Il Leone di Damasco/XV. La caccia al caiccio

XV. La caccia al caiccio

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XIV. Sulla galera del Pascià XVI. Battaglia notturna

XV.

La caccia al caiccio


Già avevano percorse molte e molte miglia, e si credevano ormai completamente al sicuro, quando il greco nel volgersi per esplorare il mare verso oriente, scorse un punto luminoso che ballonzolava sulle onde. Una imprecazione gli sfuggì.

— Che i cristiani siano proprio destinati a cadere sempre nelle mani dei turchi? — disse poi, caricando precipitosamente il moschettone. — Vedi, Mico?

— Non sono cieco. Un semplice fanale od un fanà da galera?

— No, no fanà — rispose il greco, il quale osservava attentamente. — Da dove è sbucata quella nave? Prima non l’abbiamo scorta.

— Può essere un pacifico mercantile carico d’uve secche di Cipro — disse Mico.

— Nessuno osa mettersi in mare, e tutti i piccoli velieri, da mesi e mesi, dormono in fondo alla rada della Morea.

— Che il Bascià, diffidando del negro, ci abbia mandato dietro qualche gagliotta?

— Non deve essere nemmeno una gagliotta.

— Che cosa sarà allora?

— Una nave assai più piccola: una feluca.

— Quanto potremo distare da Capso?

— Una quindicina di miglia — rispose il greco.

— Potremo giungervi prima che quel veliero ci piombi addosso e ci prenda?

— Corriamo più che possiamo. In caso disperato ci getteremo alla costa e raggiungeremo la baia a piedi. Nelle mani del Bascià io non voglio cadere.

— E nemmeno io, dopo che gli ho ucciso l’uomo incaricato di sorvegliarmi. Sarebbe capace d’impalarmi su qualche alberetto della sua galera. No, no, mi fa paura quell’uomo.

Il greco si era alzato, e guardava attentamente il fanale, il quale si avanzava rapido, spiccando vivamente sul cielo tenebroso. — Non può essere che una feluca — disse poi.

— Barche rapidissime?

— Vanno come i gabbiani, mio caro Mico.

— Ed allora ci prenderanno.

— Non siamo ancora nelle loro mani. Stringi contro la costa, e bada di non urtare.

— E la risacca?

— Il caiccio terrà bene: avanti...

La scialuppa cambiò rotta e filò lungo la spiaggia, cacciandosi in mezzo alle onde spumeggianti promosse dalla risacca. Il greco si era messo a prora col fanale, e stava attento ai banchi ed alle scogliere.

Anche la feluca aveva stretta la corsa verso la costa, ben decisa, a quanto pareva, ad impadronirsi di quei misteriosi fuggiaschi.

— Non ci vuole lasciare — disse Nikola. — Ci sta alle costole.

In quel momento un lampo ruppe le tenebre, seguito da una detonazione abbastanza forte, ma né l’albanese, né il greco, udirono il ronfo del proiettile.

— Colpo in bianco — disse Nikola. — Ci invita a fermarci sotto pena di affondarci.

— Pezzo? — chiese Mico.

— Da non spaventarci: è una piccola colubrina, che lancerà palle di tre libbre.

— Se ci arriva uno di quei dolci attraverso il caiccio, coleremo a picco.

— Aspettiamo.

Passò un minuto. La scialuppa si dibatteva a venti o trenta soli metri dalla costa, facendo dei salti bruschi, essendo la risacca assai violenta, in causa d’un gran numero di minuscoli scoglietti che spezzavano, laceravano l’onda che giungeva dal largo.

— Finiremo col fracassarci su qualche ostacolo — disse Mico.

— Fino a che tengo la barra io, ciò non avverrà — rispose. — Tu segnalami gli scogli ed i banchi, e lascia a me la cura di condurre in salvo la scialuppa.

— Bisognerebbe spegnere il fanale.

— Per i turchi è un buon punto di mira, ma giacché tu non sei nato un gatto, lascialo pure acceso. Come ci vedresti dopo?

— Nulla affatto.

— Bum!... Un altro colpo!...

La detonazione fu seguita, dapprima da un suono acuto, poi da un sibilo, ed una palla passò sopra l’alberetto del caiccio, all’altezza di pochi piedi, a giudicarlo dalle scintille che il proiettile si era lasciato indietro.

— Per tutti i pescicani del Mediterraneo, quei turchi tirano meravigliosamente — disse Mico. — Un’altra cannonata ancora, e ci spaccheranno in due la scialuppa. Credi a me, Nikola, spegni il fanale. Se urteremo tanto peggio per noi.

— Non ancora — rispose il greco, il quale continuava a proiettare, dinanzi alla prora del caiccio, la luce del fanale.

Una terza cannonata rimbombò sulla feluca, ed una palla forò il gran flocco, perdendosi poi in mezzo alla spuma della risacca.

— Un po’ più vicino, e ti portavano via la testa — disse l’albanese al greco, il quale non cessava di esplorare.

— Si trova ancora sulle mie spalle — rispose Nikola. — Ne sento il peso. Non si va a caccia colle colubrine. Lascia che si sfoghino, e che consumino munizioni. Stringi sempre la costa tu, e non uscire dalla risacca. I soprassalti che fa fare alla scialuppa renderanno la mira assai difficile.

— E se ci spacchiamo?

— Prenderemo terra, ecco tutto — rispose Nikola, il quale conservava una calma meravigliosa.

La feluca, che doveva essere rapidissima veliera, guadagnava via di momento in momento. Cercava di accostarsi, tanto da poter tentare qualche scarica di mitraglia. Era già alle prese colla risacca, e quantunque fieramente percossa, non aveva arrestata la sua corsa.

— Che cosa dici, Nikola? — chiese, ad un certo momento, l’albanese.

— Che non ci rimane altro che di fracassare il caiccio contro qualche banco, e poi prendere subito terra — rispose il greco.

— Allora urto.

— No, no, aspetta.

Un altro colpo. Era una gragnola di mitraglia che si rovesciava sopra la scialuppa.

Il piccolo bompresso fu portato via di colpo, lasciando cadere il flocco; poi anche il pennone della latina cadde. Nikola aveva subito spenta la lanterna. La feluca non era ormai che a quattrocento passi, e poteva permettersi di mitragliare.

— Un banco dinanzi a noi!... — gridò il greco. — Manda in secca la scialuppa, e bada di non perdere le armi. Ne avremo bisogno più tardi.

L’albanese tirò rapidamente la barra del timone.

Il caiccio fece un gran salto sulla cresta d’un’onda che veniva dal largo, tutta risplendente di meduse e di nottiluche, poi avvenne un urto spaventevole.

— A terra!... Salta fra la risacca!... — urlò Nikola.

Mico prese le due pistole e le munizioni, e quantunque avesse battuto violentemente la fronte contro l’ultimo banco di poppa, si slanciò fra le acque rumoreggianti, tenendo ben alte le armi, affinché la spuma non spegnesse le micce.

— Lesto, Mico!... — gridò il greco, il quale aveva già preso terra. — Gettati dietro a qualche rupe, o la mitraglia dei turchi ti farà fumare le carni.

La costa si prestava per nascondersi, poiché delle rocce enormi erano cadute dall’alto e si erano accumulate qua e là, formando dei veri bastioni impenetrabili anche alle grosse artigliere.

I due fuggiaschi, attraversato il banco, malgrado gli urti della risacca, si gettarono subito in mezzo a quel caos di massi. Si erano appena nascosti dietro una pietra enorme, quando la feluca spazzò la spiaggia con una grandine di mitraglia.

— Se tardavi un po’ ad obbedirmi, tu avresti, a quest’ora, una ventina di quei proiettili che fanno sudare anche i medici ad estrarli.

— Che cosa adoperano dunque i turchi per mitragliare? — chiese l’albanese.

— Chiodi e pezzi di ferro vecchio, che possono produrti una infezione inguaribile.

Un’altra tempesta di mitraglia cadde sulle rocce, con dei lunghi fischi, ma ormai i due fuggiaschi si trovavano completamente al sicuro.

— Consumano la polvere — disse Nikola, il quale conservava sempre il suo magnifico sangue freddo.

— Che non tentino uno sbarco? — chiese Mico.

— È probabile, ma non prima dell’alba, sicché avremo un paio d’ore di tregua.

— Per fuggire verso la baia di Capso?

— Non aver tanta premura. Qui siamo come dietro i bastioni di Candia.

— Vorrei però vedere presto l’ammiraglio ed il mio padrone.

— Che aspettino un po’ anche loro. Vorresti romperti le gambe fra queste rupi? Aspettiamo che le tenebre si diradino.

Si erano accovacciati dietro ad un lastrone di pietra, che nemmeno le bombarde turche avrebbero potuto demolire.

La feluca, avvicinatasi assai alla spiaggia, continuava a scaraventare mitraglia all’impazzata, poiché nessuno dell’equipaggio aveva potuto vedere dove si erano rifugiati i due naufraghi. Chiodi e pezzi di ferro, ridotti in verghe, continuavano a piovere, con mille sibili, schiacciandosi contro le rocce.

Il greco e Mico si guardavano bene dal rispondere; d’altronde il primo non aveva che un archibugio, mentre il secondo non possedeva che i pistoloni del negro, armi buonissime in uno scontro, ma non già per eseguire dei tiri. Il greco lasciò che la feluca si sfogasse per quindici o venti volte, poi disse all’albanese:

— Passami uno dei tuoi pistoloni affinché accenda la miccia dell’archibugio, e poi andiamo. Se ai primi albori ci scorgeranno ancora qui, ci massacreranno. Raccomandati alle tue gambe e guarda di non cadere.

— Sono un montanaro — rispose Mico. — Passerei sulla cresta di qualunque montagna.

— Aspettiamo un altro colpo, e poi di corsa.

Non si fece attendere. La feluca, quantunque non avesse speranza di stecchire i fuggiaschi, continuava a sparare con un intervallo di qualche minuto, fra un colpo e l’altro. — Su, Mico!... — gridò il greco.

I due fuggiaschi lasciarono il nascondiglio che fino allora li aveva protetti da tutta quella tempesta di chiodi, e quantunque ci vedessero ben poco, e la sponda si alzasse rapidamente, tutta cosparsa di pietre più o meno grosse, si innalzarono per qualche centinaio di metri, lasciandosi subito cadere dietro un masso enorme.

— Non un passo più avanti, Mico, se ti è cara la pelle — disse Nikola. — Vedrai ora che batteranno in alto.

Un colpo rintronò quasi subito, ed una pioggia di mitraglia tempestò le rocce appena venti metri sopra i fuggiaschi.

— Canaglie!... — esclamò l’albanese. — Che fra quei turchi vi sia qualcuno che possegga gli occhi dei gatti? La mitraglia ci segue nella nostra ritirata.

— Ragione di più per approfittare del ricaricamento del pezzo e guadagnare ancora — rispose il greco. — Non romperti le gambe, ed io rispondo di tutto.

E tornarono ad arrampicarsi affannosamente, sempre colla paura che un colpo li raggiungesse e li crivellasse, e guadagnarono un altro centinaio di metri. La cima non distava più di duecento passi, quindi con un’altra corsa avrebbero potuto raggiungerla.

— Giù, Mico — disse il greco.

Il comando fu seguito dallo sparo della maledetta colubrina, ed un’altra grandine di ferraccio fischiò più in alto.

— Che ci vedano davvero? — chiese l’albanese, un po’ impressionato.

— Bah!... Sparano a casaccio, immaginandosi che noi cercheremo di metterci in salvo sulle alture.

— E tu come fai ad indovinare il colpo? Appena lo avverti il pezzo tuona.

— Sono stato artigliere anch’io, — rispose Nikola — e so quanto tempo richiede una colubrina per essere ricaricata.

— Rimontiamo?

— No, aspettiamo dietro questa roccia che nessuna bordata di mitraglia spezzerà mai, per vedere se i turchi modificano il puntamento del loro pezzo.

— Che ai primi albori sbarchino, e ci diano la caccia per terra?

— È probabile, Mico. Il comandante di quella feluca deve aver ricevuto l’ordine di sorvegliare strettamente il caiccio. Ora farà il possibile per prenderci anche in mezzo alle rocce.

— Quanti uomini hanno quei velieri? — chiese l’albanese.

— Una dozzina, ordinariamente, non richiedendo quelle leste navi troppe braccia.

— A dodici, piazzati dietro la punta d’una roccia, tu coll’archibugio ed io coi pistoloni, spero che potremo tener testa.

La colubrina del piccolo veliero non aveva tirato questa volta a mitraglia, bensì a palla.

Il proiettile, di ghisa, pesante forse tre o quattro libbre al più, andò a frantumarsi contro un’alta roccia, che si trovava a cento passi dai fuggiaschi, senza far male a nessuno.

— Assaggiano — disse il greco. — Su, Mico, un’altra corsa prima che ricarichino il pezzo.

Si gettaron dentro un canalone che pareva fosse stato aperto dalle acque, e fecero rapidamente un’altra salita, raggiungendo finalmente la cima della costa, la quale non si elevava a più di trecento metri dal mare.

— Ed ora? — chiese Mico, lasciandosi cadere al suolo, completamente sfinito, da quelle continue corse.

— Aspettiamo l’alba — rispose il greco. — È impossibile dirigerci con questa oscurità. Prima che i turchi salgano fino a noi, avranno molto da fare, non avendo né le gambe dei cretesi, né quelle degli albanesi.

Un’altra palla passò sopra le loro teste, miagolando sinistramente, e, come le altre, s’infranse, senza alcun successo, contro le rocce.

— La vedi tu, la feluca, Mico? — chiese il greco.

— Il suo fanale scorgo, ma non il suo scafo.

— Eppure deve essere ben vicina alla spiaggia.

— Lo credo anch’io.

— Riposiamoci cinque minuti, e poi, palle o mitraglia, andiamocene. Cerchiamo di frapporre fra noi ed i turchi una certa distanza.

— Saprai ritrovare la rada di Capso?

— Basta seguire la costa — rispose il greco. — Da’ fuoco alla miccia del mio moschettone, e poi faremo una passeggiata. Quassù la costa non è coperta di macigni, e potremo filare con discreta velocità.

— Andiamo, Nikola?

Il greco non rispose. Si era spinto innanzi puntando l’archibugio, e pareva che ascoltasse.

— E dunque, Nikola? — chiese l’albanese, impugnando rapidamente i suoi pistoloni.

— Vengono.

— Sono già sbarcati?

— Lo credo.

— Restiamo qui?

— Sì, siamo bene riparati dalle palle d’archibugio ed anche dai colpi di mitraglia. Guarda bene.

L’albanese alzò la testa e la sporse sopra la roccia protettrice, gettando un rapido sguardo lungo la costa. Gli parve di vedere alcune ombre arrampicarsi come i gatti.

— Sì, sono i turchi — disse.

— Li vedi?

— Abbastanza bene.

— Scarica le tue pistolacce. Io tengo in serbo l’archibugio.

— Aspetta un momento che li veda meglio.

— Sono vicini?

— A soli quindici passi, mi pare.

— Da’ dentro, Mico.

L’albanese impugnò, con mani ferme, le due pistole del povero negro e sparò. Si udirono due urla, poi delle imprecazioni, quindi un rotolare di sassi. I turchi scappavano. La colubrina fu pronta a rispondere, a rischio di ammazzare anche gli assalitori, però parti una palla la quale andò molto alta, senza produrre guasti.

— Che pessimi artiglieri! — disse Nikola. — Qui ci voleva la mitraglia. È vero che la colubrina può ammazzare amici e nemici insieme. Ammesso che l’equipaggio si componga di dodici uomini, o tredici col comandante, non ne avremo che dieci alle calcagna.

— Credi, tu, Nikola, che li abbia uccisi? — chiese l’albanese.

— Al lampo sprigionato dalla polvere, io ho veduto due di quei furfanti precipitare attraverso le rocce. Compare, si tira bene in Albania.

— Viviamo sempre colle armi alla mano per paura d’una sorpresa da parte dei turchi, e tutti cercano di diventare ottimi, o per lo meno, discreti tiratori.

— Ora alza i tacchi, e mettiamoci in marcia verso la rada di Capso. Non voglio farmi sorprendere qui ai primi albori.

L’albanese ricaricò le pistole, poi si slanciò dietro al greco, il quale si avanzava rapidamente, seguendo le ultime alture.

— Giungeremo tardi, ma giungeremo — disse Nikola.

— Coi turchi alle spalle?

— Lascia che corrano. Come vedi, siamo uomini da saperci difendere.

La feluca continuava a sparare, ora a mitraglia ed ora a palla, però i due fuggiaschi non se ne inquietavano gran che. Avendo trovato una zona di terreno abbastanza piana, si erano slanciati a gran corsa, quantunque non sapessero dove andassero, poiché mancava ancora qualche ora allo spuntare del sole.

Corsero così per quindici minuti, sempre perseguitati dalle palle della colubrina, poi sostarono per prendere fiato. Si trovavano sempre in mezzo a rocce seminfrante, essendo finita la zona scoperta. Era d’altronde una fortuna, poiché nessun proiettile sparato dalla parte del mare poteva raggiungerli.

— Gambe!... Gambe!... — continuava a dire Nikola, il quale continuava a osservare il cielo, temendo che si illuminasse troppo presto.

E correvano, spronati da quelle detonazioni, che si seguivano con una frequenza inquietante.

Dopo venti minuti fecero una nuova fermata sulla cima d’una cresta. Da una parte il mare rumoreggiava; dall’altra i grilli cantavano allegramente nei campi deserti.

— Che cosa facciamo, ora, Nikola? — chiese l’albanese.

— Si prende un po’ di fiato — rispose il greco.

— E la rada?

— È ancora un po’ lontana.

— Che i turchi ci prendano prima di giungervi?

— Abbiamo anche noi delle gambe.

— Ciò che mi rincresce è di non aver potuto rapire il figlio del Leone di Damasco.

— A quest’ora saresti appiccato, od impalato, o tagliato a pezzi come un salame a gran colpi di scimitarra.

— Ne sono persuaso anch’io, Nikola — rispose l’albanese. — Io vorrei però sapere come finirà quest’avventura.

— Il Bascià non mancherà di recarsi all’appuntamento, e l’ammiraglio veneziano non si lascerà certamente sfuggire l’occasione di impegnare la battaglia. Poi si vedrà.

— Che non andiamo a Hussiff?

— Io credo di sì — rispose il greco. — Abbiamo da salvare il padre del Leone di Damasco.

— Conosci il castello?

— Sì, ci sono stato già.

— Molta guarnigione?

— Più donne e negri che altro, gente che scapperà alle prime cannonate.

— Niente di meglio? Peccato che non vi sia lassù Haradja.

— Eh!... Chi lo sa?... — rispose il greco. — Vorrei sorprenderla nel suo nido d’avvoltoio.

— Vedremo, compare Nikola. Quello che manca, pel momento, è la colazione. Tu non ti ricordi più a che ora abbiamo cenato ieri sera?

— Ti lamenti a torto — rispose Nikola. — Guarda laggiù quel bel vigneto che si curva sotto il peso dei suoi grappoli. Un po’ di biscotti passeggiano ancora in fondo alle mie tasche, ed i contadini cretesi non domandano di più per la loro colazione. E, come vedi, sono sani e robusti e per niente affamati. Vieni con me.

— Devo spegnere le micce delle pistole?

— Sarebbe un’imprudenza — rispose il greco. — Quei cani di turchi non si sa da qual parte possano giungere, e si fa presto a cadere in un agguato.

Lasciarono la cresta e si spinsero verso la campagna, la quale si stendeva, a perdita di vista, dietro le rocce marine, più o meno guastata. Avanzandosi con precauzione, i due fuggiaschi ben presto raggiunsero il vigneto, già scoperto dal greco, e vi si cacciarono sotto.

L’ombra proiettata dalle foglie e dai pampini era tale, che non era possibile distinguere una persona alla distanza di pochi passi. L’albanese ed il greco si gettarono dentro un solco e cominciarono a spogliare le viti, cariche di splendide uve, così mature, che ormai cadevano al suolo.

— Vedi nulla, tu? — chiese il greco a Mico.

— Sì, un magnifico grappolo che mi tocca la punta del naso.

— Allora addenta senza paura, e mangia il biscotto che ti ho dato.

— E, se i turchi giungessero a guastarci la colazione ed anche la pelle?

— Ebbene, noi li cacceremo dalla nostra proprietà a colpi d’archibugio e di pistola. Il padrone di questo vigneto sarà stato assassinato come tanti altri campagnoli candioti quindi noi possiamo prenderne possesso finché non si presentano gli eredi.

— Saranno stati massacrati anche quelli — disse Mico.

— È probabile — rispose il greco.

Fecero una scorpacciata d’uva stritolando alcuni biscotti, poi non vedendo comparire nessuno, né udendo più la colubrina del piccolo veliero turco tuonare, si misero in marcia, tenendosi sempre fra le viti, le quali, colle loro ombre, li proteggevano. Il silenzio del pezzo non persuadeva, o meglio, non tranquillizzava il greco.

— Che siano sbarcati tutti, e che ci diano una caccia disperata? — si chiedeva.

— Amerei meglio udire la mitraglia fischiare ancora sopra la mia testa.

Sempre dentro i solchi e fra le viti che si stendevano infinitamente, i due fuggiaschi percorsero di gran lena un buon miglio, poi si ritrovarono improvvisamente fra le rocce.

— Anche queste serviranno come barricate se i turchi verranno a contatto con noi — disse Nikola all’albanese.

— Cammineremo male, però.

— Forse che sulle montagne dell’Albania si marcia sui tappeti persiani?

— Ah, no, camerata!...

— Allora non lagnarti e cammina.

In quel momento udirono la colubrina della feluca turca tuonare verso il mare, ed a brevissima distanza.

— Per la morte di Maometto!... — esclamò Mico. — Ci hanno seguiti?

— Così pare — rispose semplicemente il greco.

— Che sappiano che noi dobbiamo recarci alla rada di Capso?

— Ne sono più che convinto.

— Che non possiamo sbarazzarci da quelle mignatte?

— Si vedrà più tardi. Intanto cacciati dietro quella roccia e riposati. Lasciamo che la feluca vada avanti.

— E poi tornerà per massacrarci più facilmente. Non vedi che le stelle cominciano ad impallidire? Quando il sole sarà sorto, spareranno più esattamente.

— Contro chi? Contro le rocce? — chiese il greco. — Tempo perduto.

— Che una parte dell’equipaggio c’insegua?

— È questo che vorrei sapere. Aspettiamo qui finché le tenebre si dileguino.

Albeggiava rapidamente. Tutto l’orizzonte rosseggiava, anche verso ponente, percosso ormai dai primi raggi del sole. Nikola si era alzato vivamente per vedere dove si trovavano e subito una imprecazione gli sfuggì.

— Non mi aspettavo questa sorpresa — disse.

I vigneti, come abbiamo detto, erano terminati, ed al loro posto si trovavano degli orribili burroni, assolutamente impraticabili. Verso il mare la costa rocciosa continuava altissima, interrotta qua e là da larghe spaccature, attraverso le quali potevano passare le palle della colubrina del piccolo veliero turco.

— Che cosa dici, Nikola? — chiese l’albanese.

— Che avremo da fare per giungere alla rada di Capso attraverso a questi terreni. Saliamo verso la costa.

— E la colubrina?

— Quando sparerà abbasseremo la testa. Non perdiamo tempo; sono sicuro che una parte dell’equipaggio si è rimesso in caccia.

— Ne sono convinto anch’io — rispose l’albanese.

— Ed allora, gambe.

Cambiarono le micce alle loro armi, le riaccesero, e ripartirono a passo di corsa scalando la costa. Giunti lassù, scorsero subito, a meno di cento passi dalla spiaggia, il veliero turco.

— Ci ha seguiti — disse Mico. — Hanno gli occhi dei gatti quelle canaglie per vederci anche di notte, o posseggono il fiuto dei cani?

Una nuvoletta si alzò sulla prora della feluca, ed uno sparo la seguì. Mico ed il greco, che si trovavano attraverso una spaccatura della roccia, si erano lasciati cadere prontamente a terra. La palla andò a perdersi nei burroni, sollevando un gran polverio.

— Via!... Via!... — gridò il greco.

— Ma che via!... — rispose l’albanese. — Non vedi che abbiamo quattro uomini alle spalle.

— Turchi?

— Come Maometto, se non di più.

— Ed allora diamo battaglia — rispose risolutamente il greco.

Si appiattarono dietro ad una roccia, che formava come una barricata, e che li metteva completamente al coperto dai tiri della feluca, ed attesero. Quattro uomini, armati d’archibugi fumanti, si avanzavano, con precauzione, attraverso quel terreno accidentato, facendo delle frequenti soste, dietro i massi rotolati giù dalla scogliera. Non era possibile ingannarsi sul loro vero essere, ora che la luce scendeva sulla costa.

— Dammi l’archibugio — disse il greco a Mico. — Tiro bene anch’io.

— Sparerai dopo.

Imbracciò la pesante arma da fuoco, e mentre la feluca scagliava un’altra palla, urlò a gran voce:

— Chi va là? Turchi o cristiani?

Uno scroscio di risa fu la risposta, poi uno dei quattro ottomani disse ai compagni:

— Che qualcuno ci abbia stampata sul petto quella maledetta Croce? No, canaglie, abbiamo la Mezzaluna, e vi faremo vedere come il Profeta ci proteggerà.

Chissà quanto avrebbe continuata quella chiacchierata, se non fosse stata interrotta, improvvisamente, da un colpo d’archibugio. Il turco, mirato attentamente dal greco, fece un salto indietro, alzò le braccia, gettò via rabbiosamente l’archibugio, che non aveva avuto il tempo di scaricare, poi si abbatté come un albero sradicato dal vento, e non si mosse più. I suoi compagni, forse spaventati dall’esattezza di quel tiro, invece di slanciarsi avanti, si rannicchiarono dietro una roccia urlando:

— Cani di cristiani!... Avremo la vostra pelle!...

Due altri colpi rintronarono ancora e due turchi stramazzarono dentro la loro buca.

— Bravo, Mico!... — gridò il greco, il quale s’avanzava coll’archibugio già carico. Non ebbe bisogno di adoperarlo. Non vi erano dinanzi a lui più nemici, poiché l’ultimo turco, sfuggito alla morte, era scappato come una lepre, gettandosi dentro i burroni.

— Lascialo andare e risparmia la carica — disse Mico, vedendo che il greco puntava già l’archibugio.

— Hai ragione, amico — rispose Nikola. — Lasciamo che si sperda nell’interno dell’isola. Qualche candiota, se lo incontrerà, presto o tardi gli farà la pelle.

Un altro colpo di colubrina rimbombò in quel momento. La palla, come prima, passò attraverso una spaccatura delle rupi e si perdette lontana con un lungo sibilo.

— Approfittiamo finché ricaricano — disse il greco, slanciandosi sulla cresta della costa — Gli archibugi non avranno nessun successo contro di noi.

La feluca si era accostata ancora più alla spiaggia, malgrado la risacca fosse violentissima e vi fossero numerosi scoglietti, e si era messa a bordeggiare. L’equipaggio, vedendo i due fuggiaschi balzare sulle creste delle rupi coll’agilità di camosci, si era messo a urlare ferocemente, intimando loro d’arrestarsi, poi aveva fatto parlare gli archibugi, non essendo la colubrina ancora pronta. Come il greco aveva previsto, fu una scarica inutile, poiché i proiettili caddero tutti a mezza costa, non avendo quelle armi, come abbiamo detto, lunga portata.

Lesti lesti i due attraversarono tre o quattro spaccature, attraverso le quali poteva ancora giungere qualche palla della colubrina, poi attesero.

— Lasciamo che ci cerchino e che mirino — disse Nikola. — Ormai non ci prendono più.

— Se non ci accoppano con qualche tempesta di mitraglia — rispose Mico.

— La mitraglia non può giungere quassù, e le palle difficilmente colpiscono il bersaglio, se sparate da bocche da fuoco grosse. Ah!... Cantano, quelle canaglie!...

La colubrina aveva fatto udire nuovamente la sua voce, ed il proiettile aveva smussata una punta rocciosa che si alzava solamente a pochi passi dai fuggiaschi.

— Corpo d’un tuono!... — esclamò l’albanese. — Che puntatore!... Si direbbe che ci scorga anche dietro le rupi.

— Polvere e palle sprecate — rispose il greco. — Su, un’altra corsa, prima che ricarichino.

Si erano slanciati sulla cresta della costa, la quale offriva migliori passaggi, e si erano messi a correre senza occuparsi delle intimazioni dei turchi. Già avevano rinnovata quattro o cinque volte quell’ardita manovra, sfuggendo sempre alle palle della colubrina, quando d’improvviso giunsero ai loro orecchi una serie di fortissime detonazioni.

— Il fuoco di bordata!... — gridò il greco. — Che cosa succede ora? Arriva il Bascià?

— È il Leone di San Marco che giunse in nostro aiuto — disse Mico. — Guarda!... Guarda!...

Una grossa galera, ancora tutta fumante pei colpi sparati, girava in quel momento la punta d’un promontorio, correndo velocissima incontro alla feluca, la quale ormai non poteva più sfuggire all’abbordaggio.

— Viva Venezia!... — urlò Mico, agitando il suo berretto.

Dalla galera, che si avanzava a gran colpi di remo, partì una seconda bordata. La povera feluca, crivellata alla linea di galleggiamento, ondeggiò un momento, come se un gran colpo di vento l’avesse investita, poi si rovesciò immergendo il suo albero in acqua, e di lì a poco scomparve nei flutti.

— Buon riposo!... — urlò Mico, avanzandosi sulle rocce che la colubrina del piccolo veliero turco ormai non poteva più spazzare. — Salutate anche da parte mia il Profeta e tutte le uri del paradiso mussulmano. Intanto riposate dieci metri sott’acqua e difendetevi dai granchi marini.

La galera veneziana si era intanto avvicinata lentamente alla feluca, la quale mostrava la sua chiglia in aria. Mise in mare un grosso canotto e lo mandò verso la costa. Mico ed il greco discendevano verso la spiaggia, sicuri dell’impunità, gridando, di quando in quando, con quanta voce avevano in corpo.

— Cristiani!... Cristiani!...

I veneziani si guardavano bene dal tirare, quantunque avessero a bordo tante colubrine da spazzare via con una sola bordata il minuscolo gruppo dei fuggiaschi. Aiutandosi l’un l’altro, il greco e Mico poterono finalmente raggiungere la spiaggia.

La grossa scialuppa della galera aveva gettato già i suoi ancorotti, onde resistere alla risacca che la investiva.

— Chi siete? — chiese il comandante, mentre a prora, sull’alto castello, si armava una grossa colubrina.

— Cristiani che tornano da Candia con preziose notizie per Sebastiano Veniero!... — gridò il greco. — Io sono Nikola, il rinnegato.

— Ti conosciamo — rispose il comandante della galera. — Ti ho veduto l’altra sera a bordo della capitana.

— Allora accostate.

I marinai alzarono, a forza di braccia, gli ancorotti, poi con pochi colpi di remo spinsero la scialuppa in mezzo a due scoglietti che la risacca non batteva.

— Imbarcate!... — gridò il comandante della galera. Mico e Nikola non si fecero ripetere l’ordine, e saltarono nell’imbarcazione salutati da entusiastici evviva.