Il Leone di Damasco/VIII. Un'altra sfida

VIII. Un'altra sfida

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VIII.

Un’altra sfida


Il turco si era messo a soffiare sulla miccia che era quasi spenta, illuminando a poco a poco il suo crudele viso di giannizzero. Muley-el-Kadel, dopo essersi ben persuaso che non aveva altri compagni nella guardia, sussurrò all’albanese una parola.

Il montanaro, lesto come i lupi delle sue montagne, era subito piombato sul turco, e lo aveva stretto al collo strozzandogli di colpo la voce. Avrebbe potuto accopparlo con un buon colpo di spada, invece aveva preferito lasciar cadere l’arma, quasi avesse indovinato i pensieri del suo padrone. Il forte giannizzero tentò di resistere, ma dovette ben presto cedere sotto la gran forza muscolare del montanaro.

— Devo finirlo, padrone? — chiese Mico, quando lo ebbe disarmato ed atterrato.

— No, portalo nel fossato tenendolo sempre stretto — rispose il Leone di Damasco. — Un grido e noi saremmo perduti.

— Ho lasciato la spada sulla rampa, signore, ma ho ancora il mio yatagan e glielo punterò alla gola.

Lo afferrò, lo sollevò come se fosse un fanciullo, e discese la scarpata, non senza aver prima spenta la miccia dell’archibugio. Il giannizzero, mezzo strangolato dalla formidabile stretta, non aveva opposta nessuna resistenza, né aveva mandato alcun grido.

Il Leone di Damasco, d’altronde, era pronto a finirlo con una stoccata diritta al cuore prima che avesse dato l’allarme. Nessun altro turco era comparso sull’alto del semisfondato bastione, sicché Muley-el-Kadel e l’albanese poterono scendere indisturbati nel fossato, e gettare il prigioniero sul cadavere del cavallo di Haradja.

Dall’accampamento turco si sparava sempre furiosamente, ma le palle oltrepassavano tutto il ridotto, spaccandosi contro il bastione di Malamocco, o mozzando i merli delle numerose torri. Da parte dei veneziani invece nessuna cannonata. Si sarebbe detto che avevano abbandonata la città. Il conte Morosini aveva mantenuta scrupolosamente la parola.

— Signore — disse l’albanese, vedendo che il giannizzero cominciava a muoversi. — Che cosa vuoi farne di quest’uomo?

— Appoggiagli la punta del tuo yatagan alla gola.

— È fatto, padrone.

— Ora lascia che prenda una buona boccata d’aria. Tu stringi troppo, Mico.

— Non è colpa mia se i figli della montagna sono più robusti di quelli della pianura.

Il giannizzero, sentendosi pungere la gola, dopo quella famosa stretta, aveva mandato un lieve grido, che l’albanese aveva subito soffocato, mettendogli una delle sue larghe mani sulla bocca.

— Ascoltami bene — gli disse il Leone di Damasco in buon turco, curvandosi sul prigioniero, sempre sdraiato sul cavallo della nipote del Bascià. — Se mandi un grido per attirare l’attenzione dei tuoi compagni, tu non uscirai più vivo da questo fossato.

— Tu non sei un mussulmano, dunque? — chiese il giannizzero, con voce strozzata.

— Ciò non ti deve riguardare — rispose il Leone di Damasco. — Rispondi invece alle mie domande. È morta la nipote del Bascià?

— No, però la sua ferita sembra ben grave. Quella cagna di cristiana è dunque invincibile? Vorrei provarla io.

— Ti passerebbe da parte a parte anche se hai l’armatura. Dove si trova?

— In una casamatta.

— È Metiub che la cura?

— Sì, il capitano d’armi.

— Dove ha presa la stoccata?

— Sotto l’ascella destra. Se la lama fosse passata a sinistra, io credo che della nipote del Bascià non se ne parlerebbe più.

— In quanti siete nel ridotto?

— In venticinque, oltre il capitano e la castellana d’Hussiff. Ora che ho parlato, che cosa vuoi fare di me?

— Lasciati imbavagliare e legare senza protestare — rispose il Leone di Damasco. — Mico, sbrigati!...

L’albanese saltò addosso al prigioniero, gli chiuse la bocca con un fazzoletto di seta nera, poi con delle sottili corde, delle quali si era prima provvisto da uomo previdente, gli legò strettamente i polsi dietro al dorso e alle gambe.

— Non cercare di fuggire — disse il Leone di Damasco al prigioniero, che era rotolato in fondo al fosso. — Abbiamo altri venti compagni dispersi per la pianura, e non potresti andare molto lontano.

Ciò detto risalì la scarpata insieme all’albanese, il quale si era impadronito dell’archibugio del prigioniero. Riattraversata la stecconata, presso la quale si trovava una colubrina veneziana smontata, sostarono guardandosi ben intorno, temendo, e con ragione, che vi fossero altre sentinelle.

— Nulla Mico? — chiese il Leone, sottovoce.

— Nulla padrone.

— Dove si troverà il ridotto che serve da rifugio ad Haradja? Non vedo brillare nessun lume.

Stava per avanzarsi, quando l’albanese lo trattenne violentemente.

— Signore, — disse — il fuoco dei turchi è cessato. Che tenti, Ali, di lanciare qualche colonna all’assalto del ridotto?

— Sarebbe la fine della nostra impresa, poiché i veneziani sarebbero costretti a riprendere il loro, e le palle non hanno occhi per distinguere gli amici dai nemici.

— Affrettiamoci, padrone.

Attraversarono una seconda stecconata, anche quella tutta sfondata, coi gabbioni sventrati, e scesero una gradinata la quale doveva certamente condurre alle casematte. Già erano giunti felicemente in fondo, quando un colpo di cannone rimbombò sul bastione di Malamocco. Era il segnale della ritirata. Qualche cosa di grave doveva in quel momento accadere, per indurre il conte a far fuoco.

— Partita perduta — disse il Leone di Damasco, con collera. — Se non fuggiamo saremo presi fra due fuochi, e non so chi di noi giungerà vivo a Candia.

— Aspetta, padrone — disse l’albanese. — Che le palle ci ammazzino, siano veneziane o turche?

— Alla notte anche i proiettili diventano ciechi. Vi è qui una casamatta che è stata un po’ sfondata dalle colubrine, ma che pure ci servirà, tanto più che non vi è nessuno dentro.

— Ne sei persuaso?

— C’è la miccia dell’archibugio che brucia, e qualche cosa si può sempre vedere.

Le cannonate ormai si succedevano furiose. Mentre i veneziani facevano dei tiri diretti, i turchi sparavano colle bombarde, onde evitare di colpire il ridotto. Muley-el-Kadel e l’albanese dopo d’aver discesa un’altra scarpata, si trovarono dinanzi ad un piccolo antro, costruito in mattoni. Mico soffiò sulla miccia, si accertò che non vi fosse nessuno ed entrò risolutamente, ben deciso a fucilare il primo turco che gli si fosse parato dinanzi.

— Solo paglia — disse. — Potremo attendere che il duello d’artiglieria cessi, senza correre troppi pericoli. Cristiani e mussulmani si stancheranno di sprecare polvere, e chissà che allora non si presenti una buona occasione per compiere il nostro progetto.

— Entra — disse Muley.

L’albanese soffiò nuovamente sulla miccia e mostrò al padrone la casamatta ingombra solamente di paglia e di pezzi di palizzata.

— Nessuno — disse l’albanese.

— Si ode però parlare.

— Sono i turchi che occupano le casematte vicine.

— Non poter approntare una mina e farli saltare tutti...

— Non abbiamo polvere, signore.

— Lo so: ascoltiamo.

I turchi parlottavano fra loro a voce abbastanza alta per poterli udire attraverso la parete della casamatta.

— Etiub, — diceva uno — dovevamo scappare, malgrado le cannonate.

— Stupido — rispose un altro. — Quanti di noi saremmo giunti al nostro campo? I veneziani hanno delle colubrine che valgono meglio delle nostre.

— Ed anche le spade.

— Perché dici questo, Jussif?

— Non hai veduto come la cristiana ha disarcionato la nipote del Bascià.

— È proprio terribile quella donna?

— Puoi dire che è invincibile. A Famagosta l’ho veduta io ferire il Leone di Damasco, che rappresentava la più famosa scimitarra dell’impero.

— Il figlio del Pascià che poi è diventato suo sposo?

— Proprio quello.

— Che non si possa ucciderla?

— Provati tu.

— Non mi sento in grado.

In quel momento una palla di colubrina, sparata dai veneziani, prese di traverso il muro che divideva le due casematte, ed i due turchi, che bruciavano un pezzo di candela, ed il Leone di Damasco e l’albanese si trovarono di fronte.

La muraglia era caduta con gran fragore senza però causare danni alle quattro persone, poiché le volte avevano resistito. I due turchi vedendo quei due guerrieri che indossavano corazze ben diverse da quelle usate dai soldati del Sultano, non avevano indugiato ad estrarre le scimitarre ed a slanciarsi attraverso l’apertura.

— Chi siete? — avevano chiesto, con voce minacciosa.

Mico aveva puntato risolutamente l’archibugio contro di loro, non essendo la miccia ancora consumata, dicendo:

— Arrendetevi o siete morti!...

Il Leone di Damasco aveva già la spada in mano e si teneva pronto ad aiutare il fido albanese. I due mussulmani si guardarono un momento, poi lesti come scoiattoli, si precipitarono fuori dalla casamatta, urlando:

— All’armi!... I veneziani...

— Gambe, Mico — disse Muley-el-Kadel. — Ormai siamo scoperti, e se ci piombano addosso gli altri ci uccideranno, poiché devono essere almeno trenta.

Non meno lesti dei due mussulmani, si erano pure slanciati fuori della loro casamatta, dandosi ad una fuga precipitosa.

I turchi delle altre casematte, con Metiub alla testa, cominciavano ad accorrere, chiedendo:

— Dove sono? Dove sono?

Muley-el-Kadel e l’albanese salirono di corsa la scarpata e andarono ad urtare contro un cavallo che era legato ad un palo, e che udendo le cannonate, faceva sforzi disperati per fuggire. Era quello di Metiub? Era probabile.

I due cristiani, vedendolo ancora sellato, non ebbero che un pensiero solo.

— Sali dietro di me, Mico!... — gridò il Leone di Damasco, mentre una palla, o d’archibugio o di pistola gli fischiava agli orecchi.

— Si, padrone, — rispose l’albanese — ma lascia prima che scarichi questa bocca da fuoco finché vi è ancora della miccia.

— Sbrigati!...

I turchi erano usciti dalle casematte, e si preparavano a dare la caccia ai fuggiaschi.

Mico sparò il suo colpo, il solo, poiché non aveva munizioni, e fu seguito da un grido. Qualcuno era caduto. Il Leone di Damasco, tagliata la corda, era balzato in sella al destriero, stringendolo fortemente colle ginocchia. Mico, con un gran salto, salì dietro di lui, dicendo:

— Via, padrone!...

I turchi non usano speroni servendosi di staffe larghe, di forma quasi quadrata, che hanno un angolo assai tagliente.

Bastò che Muley-el-Kadel premesse, perché il cavallo spiccasse un gran salto, sfondando d’un colpo la vecchia palizzata. Degli uomini, saliti sul ridotto da qualche altra via, si erano gettati dinanzi ai fuggiaschi, agitando le scimitarre ed urlando ferocemente:

— A terra i cristiani!...

Erano cinque o sei non armati, fortunatamente, d’archibugi. Il Leone di Damasco e l’albanese fecero cadere sui loro elmetti in pochi istanti, una tale gragnola di colpi, da gettarne subito a terra tre o quattro. Gli altri, spaventati, si erano dati alla fuga urlando: — I cristiani fuggono! ...

I guerrieri di Metiub accorrevano, ma ormai il cavallo, non trovando più ostacoli dinanzi a sé, si era slanciato giù dalla scarpata, niente spaventato, in apparenza, dalle palle che i veneziani continuavano a lanciare dal bastione di Malamocco.

— Padrone!... — gridò l’albanese. — Noi andiamo incontro alla morte.

— Aggrappati ben saldo a me e non aver paura. Non abbiamo da percorrere che cinquecento passi... Ah!...

Su tutte le torri settentrionali di Candia si erano improvvisamente accesi dei grandi falò, i quali proiettavano una luce abbastanza viva sulla pianura, per distinguere un cavaliere. Il conte Morosini aveva mantenuta la parola.

— Mico!... — disse Muley-el-Kadel, lanciando il cavallo a corsa furiosa. — Urla forte: «Noi siamo cristiani».

I veneziani, come se avessero scoperto qualche grave pericolo, continuavano a sparare, ed i turchi facevano altrettanto, con le loro maledette bombarde. Le palle di pietra mussulmane cadevano in gran numero sulla pianura che si stendeva dietro al ridotto, e dopo d’aver tracciato, nell’aria oscura, una scia di fuoco, scoppiavano come bombe appena sentita l’umidità della terra.

Il maggior pericolo era da quella parte, tuttavia i veneziani, vedendo quel cavallo avanzarsi potevano far tuonare gli archibugi degli schiavoni che stavano a guardia del ponte levatoio.

— Urla, Mico!... — disse il Leone di Damasco, raccogliendo le briglie e pungendo ferocemente il povero animale.

Due grida si alzarono potenti, dominando, per un istante, il fragore delle colubrine e delle bombarde:

— Siamo cristiani!...

Un istante dopo il fuoco da parte dei veneziani cessava, mentre sulle terrazze delle torri venivano gettate nuove travi per alimentare i falò. Il cavallo, guidato da uno dei più famosi cavalieri dell’Asia Minore, galoppava fra le palle di pietra scoppiami, evitando la morte per un puro miracolo.

I proiettili cadevano a dozzine, con un ronfo pauroso, toccavano la terra, correvano per qualche centinaio di metri, poi saltavano, mandando schegge in tutte le direzioni. Erano schegge infuocate che mostravano ancora bagliori sinistri, come se fossero state lanciate da un vulcano anziché da un pezzo d’artiglieria.

— Via!... Via!... — gridava Muley-el-Kadel, facendo uso, e molto barbaramente, delle staffe taglienti.

— Cristiani!... Cristiani!... — continuava intanto a urlare l’albanese, che aveva una voce fortissima.

Il cavallo, guidato da mani sicure, attraversò la zona pericolosa colla velocità d’un proiettile, e salvo, miracolosamente coi due uomini che portava in sella, si precipitò finalmente sul ponte levatoio del bastione di Malamocco, dove fu subito fermato dagli schiavoni.

Un momento dopo le colubrine riprendevano il loro fuoco, battendo la pianura che si stendeva al di là del ridotto, gagliardamente. Il capitano generale che sorvegliava i suoi artiglieri, era subito accorso insieme alla duchessa la quale aveva già da tempo lasciata la sicura torre, in preda a profonde angosce.

— Vivo!... — esclamò il conte. — Bisogna dir che la Croce vi ha protetto.

Muley-el-Kadel era balzato a terra e si era avvicinato a sua moglie, stringendosela al petto.

— Come vedi, — disse il forte guerriero — noi siamo ritornati. Sono i mussulmani che muoiono più facilmente che i cristiani.

— Sei passato fra una pioggia di fuoco, Muley — rispose la duchessa, con voce un po’ tremante. — Se qualche palla ti avesse colpito?

— Ma, come vedi, sono tornato ancora vivo per dirti che Haradja, a quanto ho potuto capire, è stata toccata da te gravemente.

— Non è morta, però — disse il conte.

— Quella vipera ha vita troppo dura, capitano — rispose il Leone di Damasco. — Bisogna inchiodarla contro una parete con un gran colpo di spada e lasciarvela finché abbia esalato l’ultimo respiro.

— E quanti sono nel ridotto?

— Non più d’una trentina.

— Non oso lanciare i miei uomini all’assalto con questa pioggia di palle. Siamo troppo pochi e nessuno sostituisce i morti, mentre i turchi possono sempre riceverne da Costantinopoli. Guardate come sprecano i loro uomini. Tentano di mandare due o tre migliaia di uomini alla conquista del ridotto.

— E li lascerete giungere? — chiese, con ansietà, Muley-el-Kadel.

— Non udite come tuonano le nostre colubrine? Sono trenta ore che gettano la morte contro quei cani d’infedeli. No, nessuno di quegli uomini, per quanto si sappia che sono coraggiosi, passerà attraverso la nostra pioggia di fuoco. Venite sul bastione. Non vi è pericolo, poiché le palle dei turchi non giungono che di rado fino alle batterie.

Dopo d’aver attraversata una enorme nuvola di fumo, che la mancanza quasi assoluta di brezza notturna manteneva quasi immobile, il capitano generale, la duchessa ed il Leone di Damasco, giacché l’albanese si era allontanato per ricoverare il cavallo, si trovarono sullo spiazzo dell’imponente bastione, il quale era considerato, per la sua robustezza e la sua vastità, come la rocca di Candia.

Due compagnie d’artiglieri facevano un fuoco furioso, non lasciando le colubrine inoperose nemmeno un istante. Scaraventavano palle su palle contro una gigantesca massa oscura che si era staccata dalle trincee turche e che si era slanciata a gran corsa attraverso la tenebrosa pianura. Erano certamente dei marinai di Ali Bascià che correvano al salvataggio di Haradja.

Quanti erano? Due o tremila per lo meno, secondo il governatore generale. Disgraziatamente quei coraggiosi, pur sapendo di andare incontro ad una morte quasi sicura, spaventati dalla pioggia di palle che li prendeva di fronte, non facevano grandi progressi. Ad ogni scarica delle colubrine del bastione si vedevano le loro linee aprirsi e non rinchiudersi che dopo molto tempo.

— Che possano giungere? — chiese la duchessa al conte.

— È impossibile, e non ci vuole che un Ali Bascià per spingere tanti uomini contro la distruzione. Le nostre palle cadono fitte, e devono fare orrende stragi fra quei disgraziati.

— Che accorrano in aiuto i giannizzeri del Vizir.

— Il generalissimo è troppo prudente per sacrificare le sue migliori forze al salvataggio d’una trentina d’uomini, si tratti pure di portare via la castellana d’Hussiff — rispose il conte. — Guardate!... I turchi non possono più sostenere il nostro fuoco e scappano. Buone bestie le colubrine per ammazzare la gente!...

Infatti gli ottomani, dopo di aver sopportato per più di un ora quel fuoco infernale che li decimava, spaventati dalle enormi perdite subite, si erano decisi a rinunciare all’impresa.

Il ridotto era ancora troppo lontano per raggiungerlo, e sotto quella terribile pioggia di palle.

— Lo sapevo già prima — disse il capitano generale al Leone di Damasco. — Non si sfida impunemente il fuoco di trenta colubrine, quando queste sono servite dai migliori artiglieri della Serenissima.

— Che non tornino all’assalto?

— Per ora non credo, Muley.

— Che cosa sarà di quei trenta uomini rinchiusi nel ridotto? — chiese la duchessa.

— Io spero che domani saranno ventinove, se sono proprio trenta — disse il Leone di Damasco, con uno scatto improvviso.

— Perché? — chiesero ad una voce il capitano generale e la duchessa.

— Per la morte del Profeta, la sfida non è ancora finita. Metiub deve battersi con me, e se vorrà uscire dal ridotto dovrà ben provare anche la tempra della mia spada, come Haradja ha provato quella di mia moglie.

— Volete battervi con quei traditori? — chiese il conte. — Io non mi fiderei, Muley-el-Kadel.

— Conosco i miei compatrioti, signor conte. In fondo sono tutti un po’ cavallereschi e, sfidati, non si tirano indietro. Spiegate, domani mattina, la bandiera bianca sul bastione per chiedere una tregua, e voi vedrete Metiub uscire dal ridotto. Lo farete?

— Sì, Muley.

— Allora aspettate.

— Che cosa vuoi fare, mio signore? — chiese la duchessa con ansietà.

— Rimettere in libertà il cavallo di Metiub — rispose il damaschino. — L’animale tornerà subito al ridotto, e domani lo rivedrò col capitano d’armi in sella. Questi cavalli della steppa sentono il loro padrone a grandi distanze, e sanno ritrovarlo.

Si lanciò fra la nuvola di fumo e scomparve. I pezzi, quantunque i turchi si fossero ripiegati verso l’accampamento, dopo d’aver lasciato la pianura brulla, bruciata dal sole, continuavano a sparare. Le bombarde invece avevano cessato di fulminare il bastione.

— Che cosa dite, signor conte? — chiese la duchessa, mentre tutta la batteria vomitava fuoco.

— Che io spero di poter far prigioniera la nipote di quel cane di Bascià, od almeno di farvi rendere vostro figlio.

— Il mio Enzo!... Un cambio?

— Sì, duchessa.

— Accetteranno?

— Chi lo sa? Io lo spero. Nessuno andrà a levarli dal ridotto e saranno costretti, presto o tardi, ad arrendersi. Il ridotto non si prende dinanzi alle bocche delle nostre colubrine. Andate pure a riposarvi, miei valorosi amici, che null’altro succederà in questa notte. Domani poi chiederemo anche noi una tregua ai turchi per rimettere in campo la seconda parte della sfida. Badate però, Muley, di venire a battervi di fronte al bastione. Basta tradimenti.

Li accompagnò fino alla base della gradinata, poi tornò fra i suoi artiglieri, essendo sempre stato uno dei migliori puntatori della flotta veneziana. Il fuoco si era molto rallentato. Le colubrine sparavano solo di quando in quando un colpo, per far capire ai mussulmani che vi era ancora polvere in abbondanza in Candia, e che il presidio si trovava pronto a ricevere una seconda volta se avessero ritentato l’attacco del ridotto. All’indomani, allo spuntare del sole, su tutte le più alte torri della città sventolavano delle grandi bandiere bianche, segnale di tregua.

I turchi vedendole, avevano sospeso il fuoco, poi un cavaliere giunse a corsa sfrenata dinanzi al bastione, chiedendo altezzosamente se la città si arrendeva. Muley-el-Kadel, vestito da guerriero, dopo d’aver rassicurata la duchessa, era balzato sul proprio cavallo e gli era mosso incontro tenendo la spada sguainata.

— Chi sei e che vuoi? — chiese il turco.

— Sono il Leone di Damasco.

— Il rinnegato.

— Ciò non ti riguarda.

— E domandi?

— Che i turchi sospendano il fuoco finché la sfida si sia compiuta.

— Non è terminata?

— No, perché solo la donna cristiana si è misurata con Haradja, ed ora tocca a me provare la punta della spada del capitano d’armi del castello d’Hussiff.

— È stata ferita la nipote del Bascià? — chiese il turco.

— Sì, ma è ancora viva. Va’ dal Vizir a dirgli che se non ci concede questa tregua, prima che il sole tramonti non rimarrà pietra su pietra del ridotto, così li uccideremo tutti, anche se sono rifugiati dentro le casematte.

Il volto del turco si era fatto oscuro.

— Uccidere una donna ferita — disse poi.

— Una donna che ci aveva preparato un infame agguato. Non era con una scorta che doveva venire.

— Forse il Leone di Damasco ha ragione — rispose il turco. — Nei duelli ci vuole della lealtà. Orsù, andrò a compiere la mia missione. Fra cinque minuti sarò di ritorno.

— Ti aspetto qui.

Il cavaliere era appena partito, quando il Leone di Damasco vide scendere da una rampa del ridotto il capitano d’armi del castello d’Hussiff, coperto d’acciaio, e colla spada in pugno, una lama diritta e non già una scimitarra.

Montava il suo cavallo messo in libertà alla notte, e tornato fedelmente al suo padrone. Il magnifico stallone, con pochi slanci, giunse dinanzi al Leone di Damasco, arrestandosi quasi di colpo.

— Che cosa vuoi, tu? — chiese Muley-el-Kadel.

— Vendicare la mia padrona — rispose Metiub.

— Ti aspettavo, ma bada che il Vizir non ci ha ancora accordata la tregua.

— Ci batteremo sotto le palle di cannone. Il Leone di Damasco non può temerle.

— Perché dici questo?

— La Croce ormai lo protegge — disse Metiub, con tono ironico.

— E tu hai la protezione del Profeta — rispose Muley-el-Kadel. — Vedremo se sarà più valida la prima o la seconda.

— Speri dunque di uccidermi?

— Sì, con la protezione della Croce.

— Ah!...

— Sei pronto?

Il capitano d’armi si era voltato verso gli accampamenti turchi. Aveva veduto un cavaliere galoppare per la pianura ed avanzarsi verso la città, portando sulla lancia una bandiera bianca.

Non era un cavaliere qualunque, bensì un jut-basci, ossia colonnello.

— Aspettiamo, Leone di Damasco — disse Metiub. — Nell’attesa non perderai nulla, poiché se anche tutte le bocche da fuoco mussulmane e cristiane riprenderanno la loro musica, noi ci batteremo egualmente. Un capitano d’armi non può ritirarsi da una sfida senza essere per sempre disonorato.

— Io ti aspetto — rispose Muley-el-Kadel.

Il colonnello, un bellissimo uomo, che aveva due baffi giganteschi, e che era vestito tutto in seta verde con ricami d’oro vistosi, avvicinò i due cavalieri.

— La tregua è accordata — disse. — Le leggi dell’onore sono sacre anche per noi.

— Coi tradimenti — gridò il Leone di Damasco. — Come si trovavano quei trenta uomini nel ridotto, armati di archibugi? Sapresti tu dirmelo?

— Io no. Sarà stata una cattiva idea del grande ammiraglio per salvare sua nipote. Se è vero, ha fatto male. Volete battervi? Io servirò da testimonio insieme ai veneziani che vi guardano dall’alto del bastione.

Poi aggiunse, con un certo rimpianto: — Turchi contro turchi!... Era scritto.

— Largo!... — gridò il Leone di Damasco.

Il colonnello si trasse in disparte, per non impacciare le mosse dei due cavalieri, poi gridò:

— All’attacco!.. Vedremo se sarà più valida la protezione della Croce o del Profeta!...