Il Leone di Damasco/VII. Il tradimento

VII. Il tradimento

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VI. La sfida VIII. Un'altra sfida

VII.

Il tradimento


La duchessa e suo marito, seguiti da migliaia e migliaia di sguardi, poiché anche i turchi, approfittando della tregua erano usciti dalle loro trincee e dalle loro parallele, formando un immenso e pittoresco semicerchio, si erano diretti sollecitamente verso il ridotto dove Haradja ed il suo capitano d’armi li attendevano, immobili sui loro bellissimi cavalli.

Il sole, sorto allora, faceva scintillare vivamente le armature dei duellanti, specialmente quella della nipote del Bascià che era argentata e che aveva per emblema una galera a vele spiegate, incisa sulla corazza a punti d’oro. La duchessa, giunta a dieci metri dalla sua mortale avversaria, frenò il cavallo, ed abbassando la visiera gridò:

— Scopritevi onde io veda se io, donna cristiana, devo veramente misurarmi con una donna turca.

— Ne dubiteresti? — chiese la nipote del Bascià, con ira. — Le mie forme, quantunque chiuse entro l’acciaio, non sono meno snelle, né eleganti delle tue.

— Io voglio sapere, dalla tua bocca, contro chi devo combattere — rispose la duchessa. — Qui, fra poco, vi saranno dei morti, e tutti abbiamo il diritto di guardare bene in viso i nostri avversari.

— Tu, forse, sai già chi sono.

— Come tu sai che sono la donna che a Famagosta chiamavano, per il suo valore, Capitan Tempesta.

La nipote del grande ammiraglio ottomano, dopo aver esitato qualche istante, abbassò la visiera mostrando il suo viso rosso di collera ed i suoi occhi pregni di fiamma.

— La castellana d’Hussiff!... — esclamò la duchessa, con un certo disprezzo. — Che cosa vuole, dopo quattro anni, dal bel capitan che si faceva chiamare, sotto vesti albanesi, Hamid Eleonora?

La nipote del Bascià digrignò i denti come una giovane tigre, poi diventò pallidissima. Non aveva mai potuto perdonarsi di avere, sia pure per pochi giorni, amata una donna credendola in buona fede un prode capitano albanese.

— Che cosa voglio da te, Hamid Eleonora, moglie del Leone di Damasco? — disse, con voce sibilante, Haradja. — Vendicarmi del tuo atroce scherzo.

— Uccidendomi?

— Certo.

— E lo speri?

— Ne sono sicura.

— Tu che fai rubare i bambini? — urlò la duchessa, sguainando la spada. — Che cosa ne hai fatto del mio piccolo Enzo, che io e mio marito avevamo lasciato a Venezia sotto la sorveglianza di servi fedeli?

— Si vede che non erano fedeli quanto tu credevi, cristiana, perché i miei uomini hanno potuto rapirlo nel cuore di Venezia e scendere l’Adriatico indisturbati.

— Che cosa ne hai fatto tu?

— Io!... Finora nulla, ma giacché il Leone di Damasco ha rinnegato la fede dei suoi padri, al suo posto ci metteremo suo figlio.

— Tu vuoi fare del mio Enzo un mussulmano?

— Almeno lo spero.

Il Leone di Damasco aveva mandato un vero ruggito, e dopo aver snudata la spada, si era avanzato di qualche passo verso Haradja, sempre immobile e ben piantata sul suo splendido cavallo.

— Mia moglie ti ucciderà, cagna!... — urlò.

Un sorriso d’incredulità e quasi di scherno contrasse le belle labbra dell’algerina.

— Ah!... — disse poi, levando dal fodero la scimitarra, una vera lama di Damasco, che poteva sopportare dei gran colpi senza spezzarsi. — Lo si vedrà.

— E mi hanno detto, miserabile, che hai fatto prigioniero anche mio padre!...

— Sì, l’ho preso sotto le coste di Cipro, ed ora sta meditando sulle comodità che godeva a Damasco e quelle che non si trovano nel castello d’Hussiff, nelle sale sotterranee.

— Tigre!...

— Mi sono vendicata, ecco tutto — rispose Haradja.

— Ed ora speri di compiere intera la tua infernale vendetta? — chiese la duchessa.

— Sì, lo spero.

— Chi è quel capitano turco che deve misurarsi col Leone di Damasco?

— Un uomo che già tu hai conosciuto: Metiub.

— Il tuo capitano d’armi che io ho toccato dinanzi a te, quando ti aveva preso il capriccio di farmi forse uccidere? Non era dunque morto malgrado il colpo di calcio di fucile che gli aveva fracassato il cranio?

— Non sembra: come vedi, è pronto a uccidere il Leone di Damasco.

— Muley-el-Kadel — disse la duchessa. — Mettiti da parte. Combatteremo due alla volta, per non intralciare i volteggi dei cavalli.

— Era quello che volevo proporti anch’io — disse Haradja. — Se io cadrò, Metiub mi vendicherà.

— Così forte lo credi?

— Sempre.

— A noi due, tigre d’Hussiff.

Muley-el-Kadel si portò di fronte a Metiub, il quale si manteneva sempre immobile e silenzioso, come se fosse assai preoccupato dell’esito di questa sfida, dicendogli:

— Non muoverti finché la turca o la cristiana saranno a terra. Bada che i veneziani sorveglieranno le tue mosse, e che le colubrine sono pronte a mitragliarti.

Il capitano d’armi lasciò cadere le briglie sul collo del cavallo, come per dimostrare che non lo avrebbe lanciato, però, sguainò la sua spada, un’arma che non era affatto turca, poiché rassomigliava a quelle usate dai veneziani, contro le scimitarre, con molto vantaggio.

— Sei pronta? — chiese allora la duchessa, stringendo le ginocchia ai fianchi del cavallo, e raccogliendo colla sinistra le briglie.

— Si, la donna turca è pronta a uccidere la donna cristiana — rispose Haradja. Calarono le visiere ed alzarono le armi. Per alcuni istanti le due donne si guardarono ferocemente attraverso i buchi dell’elmo, poi la nipote del Bascià, più impetuosa, spronò il suo superbo arabo e si slanciò contro la duchessa, la quale l’aspettava freddamente, con una bellissima guardia di prima, assai allungata, per proteggere anche la testa del proprio cavallo. Passò, come un turbine, a pochi passi dalla sua avversaria tentando un gran colpo di scimitarra, prontamente parato, poi, come usavano i cavalieri turchi nelle sfide, con furiose spronate costrinse l’arabo a descrivere dei vertiginosi giri, ed a spiccare dei grandi salti.

La duchessa, non nuova a quei combattimenti, faceva girare il proprio cavallo, per trovarsi sempre di fronte al nemico con la spada tesa, avventando, di quando in quando, qualche colpo di punta, più per preparare la mano alla botta decisiva che coll’intenzione di offendere.

Quel gioco, pericolosissimo per entrambe le donne, durò qualche minuto, poi la duchessa vedendo che Haradja cercava di assalirla sulla sinistra, fece fare al cavallo un gran salto, e le si precipitò addosso gridando:

— Ti arresto!...

I due cavalli si erano urtati così impetuosamente, che per poco non gettarono di sella le padrone, poi fu uno scrosciare d’armi sulle armature. Haradja, più robusta e più focosa della duchessa, avventava terribili colpi di scimitarra, ma senza scuola però, poiché erano tutti diretti contro l’elmetto.

Muley-el-Kadel, quantunque sapesse quanto valeva sua moglie nella scherma, assisteva al duello col cuore sospeso.

— Sotto Eleonora!... — gridava di quando in quando.

Ad un tratto la duchessa interruppe il combattimento e lanciò il cavallo al galoppo, come se cercasse di fuggire. Haradja le si era precipitata dietro, con la scimitarra alzata, gridandole:

— Hai paura, dunque?... Ecco il famoso Capitan Tempesta!...

La corsa della duchessa durò appena mezzo minuto, poi il cavallo si piantò ben fermo sulle zampe, ed attese la carica del suo compagno arabo che si avanzava colla lunga criniera al vento e la lunghissima coda ondeggiante. Haradja, vedendo l’avversaria così ben piantata e temendo troppo quella terribile spada, sempre in linea, che i più furiosi colpi di scimitarra non erano riusciti ad abbassare, fece fare al suo arabo uno scarto, onde sottrarlo, nell’urto, ad una possibile caduta, poi riattaccò, gridando ferocemente:

— A te, mio bel capitano, i colpi della donna turca!... Prendi!... Prendi!... Anche noi sappiamo batterci!...

Le due donne, per la seconda volta, si erano impegnate a fondo. Haradja continuava ad assalire, tentando di far abbassare quella spada che aveva dei lampi di fuoco sotto i raggi già cocenti del sole; la duchessa si limitava a tenersi ben ferma in sella ed a parare quella grandine di colpi di scimitarra che le giungevano da tutte le parti.

— Per la morte di Allah!... — bestemmiò la nipote del Bascià, dopo aver invano cercato di disarcionare l’avversaria con un traversone. — Sei salda come una rocca, tu?... Eppure io ti ucciderò!...

In quel momento stesso Muley-el-Kadel, che seguiva con maggior ansia le diverse fasi del duello, vide Eleonora alzarsi sulle staffe, parare un gran colpo di scimitarra, poi distendersi quasi sul collo del cavallo, stringendo rapidamente la spada.

Si udì un grido, o meglio, un urlo di belva ferita, poi la nipote del grande ammiraglio rovinò al suolo con un gran fragore d’acciaio. La spada dell’invincibile napoletana le era penetrata sotto l’ascella destra, là dove l’armatura si snodava per lasciare libero il movimento delle braccia.

Muley-el-Kadel aveva mandato un gran grido di gioia.

— Finisci la tigre d’Hussiff... — aveva poi tuonato.

La duchessa si preparava a balzare a terra, quando venti o trenta turchi, nascosti fino allora nei fossati del ridotto, comparvero, urlando ferocemente e sparando alcuni colpi d’archibugio.

— Tradimento!... — aveva gridato il Leone di Damasco, accorrendo verso la moglie, onde proteggerla. — Fuggiamo!...

Impegnare una lotta contro quei traditori che avevano delle armi da fuoco, sarebbe stata una follia, sicché il Leone di Damasco e sua moglie, sfuggiti alle prime archibugiate per un vero miracolo, lanciarono i cavalli a corsa sfrenata in direzione del bastione di Malamocco.

— Via!... Via, Eleonora!... — aveva gridato il Leone. — Sparano!...

Metiub aveva approfittato di quell’istante. Balzò da cavallo, raccolse Haradja, che non era ancora rinvenuta, poi udendo una palla di colubrina a ronfare a breve distanza, si precipitò dentro il ridotto, ove si trovavano ancora delle casematte in ottimo stato.

I turchi, che erano balzati fuori dal fossato e che dovevano trovarsi in quel luogo fino dalla notte, l’avevano seguito dopo una seconda cannonata.

La duchessa ed il Leone di Damasco giunsero come due fulmini sul ponte levatoio del bastione e lo attraversarono senza arrestarsi, mentre la compagnia degli schiavoni si precipitava invece fuori, aprendo un fuoco d’inferno contro il ridotto.

Sulle mura, sulle torri, sui bastioni, i veneziani mandavano urla di furore all’indirizzo dei turchi.

— Vili.

— Ecco la vostra cavalleria!...

— Canaglie senza fede né legge!...

— Pagherete questo infame tradimento! ...

Con rapidità fulminea, avevano portate altre dieci colubrine sul bastione di Malamocco, e venti pezzi coprivano di ferro il ridotto e la pianura che gli stava dietro, onde impedire ai traditori di fuggire verso il campo.

Il capitano generale di Candia, livido di collera, si era precipitato verso la duchessa e Muley-el-Kadel, i quali erano saltati a terra dinanzi alla seconda cinta.

— Siete ferita, signora? — aveva domandato premurosamente.

— È la nipote del Bascià che ha presa la stoccata, signor governatore — aveva risposto prontamente la spadaccina.

— L’ho veduta cadere la vostra nemica.

— Ma non ho potuto finirla.

— I vili!... Vi avevano preparato un infame tradimento!... Fidatevi ora dell’ottomano!... Sono però tutti nel ridotto e vedremo come sapranno uscirne. Signora, non faremo economia di polvere.

E non ne facevano davvero gli artiglieri che servivano i venti pezzi. Le cannonate si succedevano alle cannonate, con un frastuono infernale, scaraventando sul ridotto palle e turbini di mitraglia, onde impedire a Metiub di ricondurre al campo Haradja e ai traditori di mettersi in salvo.

Tutti, d’altronde, erano scomparsi, e sulla pianura bruciata dal sole caracollava solamente il superbo arabo della castellana d’Hussiff, come se cercasse la vinta sua signora per invitarla a rimontare in sella. Quello di Metiub invece, con un salto gigantesco, aveva superato una scarpata ed era entrato nel ridotto.

— Dove l’hai colpita? — chiese Muley-el-Kadel, aiutando Eleonora a discendere dal cavallo.

— Sotto l’ascella — rispose la duchessa. — Ho approfittato del momento in cui alzava il braccio per avventarle un colpo di scimitarra. L’aspettavo per giocarla.

— Ferita grave?

— Che cosa posso dirti io, Muley? I cavalli non stavano fermi, però io credo che la tigre d’Hussiff non oserà più sfidare le donne cristiane. Guarda: la punta della mia spada è ancora arrossata di sangue.

— Canaglie!... Sono avvilito di essere nato mussulmano!...

— Ed ora? — chiese Eleonora.

— Non ho potuto misurarmi col capitano d’armi, ma non ci sfuggirà. È là dentro, e se vorrà uscire bisognerà che incontri sui suoi passi la mia spada che, spero, non sarà meno fortunata della tua.

— Oh, non lasceranno il ridotto — disse il capitano generale. — Finché i nostri venti pezzi tuoneranno, non oseranno lasciare il loro rifugio.

— Se tentassimo, signor conte, di farli tutti prigionieri? — chiese Eleonora.

— Con questo fuoco? I turchi proteggono i loro amici da un possibile assalto, duchessa. Udite che concerto!...

Gli assedianti, vista la mala riuscita della sfida, avevano portato un gran numero di bombarde e di colubrine sulla fronte meridionale dell’accampamento, ed avevano cominciato a sparare rabbiosamente, onde impedire ai veneziani di tentare una sortita contro il ridotto. Palle di pietra, palle di ferro e palle di ghisa piovevano fittissime dinanzi al bastione di Malamocco con dei buonissimi e riuscitissimi tiri d’arcata.

— Chi oserebbe sfidare una simile tempesta? — disse il conte Morosini alla duchessa la quale pareva un po’ contrariata. — Se lanciassi due compagnie dei miei più fedeli schiavoni contro il ridotto, non giungerebbero certamente là ancora in buon numero.

— Che non tentino i turchi una così pericolosa impresa? — chiese il Leone di Damasco. — Essi sono sei volte più numerosi di noi e non badano alle perdite.

— Finché le nostre colubrine batteranno la pianura, non oseranno uscire dal loro accampamento, ed il fuoco io lo farò mantenere giorno e notte, soprattutto alla notte, poiché forse i turchi faranno qualche tentativo disperato. Pagheranno cara la loro mossa, se dovessero farla, Muley-el-Kadel, poiché farò ammonticchiare sulle terrazze delle torri legna in quantità per poter, al momento opportuno, illuminare la pianura.

— Che Haradja ed i suoi compagni si risolvano ad arrendersi? — chiese la duchessa.

— Io lo spero, signora, poiché l’assedio potrebbe prolungarsi e non credo che i turchi abbiano portato con sé dei viveri. Il posto diventa pericoloso: ritiratevi nella vostra torre e confidate in me. Finché avremo polveri quei traditori non usciranno dal ridotto.

Tutti cominciavano a sgombrare il bastione sul quale cadevano, a decine alla volta, le palle turche, soprattutto quelle di pietra. Muley-el-Kadel, temendo che qualche frammento toccasse l’amata donna, obbedì al consiglio del conte e, risaliti sui loro cavalli, fecero ritorno al torrione, mentre da tutte le parti si gridava a squarciagola:

— Viva Capitan Tempesta!... Viva l’eroina di Famagosta!

I soldati, entusiasmati, agitavano gli elmi e salutavano colle spade. Intanto il duello d’artiglieria aveva cominciato ad infuriare come mai si era visto prima di allora. I turchi proteggevano il ridotto con una pioggia di proiettili, che cadevano però tutti o dentro la città diroccando, con gran fragore, altre case, o abbattevano i merli del bastione di Malamocco sul quale i veneziani rispondevano vigorosamente, quasi colpo per colpo.

Avendo gli assediati migliori pezzi e migliori puntatori, una uscita dal campo da parte dei mussulmani era, pel momento, assolutamente impossibile, poiché sarebbe finita in una spaventosa strage di carne umana. Forse avrebbero potuto tentarla nella notte.

Nel ridotto, intanto, più nessuno si era fatto vivo. I traditori dovevano essersi rifugiati nelle casematte che le mine avevano qua e là risparmiate, per non cadere mitragliati. Nessuno più aveva fatto il tentativo di scappare verso l’accampamento mussulmano, sapendo bene che non avrebbero potuto correre per molto tempo.

Solamente il cavallo di Haradja era rimasto fuori e, quantunque preso più volte di mira, era sfuggito alle palle delle colubrine. Il povero animale continuava a galoppare dinanzi al ridotto, mandando dei lunghi nitriti, e cercando di trovare un passaggio per raggiungere la sua signora.

Non doveva continuare per molto tempo le sue corse furibonde che gli coprivano il petto di schiuma sanguigna. Mentre passava accanto alla bandiera bianca piantata dall’araldo, e più da nessuno tolta, una palla lo colpì alla testa, portandogli via mezzo muso.

L’arabo rimase come stordito sotto il grave colpo, poi si rizzò sulle zampe posteriori facendo così, tutto diritto, tre o quattro passi. Ad un tratto ricadde, partì a corsa sfrenata perdendo sangue a catinelle dall’orrenda ferita, ed andò a cadere in un fossato del ridotto.

Fu visto, dagli artiglieri veneziani, sparare alcuni calci, poi rovesciarsi su un fianco e quasi subito irrigidirsi. Peccato! Quell’animale, anche in quei tempi, poteva valere una fortuna, e chissà quanto lo aveva pagato il grande ammiraglio per farne un dono alla nipote.

Già il sole stava per tramontare, quando Muley-el-Kadel si presentò al conte Morosini, il cui palazzo non era poi stato troppo danneggiato, accompagnato dal fedele Mico, l’albanese, quasi sempre taciturno, ma sempre lesto di mano come tutti i suoi compatrioti delle montagne circondanti il lago di Scutari.

— Signor capitano — gli disse, mentre una palla di pietra mussulmana faceva rovinare due merli del palazzo del governatore. — Potreste, a notte fitta, sospendere il fuoco per qualche ora?

— Al Leone di Damasco ed alla duchessa d’Eboli, che tanto hanno fatto per la Serenissima, nulla si può rifiutare. Voi sapete che siete gli idoli della guarnigione, troppo scarsa, purtroppo, ma sempre pronta a misurarsi con l’odiato mussulmano.

— Io sono cristiano, — disse il damaschino — e quindi non mi offenderò se insultate i miei ex compatrioti. Ho la Croce sul cuore come l’ha mia moglie.

— Lo so, Muley-el-Kadel — rispose il conte, il quale lo aveva ricevuto nella sala maggiore del palazzo. — Venezia non sarà mai abbastanza grata a voi della vostra defezione. Che cosa volete? Parlate.

— Tentare, questa notte, col mio albanese, di raggiungere il ridotto e di rapire la nipote del grande ammiraglio, se non è morta sotto la stoccata ricevuta da mia moglie.

— Volete commettere una pazzia?

— No, signor conte. Sono deciso, ma per giungere al ridotto sarà necessario che voi sospendiate il fuoco.

Il governatore generale, che da vent’anni combatteva contro i turchi nell’Adriatico prima, nell’Arcipelago dopo, e più tardi sulle isole del sud, aveva guardato il Leone di Damasco con immenso stupore.

— Volete cercare la morte, voi? — chiese.

— Ho due divinità che mi proteggono: l’Allah dei mussulmani, e il Dio dei cristiani.

— Io non oserei.

— Sono il Leone di Damasco — disse Muley-el-Kadel, con un certo orgoglio. — Lasciatemi tentare questa avventura.

— E la duchessa?

— Me ne ha dato il permesso. Noi, pensate, non potremo mai essere tranquilli finché la nipote del Bascià sarà viva. Vedete come si è vendicata, e dopo quattro anni!... Facendo prigioniero mio padre per cacciarlo nei sotterranei del castello d’Hussiff, e facendo rapire, perfino dentro Venezia, mio figlio.

Il conte si lisciò la lunga barba grigiastra, e fissando i suoi occhi neri e penetranti sul Leone di Damasco, disse:

— Volete? Sia pure, quantunque noi abbiamo, con le genti che si trovano dentro il ridotto, buon gioco. Per la Madonna della Salute e per San Marco, dovranno arrendersi. È questione di giorni. Quando avranno mangiato il cavallo del capitano turco che doveva misurarsi contro di voi, la fame verrà, e siccome sono in trenta o suppergiù, se non m’inganno, ed il calore corrompe presto le carni, dovranno arrendersi.

— Lo credete, signor conte?

— Sì, Muley-el-Kadel.

— Voi non conoscete a fondo i turchi. Preferiscono morire sul posto.

— Eppure io ho un’idea.

— Quale, signor conte?

— Di lasciarli tutti liberi, a condizione che Ali Bascià vi restituisca il figlio che Haradja ha fatto rapire a Venezia.

— La nipote del Bascià si lascerà morire entro le casematte del ridotto, se, come vi ho detto, non è già morta. Ma ci tengo ad assicurarmi.

— Volete tentare?

— Si, sono deciso, accompagnato dal mio albanese. Vedrete come giuocheremo quei traditori.

— A che ora la sospensione del fuoco?

— Per le undici. La luna si alza assai tardi questa sera.

— Terrò quattro compagnie di schiavoni sul ponte levatoio, pronti ad aiutarvi.

— Non ci sarà bisogno, poiché io e Mico giocheremo d’astuzia.

— Le terrò però sempre pronte, poiché rincrescerebbe troppo ai difensori di Candia che il Leone di Damasco non potesse più servire, colla sua valorosa spada, alla difesa della città. Vi aspetto sul ponte levatoio all’ora che mi avete fissata.

Durante tutta la giornata turchi e veneziani si cannoneggiarono con lena crescente senza ottenere però grandi successi, sia da una parte che dall’altra, essendo gli assedianti ancora troppo lontani. Anche dopo il tramonto del sole il fuoco continuò, anzi raddoppiò d’intensità, essendo entrati in lotta altri pezzi presi dai bastioni e dalle trincee, e fors’anche dalle galere. Le palle cadevano fitte fitte sulla disgraziata città, compiendone la totale distruzione.

Se resistevano le cinte, i bastioni e le torri, le case invece cadevano ogni volta che una palla di pietra mussulmana cadeva sui tetti, massacrando, il più delle volte, gli abitanti o riducendoli in uno stato compassionevole.

Alle undici Muley-el-Kadel, a piedi, ma tutto coperto d’acciaio ed armato di lunghe pistole, seguito da Mico, il fedele albanese, che aveva preso il posto dell’arabo El-Kadur, giungeva sul ponte levatoio del bastione di Malamocco, dove il capitano generale, come aveva promesso, l’aspettava.

— Siete deciso, Muley? — chiese il conte, il quale pareva assai preoccupato.

— Sì, signor capitano — rispose il Leone di Damasco.

— Che importa a voi sapere se la nipote del Bascià è ancora viva o morta?

— E se fosse ancora viva, ed io potessi farla prigioniera? Mio figlio mi verrebbe restituito per scambio.

— Non dico di no, tuttavia l’impresa mi pare eccessivamente pericolosa.

— Siamo coperti dagli elmi e tutti e due parliamo il turco. Ci fingeremo mandati da quella canaglia di Ali.

— Siete ben audace!... È vero che vi hanno chiamato e che vi chiamano ancora il Leone di Damasco.

Gli porse la mano, dicendogli:

— Buona fortuna e contate su di noi. Saremo pronti a proteggere la vostra ritirata.

— Grazie, signor conte: fate cessare il fuoco.

Aveva già quasi varcato il ponte, quando fu raggiunto da un guerriero di forme snelle. Lo riconobbe subito, malgrado l’oscurità.

— Tu, Eleonora!... — esclamò.

— Non commettere follie, Muley — disse la duchessa, con voce commossa. — Lascia che ti accompagni. Tre spade valgono meglio di due, e sei pistole più di quattro.

Il damaschino scosse la testa.

— Se io cadessi nella lotta, chi rimarrebbe a salvare Enzo? Tu: e se cadessimo tutti, di nostro figlio se ne farà un mussulmano. No, Eleonora, serba la tua valorosa spada per migliori occasioni. D’altronde agirò prudentemente, e se riuscirò ad impadronirmi della tigre d’Hussiff, più nulla avremo poi da temere. Va’, mia adorata: non temere, ed aspetta fiduciosa il ritorno mio e di Mico.

Il fuoco era stato in quel momento sospeso da parte dei veneziani.

— È tempo — disse Muley. — Mico, a me!...

Ora che i lampi delle artiglierie non illuminavano più la pianura, i due audaci potevano inoltrarsi inosservati al ridotto. I turchi però avevano continuato il loro fuoco, ma battendo i bastioni e le torri della città, non vi era pericolo alcuno.

Muley-el-Kadel e l’albanese si gettarono in mezzo ad una piantagione di fichi d’India, che si prolungava verso il ridotto, e si misero in marcia rapidamente, tenendosi perfettamente sicuri. Attraversata la piantagione senza alcun allarme, si trovarono improvvisamente dinanzi al fossato entro cui era andato a stramazzare il cavallo d’Haradja. Al di là vi era una scarpata difesa da una trincea sfondata dalle cannonate.

— Fuori la spada — disse Muley a Mico.

Servendosi del cavallo come di ponte attraversarono il fossato, che era piuttosto largo in quel luogo, e si arrampicarono fino alla stecconata. Stavano cercando un passaggio fra tutti quei legnami, quando un’ombra sorse improvvisamente dinanzi a loro chiedendo:

— Turchi o cristiani?

— Inviati di Ali Bascià — rispose prontamente Muley-el-Kadel.

— Avanzatevi, ma prima aspettate che ravvivi la miccia del mio archibugio.