali della squadra, le precedeva.
Essendo il vento completamente caduto, tutte le immense vele latine erano state calate, perché non imbrogliassero le difese, ma i remi maneggiati energicamente dai galeotti supplivano con vantaggio la spinta, non sempre regolare, delle vele. Sebastiano Veniero si era portato sul castello di prora, guardato da trenta archibugieri e da una cinquantina di alabardieri tutti coperti di ferro, e seguiva attentamente cogli sguardi le mosse delle galere mussulmane. Il Bascià si avanzava lentamente, tenendosi stretto alla costa, come non avesse nessuna fretta d’impegnare la lotta.
— Il birbante non è solo — disse ad un tratto l’ammiraglio veneziano a Muley-el-Kadel, quando le dodici navi furono a portata di colubrina. — Sono più che certo che entro qualche spaccatura della costa, vi sono altre navi nascoste, pronte a piombarci addosso appena avremo impegnata la battaglia.
Le artiglierie, specialmente sulle galere veneziane, cominciavano a sparare furiosamente, con un rimbombo così spaventevole, che rendeva quasi impossibile ai marinai di udire gli ordini degli ufficiali.
I galeotti intanto, che avevano prima ricevuta un’abbondante razione di vino di Cipro, e che ora venivano spietatamente percossi da mastri della cala, davano dentro ai remi a tutta lena, facendo trabalzare le catene che li tenevano legati ai banchi.
Nessuno di quei miserabili, per la maggior parte assassini e prigionieri turchi, parlava, avendo ben stretto fra i denti il tappo di sughero. Urlavano invece a tutta gola i mastri, correndo come pazzi per le corsie e scagliando terribili nerbate che lasciavano dei gran solchi sanguinosi:
— Sotto!... Forza, canaglie, o vi facciamo mitragliare....
Le galere veneziane prima delle dieci e mezza, con una splendida corsa, si trovavano già nelle acque della squadra mussulmana, la quale si era spiegata rapidamente in ordine di battaglia, facendo coprire i ponti ed i castelli di balestrieri, invece che di archibugieri. La capitana veneziana stava per precipitarsi addosso a quella del Bascià, quando un grand’urlo echeggiò su tutti i ponti di comando:
— Ferma!... Ferma!...
Quel grido l’aveva mandato, per primo, Sebastiano Veniero.
Non si era ingannato, sospettando che l’algerino gli tendesse a sua volta un agguato, ed aveva scorte a tempo altre dieci o quindici grosse galere, uscire da una specie di fiordo nascosto da due alti promontori. Tutte portavano fanà sui casseri e ciò significava che si trattava di vere navi da combattimento.
— Di volta al settentrione!... — aveva gridato l’ammiraglio. — Sparate dai casseri!...
Le otto galere della Repubblica arrestarono quasi di colpo il loro slancio, descrissero una grande curva, tuonando colle colubrine e cogli archibugi, poi si misero in gran fuga, su due linee.
I mussulmani, vedendo sfuggire le prede, avevano mandato urla ferocissime, ed avevano anche loro sparato, e saettato, ma ormai era troppo tardi. Le loro navi non potevano competere con quelle veneziane, fatte veramente per la corsa, e poi la lunga crociera in quelle acque tiepide le aveva deteriorate.
— Mi spiace dover volgere le spalle al nemico — disse Sebastiano Veniero al Leone di Damasco. — Non vi sono abituato, ma la Serenissima non ha che questo gruppo di navi, ancora capaci di tentare qualche impresa, e preferisco salvare i miei equipaggi.
— Dove andiamo? Verso la Morea? — chiese Muley.
— Ah, no: non ho dimenticato, mio bravo, che nel castello d’Hussiff si trova rinchiuso vostro padre.
— E vorreste tentarne la liberazione!... — esclamò il damaschino.
— Non potendo, per ora, salvare vostro figlio, occupiamoci di vostro padre — rispose l’ammiraglio. — E poi quel castello d’Hussiff ho sempre desiderato vederlo spianato al suolo. Guardatevi dalle palle, Muley. Fra poco non giungeranno più sui nostri ponti, poiché le nostre navi corrono come rondini marine.
Le galere mussulmane, mancato il colpo, si erano provate a mettersi in caccia, facendo tuonare tutti i loro pezzi di prora, ma quantunque i mastri della cala bastonassero a sangue i galeotti dei remi, di minuto in minuto rimanevano indietro.
Ormai le navi non combattevano che colle lunghe colubrine da caccia, poiché quelle piccole, gli archibugi e le balestre erano diventate inservibili per la grande lontananza. Per una mezz’ora ancora i veneziani e gli ottomani si cannoneggiarono senza prodursi grandi danni, poiché il colpo di tutti quei remi rendeva la mira quasi impossibile, poi il fuoco rallentò rapidamente, e finalmente si spense. Le otto galere veneziane erano ormai fuori di portata, e filavano magnificamente verso oriente, tenendosi a circa cinque miglia dalle coste dell’isola.
— Ecco finito tutto — disse l’ammiraglio al Leone di Damasco. — Per il momento i padroni del mare siamo noi, ed Ali Bascià farà bene a tornarsene a Candia a far tuonare le sue bombarde.
Durante tutta la notte le galere veneziane scapparono a gran velocità, senza più consumare una carica di polvere che sarebbe stata, d’altronde, sprecata, ed ai primi albori passavano al largo di Candia, ad una distanza di una quindicina di miglia.
Quelle mussulmane, rimaste tutte indietro, disperando ormai di poterle arrembare, o si erano fermate o si erano rifugiate dentro qualche fiordo. Sul mare non volavano che dei grossi uccelli marini, ma non si scorgeva nessuna vela.
Passando dinanzi a Candia, i veneziani, quantunque si fossero tenuti così lontani, essendovi nella rada altre duecentocinquanta navi del Bascià, avevano udito, portate dal vento, le detonazioni dei mortai e delle bombarde mussulmane, fulminanti le ultime difese della disgraziata città.
Per un momento, quei valorosi, che avevano ormai donata la loro vita alla Croce, ebbero l’idea di cambiare rotta e di piombare improvvisamente sulle squadre mussulmane, ma Sebastiano Veniero che ci teneva a conservare alla Repubblica quelle poche navi, aveva dato recisamente l’ordine di continuare la corsa verso Cipro. E le otto galere, colle vele sciolte, le rosse bandiere spiegate sugli alberi mostranti il Leone dorato, avevano approfittato d’un salto di vento per allontanarsi maggiormente dalle coste di Candia. Nessun pericolo ormai poteva minacciarle, poiché il Bascià non era più ricomparso sull’orizzonte, e grosse squadre mussulmane non stazionavano nei porti di Cipro.
Tutto il giorno le otto galere non cessarono un solo momento di filare a piena corsa, poi, verso il tramonto, restrinsero le linee, spensero i fanali e presero la mezza corsa, per accordare un po’ di riposo ai disgraziati galeotti, che da tante ore maneggiavano i pesanti e lunghissimi remi, non ricevendo in compenso altro che nerbate. L’ammiraglio, dopo aver fatto i suoi calcoli sulla carta, si era ritirato sul cassero, invitando a cena solamente il Leone di Damasco.
— Prima di assalire Hussiff abbiamo da parlare — disse il veneziano. — Voi siete stato in quel castello, è vero?
— Sì, ammiraglio, e vi sono stato insieme a Nikola.
— Il rinnegato?
— Quando io riuscii a fuggire con mia moglie, era con me, ma vi era già stato prima.
— Con Capitan Tempesta?
— Sì, ammiraglio.
Sebastiano Veniero mandò un mozzo a cercare il greco, il quale non tardò a comparire, accompagnato dall’ormai suo inseparabile amico l’albanese.
— Siedi di fronte a me — disse Sebastiano Veniero. — Non spaventarti se io sono ammiraglio, perché prima non ero che un semplice ufficiale di marina che tormentava i turchi a Ragusa ed a Durazzo. Mi diceva, in questo momento, il Leone di Damasco, che tu sei stato a Hussiff, nel covo di Haradja.
— Sì, signor ammiraglio, insieme alla duchessa cristiana che andava a cercare il visconte Le Hussière.
— Presenta difese formidabili?
— Due ordini di terrazze armate di colubrine, con due fortini accanto allo sbarcatoio.
— Una sorpresa non la credi possibile?
— No, poiché il castello è piantato troppo in alto, e nessuna galera potrebbe avvicinarsi senza essere scoperta.
L’ammiraglio fece un gesto di stizza, poi guardando Muley-el-Kadel che fumava il scibouk, gli chiese:
— Che cosa dite voi?
— Che coi turchi, ammiraglio, è meglio ricorrere ai tradimenti. Avete sempre il sigillo del Sultano?
— Vi ho detto anzi che ne ho due.
— Allora tutto andrà bene.
— Che cosa volete dire?
— Scriveremo una lettera con ordini espressi, sotto pena di morte, di ricevere nel castello gli inviati di Ali Bascià.
— Che saranno?
— Io, Nikola, Mico ed altri valorosi se vorranno seguirci. Una volta dentro la piazza metteremo a posto facilmente i pochi guardiani lasciati da Haradja e tutte le donne che ingombrano i giardini e gli harem. Se vi fosse Metiub sarebbe un altro affare; fortunatamente il capitano d’armi pare che debba ricordarsi per un po’ della mia stoccata e non lo rivedremo tanto presto.
— Ecco un’idea magnifica — disse l’ammiraglio. — Io vi accompagno fino ad Hussiff con una sola nave, onde non destare sospetti, scortandovi però a distanza, poiché dei turchi non c’è da fidarsi. Quando ci farete dei segnali ci avvicineremo tutti, e se Hussiff non si sarà ancora arreso, lo spianeremo a colpi di colubrina. Questa impresa, che somiglia in modo straordinario a quella di Durazzo, che ho condotto felicemente alla fine, mi sorride assai.
— Mi preparerete la lettera?
— Prima che giungiamo in vista di Hussiff sarà pronta. Io unirò a voi quattro ufficiali che truccheremo da turchi, e che parlano la vostra lingua meglio di me, onde vi prestino man forte. Le sorprese possono sempre giungere improvvisa fra le spalle e la nuca.
— E poi?
— Poi, quando saremo sicuri sul vostro conto, entreremo noi. Voi ed i vostri compagni non avete altro da fare che alzare qualche ponte levatoio, dopo aver ammazzati i guardiani.
— Un’impresa non troppo difficile — disse Nikola. — Conosco i fossati e so dove si trovano i ponti.
— Resta così stabilito? — chiese l’ammiraglio.
— Sì, signor Veniero — rispose Muley-el-Kadel.
— Ed allora allarghiamo sempre dalle coste di Candia, quantunque ormai non abbiamo più nulla da temere dalle navi del Bascià rimaste alla baia, e andiamo ad avvistare quel maledetto castello d’Hussiff.