Il Leone di Damasco/IX. Il tradimento turco

IX. Il tradimento turco

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VIII. Un'altra sfida X. Attraverso le rovine di Candia

IX.

Il tradimento turco


Muley-el-Kadel aveva fatto fare al suo cavallo un gran salto, ed aveva preso il largo, mentre invece Metiub era rimasto immobile sul suo destriero, colla spada alzata. Muley fece caracollare il cavallo per qualche minuto, stringendogli i fianchi fortemente, poi si precipitò contro il capitano d’armi.

Il colonnello, fermo a cinquanta passi, assisteva impassibile alla lotta. Sul ridotto nessun uomo era comparso, forse per paura delle colubrine veneziane ben cariche a mitraglia, e che avevano le bocche volte verso quella rovina. Migliaia di assediati invece si erano accumulati sui bastioni, alzando, sulla punta delle loro spade, gli elmetti.

Il Leone di Damasco, sicuro del proprio cavallo, si era scagliato furiosamente contro Metiub, urlando:

— Chiama il tuo Profeta in aiuto, perché ti ucciderò!...

— No, sarò io che ti spaccherò il cuore per vendicare la mia padrona — aveva risposto il capitano d’armi, facendo inalberare il suo stallone.

— Bella padrona!... La chiamano la tigre d’Hussiff.

— Di ciò che dicono sul conto della nipote del Gran Bascià io non mi occupo — rispose Metiub, facendo alcune finte.

Il Leone di Damasco lo lasciò fare, poi lo incalzò furiosamente, e le due spade mandarono le prime scintille. I cavalli, guidati abilmente, ora si slanciavano ed ora retrocedevano, obbedendo più alla pressione delle ginocchia dei cavalieri, che alle briglie. Se non avessero avuto il morso, si sarebbero, probabilmente, attaccati anche loro, appartenendo a razze diverse.

Per qualche minuto il capitano d’armi ed il Leone di Damasco si scambiarono delle stoccate, sempre prontamente parate, e che non avevano forse altro scopo che di far scoprire il giuoco dei combattenti, poi tornarono ad investirsi con rabbia estrema, urlando:

— Para questa!...

— E prendi questa!...

— Ah!... La Croce ti protegge!...

— E tu chiama in tuo aiuto il Profeta.

— Prendi, rinnegato!...

— A te!

Il Leone di Damasco, frettoloso di finirla, aveva attaccato a fondo, ed aveva vibrato una tale stoccata a Metiub, che per poco non lo aveva gettato d’arcione.

— Per la morte della Croce!... — urlò il capitano, rimettendosi però prontamente in guardia. — Chi ti ha insegnato questo colpo meraviglioso?

— La cristiana.

— Sempre Capitan Tempesta!... Che cosa non sa quella donna in fatto di scherma? Se non avessi avuto la corazza mi avresti spaccato il cuore.

— Lo credo — rispose Muley-el-Kadel, continuando a fare delle finte.

— Pagherei cento zecchini per farmelo insegnare.

— Sarà per un’altra volta.

— Ma ora ti farò io il mio gioco.

— Gioco mussulmano!... Non vale contro quello italiano e francese.

— Ah!... La vedremo!...

Aveva fatto retrocedere il cavallo, poi era tornato a slanciarsi tirando stoccate su stoccate. Nemmeno una, con gran stupore del turco, aveva toccato la corazza del Leone.

— Sei invincibile dunque, tu? — urlò. — Eppure ho giurato alla mia padrona di ucciderti, e ti ucciderò, dovessi cadere anch’io morto.

In quel momento, fra i veneziani che si pigiavano sui bastioni, si alzò una voce:

— Muley, ricordati del colpo diritto!...

Quel grido l’aveva mandato la duchessa. Le ultime parole vibravano ancora quando il capitano d’armi si accasciò sul suo cavallo, lasciandosi sfuggire la spada e mandando una imprecazione.

Il Leone di Damasco, con una stoccata diritta, una botta segreta certamente, che non aveva parata, gli aveva spezzata la gorgiera piantandogli la lama nel collo. Un grande urlo si era alzato sui bastioni.

— È vinto!... È vinto!... Viva il Leone di Damasco!...

— Bravo mio signore!... — aveva gridato la duchessa.

Metiub, malgrado la stoccata che poteva averlo colpito mortalmente, si era mantenuto ancora in sella. Il sangue cominciava a sgorgare fra le lamine d’acciaio, macchiando la lucida corazza. Muley-el-Kadel scese di sella e si avvicinò all’avversario, dicendogli:

— Ti arrendi?

La risposta fu data dallo stallone. Sia che avesse compreso che il suo padrone era ferito, o che avesse obbedito alla pressione delle ginocchia del ferito, s’inalberò, girando su se stesso sulle zampe deretane, poi partì a corsa sfrenata verso il campo mussulmano.

Metiub si era aggrappato al robusto collo e resisteva ferocemente alle scosse, pur rantolando per lo spasimo. Il colonnello turco si era avanzato verso il Leone di Damasco, il quale pareva si preparasse ad inseguire il fuggiasco, quantunque non avesse ormai alcuna speranza di raggiungerlo.

— Fa’ grazia a quel vinto — gli disse. — Forse tu l’hai ucciso.

— Ma non si è arreso — rispose Muley-el-Kadel.

— La colpa è del suo cavallo.

— Voi non siete più leali!... Venite a sfidare e poi fuggite od ordite dei tradimenti.

Un cavaliere era intanto uscito dal bastione e si avanzava a gran galoppo, facendo sprizzare lampi abbaglianti dalla sua corazza dorata, e che il sole percuoteva in pieno. Era il conte Morosini.

— Signore — disse, con voce acre, al turco, quando gli fu vicino. — Qui si abusa troppo della nostra bontà. Perché non avete costretto il ferito ad arrendersi?

— È fuggito come un lampo — rispose il colonnello. — Chi avrebbe potuto, d’altronde, fermare quello stallone? Avrebbe rovesciato subito il mio arabo.

— E quegli uomini chi li ha fatti nascondere nel ridotto?

— Forse il Bascià, il quale si diverte ad usare dei dispetti al Vizir per metterlo in mala vista a Costantinopoli.

— V’incarico d’una missione.

— Dite, capitano.

— Andate a dire ad Ali Bascià che se vuol riavere sua nipote, non ha da accettare che una sola condizione. Se rifiuta, udite bene le mie parole, a cannonate od a colpi di mina farò spianare al suolo il ridotto, e massacrerò quanti si trovano nelle casematte.

— Continuate, signore — disse il turco.

— Il Bascià tiene nelle mani il figlio della cristiana che ieri ha atterrata Haradja.

— L’ho udito raccontare.

— Dite al Bascià che se consegnerà nelle mie mani il bambino, sua nipote potrà uscire dal ridotto.

— Viva?

— Viva, poiché si dice che la ferita riportata non sia molto grave.

Il volto del turco si era illuminato.

— Voi mi assicurate che non è ancora morta?

— No — disse Muley-el-Kadel, avvicinandosi. — La scorsa notte era ancora viva, ma nel ridotto non potrà avere le cure necessarie.

— Mi accordate dieci minuti? — chiese il turco.

— Anche venti — rispose il conte. — Se dopo non vi vedrò ricomparire, tutte le colubrine del gran bastione spazzeranno il ridotto, e finché avremo palle e polvere, e ne abbiamo ancora in abbondanza, ringraziando Iddio, lo manterremo.

— Non mi sparerete alle spalle?

— Non siamo mussulmani, noi — disse il conte, con disprezzo. — Siamo uomini di guerra che ci battiamo lealmente. Andate, colonnello.

Il turco, un po’ confuso, piantò le staffe nel ventre del suo arabo, e partì con una furia indiavolata.

— Signor conte — disse Muley-el-Kadel, con una viva apprensione. — Che il Bascià accetti un tale scambio?

— Ne sono sicuro — rispose il capitano generale di Candia. — Ama troppo sua nipote per lasciarla perire sotto i colpi delle nostre colubrine.

— Che non ci preparino, i turchi, qualche altro tradimento?

— Tutti gli artiglieri sono dietro ai pezzi, ed hanno già ricevuto l’ordine di far fuoco senza misericordia. Non oseranno, ve l’assicuro, slanciarsi attraverso la pianura, dove verrebbero schiacciati dalle nostre palle. Sono ancora troppo indietro colle loro opere di assedio, quantunque sia trascorso un anno. Volete avanzare verso il ridotto?

— Purché non ci sparino addosso!...

— Ed allora le trenta colubrine, che ho fatto caricare a mitraglia, ci vendicheranno.

Il valoroso veneziano aveva spronato il cavallo, un po’ magro a dire il vero, poiché il fieno scarseggiava in Candia, e si diresse verso il ridotto sui cui bastioni non si vedeva apparire nessuna persona.

Ne fece il giro senza ricevere alcun colpo d’archibugio, poi tornò, seguito dal Leone di Damasco, verso il bastione di Malamocco. Stava per raggiungerlo, quando un galoppo furioso lo arrestò. Quaranta o cinquanta cavalli, guidati da pochi mussulmani, attraversavano la pianura. Dinanzi vi era il colonnello il quale teneva fra le sue braccia un fanciullo.

— Mio figlio!... — aveva gridato Muley-el-Kadel. — Dopo un anno lo rivedrò, finalmente!...

Il piccino era vestito alla veneziana e non già alla turca, con vesti di seta azzurra e pizzi. I suoi capelli bruni non erano coperti, ed essendo piuttosto lunghi, svolazzavano liberamente.

Il Leone di Damasco ed il conte mossero incontro al colonnello, mentre i trenta cavalli s’arrestavano dalla parte opposta del ridotto.

— A voi, signore — disse il turco, dandogli il fanciullo. — Leone di Damasco, io ho mantenuta la mia promessa. Addio!...

Ciò detto il colonnello ripartì ventre a terra, mentre partivano pure i trenta cavalli montati da altrettanti cavalieri, gli assediati del ridotto. Un uomo reggeva, sulla larga sella ottomana, Haradja.

— Enzo!... — aveva gridato Muley-el-Kadel, fissando il piccino, il quale lo guardava con due occhi che parevano spaventati. — Non conosci più tuo padre?

L’aveva preso fra le braccia e se l’era accostato al viso, tempestandolo di baci. Intanto i turchi si allontanavano a corsa sfrenata, come se avessero paura di qualche tradimento. Quella fuga precipitosa gettò uno strano sospetto nell’animo del conte.

— Muley — disse. — Era molto che non vedevate il piccino?

— Un anno e più, conte.

— È proprio vostro figlio?

— Chi volete che sia?

— Corriamo dalla duchessa, Muley.

Lanciarono i cavalli al galoppo, ed in pochi istanti si trovarono sul ponte levatoio del bastione di Malamocco. La duchessa, seguita da uno stuolo di capitani, si era precipitata incontro ai cavalieri gridando:

— Enzo!... Enzo!... Figlio mio!...

— A te — disse il Leone di Damasco, porgendole il piccino. — Finalmente l’abbiamo avuto.

Eleonora l’aveva preso stringendoselo subito sul seno e gridando:

— Parla Enzo, alla tua mamma. Fammi udire la tua voce. È troppo tempo che non l’odo più!...

Il piccino guardò la donna coi suoi grandi occhi neri, pieni di terrore, come aveva guardato Muley, e rimase muto.

— Non mi comprendi più? — gridò la duchessa. — Quando io ti ho lasciato tu parlavi.

— Signora, — disse il conte Morosini — siete ben certa che sia vostro figlio?

— Dio!... Conte!...

— Guardatelo bene.

— È trascorso un anno.

— Gli occhi, i capelli, guardateli bene, signora.

— Conte!...

Il capitano generale per tutta risposta si tolse dalla cintura il pugnale e lo fece brillare dinanzi agli occhi del piccino, dicendogli in buona lingua turca:

— Parla o ti uccido!...

— Sidi aman — aveva risposto il fanciullo.

Un urlo si era alzato da ogni parte: — È un bambino turco!...

Poi seguirono scoppi d’ira violenta fra i capitani, mentre la duchessa, deposto a terra il meschino, con un gesto d’orrore, rompeva in singhiozzi.

— Ancora una volta ci hanno mistificati quei miserabili!... — gridavano i capitani.

— Appicchiamo questo figlio dell’Islam sulla più alta torre di Candia!...

— È troppo.

— Questa non è guerra!...

Il conte Morosini intanto si era slanciato su per la scala che conduceva alle batterie, ed aveva lanciato un rapido sguardo sulla pianura.

I turchi, che correvano a briglia sciolta, erano ormai lontani più di duemila passi.

— Fuoco su quelle canaglie!... — gridò. — Distruggeteli tutti.

— I pezzi sono tutti carichi a mitraglia, signore — gli fece osservare un mastro puntatore.

— Non importa, fuoco, fuoco!... Le palle le lancerete dopo.

Le trenta colubrine tuonarono con un fragore spaventevole, facendo sussultare l’intero bastione, ma solamente due uomini che si trovavano in coda ai fuggenti, si abbatterono insieme alle loro cavalcature.

Gli altri erano ormai fuori di portata pel tiro di mitraglia, e quando le colubrine cominciarono a sparare a palla, erano giunti presso le palizzate del gigantesco accampamento. Le artiglierie turche, soprattutto le bombarde, si erano affrettate a tuonare, onde sviare l’attenzione dei cannonieri veneti.

— Si direbbe che il Profeta è più forte della Croce — disse il conte Morosini, facendo un gesto di disperazione.

Quando ridiscese dal bastione, Muley-el-Kadel e la duchessa, affranti da quel terribile colpo, non vi erano più. Avevano già fatto ritorno alla loro torre, dopo d’aver strappato a Mico il piccolo mussulmano che stava per passare un terribile quarto d’ora, e d’averlo affidato ad un capitano. Chi lo avrebbe ucciso? Il disgraziato piccino nessuna colpa poteva avere in quell’atroce mistificazione.

Il conte, assai rattristato per quella nuova gherminella giuocatagli da Ali Bascià, dopo aver raccomandato ai suoi ufficiali di mantenere il fuoco delle colubrine, seguì la cinta interna del bastione per cercare di consolare i due disgraziati.

I turchi, lieti ormai della splendida riuscita del loro gioco, sparavano più forte che mai, e le palle cadevano numerose anche dentro la città, completandone la rovina.

— Vili... — mormorò il conte, evitando, con un salto, un frammento di palla di pietra. — Festeggiano la loro vittoria!... E non avere le forze sufficienti per assaltarli e distruggerli, o ricacciarli almeno in mare!... Povera Venezia!... Perduta Cipro, perderà anche Candia, malgrado il nostro valore.

Seguendo sempre la cinta che era difesa da altissime muraglie guarnite di merli, in gran parte diroccati, giunse alla torre abitata dal Leone di Damasco e dalla duchessa. Mico, all’aperto, ridendosene delle bombe, strigliava rabbiosamente i cavalli, bestemmiando.

— I tuoi padroni? — chiese.

— Andate a consolarli, signor conte — rispose l’albanese. — Povera signora!...

Il capitano generale, quantunque non fosse più giovane, salì lestamente la stretta scala e giunse al secondo piano. Il damaschino passeggiava furiosamente come un leone appena chiuso in gabbia, mentre la duchessa, sbarazzatasi della corazza, singhiozzava fortemente, appoggiata ad uno dei due tettucci.

— Che cosa dite, signor conte, di questa nuova infamia? — chiese Muley-el-Kadel, con voce roca. — Mi vergogno di essere nato mussulmano e di aver creduto al Corano.

— I vostri compatrioti sono dei birbanti — rispose il capitano generale. — Ah!... Quel Bascià!... Eppure io sono convinto che un giorno cadrà sotto i colpi della cristianità.

— Siamo stati infamemente giocati — disse la duchessa, tergendo due grosse lagrime. — Ed anch’io avevo creduto che fosse il mio Enzo!... Occhi eguali, capelli eguali, forse la stessa età. È dunque un demonio quel cane d’un Bascià? Che venga ad un combattimento con me se l’osa!...

— Non l’accetterebbe il vile — rispose il conte. — Capitan Tempesta fa troppa paura ai turchi.

— Che cosa faremo noi, ora? — si chiese il Leone di Damasco, continuando a passeggiare rabbiosamente. — Lasciarlo nelle mani del Bascià il piccolo Enzo? Dite, conte.

Il capitano generale fece un gesto di scoraggiamento, poi disse, con voce assai rattristata:

— Come potrei io, Muley-el-Kadel, lanciare i miei uomini prima contro il campo mussulmano, e poi addosso alla flotta? Siamo appena in ventimila, mentre forse quei cani, che hanno le vie del mare libere, sono diventati nuovamente centomila. Tentereste voi un simile sforzo con guerrieri valorosi sempre sì, ma ormai sfiniti dai patimenti, dalle veglie, dalle malattie? Ditemelo.

— No — rispose francamente il Leone di Damasco. — Al vostro posto non mi assumerei una così terribile responsabilità.

— E voi, signora?

— No, perché la lotta finirebbe con la strage generale di tutti i cristiani — rispose Eleonora. — Ma che cosa ne vorranno fare di mio figlio?

— Forse un mussulmano, signora — disse in quel momento un uomo, il quale era entrato silenziosamente, scortato però dal fido albanese.

— Nikola!... — avevano esclamato, ad una voce, Muley-el-Kadel e la duchessa.

— Sì, il rinnegato greco.

L’uomo di mare s’inchinò un po’ goffamente dinanzi a tutti, poi disse:

— Muley-el-Kadel, signora, devo comunicarvi delle buone notizie.

— Parla!... Parla!... — gridò la duchessa.

— Vi posso assicurare, innanzi tutto, che vostro figlio non corre alcun pericolo, perché il Bascià lo protegge sempre, malgrado i mormorii dei suoi equipaggi. Si direbbe che l’ama come fosse suo figlio.

— Quel miserabile!... — gridò Muley-el-Kadel.

— È già molto, Leone di Damasco — disse il greco. — Io, della testa di vostro figlio, non avrei dato un mezzo zecchino.

— E voi dite che lo tratta bene? — chiese la duchessa.

— Come se fosse il figlio di un sultano.

— Ed a quale scopo?

— Chi può indovinare i pensieri di quella bestia malefica? — disse il greco. — Per ora accontentatevi di sapere, signora, che vostro figlio non corre nessun pericolo.

— Ed Haradja? — chiese il capitano generale.

— Si è presa una magnifica stoccata che la terrà inchiodata nella sua cabina almeno tre settimane.

— E Metiub? — chiese Muley-el-Kadel.

— È giunto al campo più morto che vivo, ma quell’uomo deve avere la pelle ben dura, e malgrado la stoccata che gli avete data nel collo, si assicura che non morrà — disse il greco. — Io credo che dopo queste due terribili lezioni, che hanno prodotto una disastrosa impressione nel campo, i turchi non oseranno più lanciare delle sfide sotto le mura di Candia. Badate però, signore, ed anche voi, Muley, di non cadere vivi nelle mani di quei cani. A partita perduta, vi consiglierei di darvi una pistolettata nella testa.

— Conosco la crudeltà di quei miserabili, — disse il Leone di Damasco — come conosco troppo bene l’odio di Haradja.

— Voi siete l’uomo che ha il salvacondotto, è vero? — chiese il conte.

— Sì, signor capitano generale — rispose il rinnegato. — Ora ascoltatemi.

— Hai altre notizie da comunicarci? — chiese il Leone, con ansietà.

— E buone, forse. Io ho saputo stamane, da un mio amico, pure rinnegato, e che abita la campagna, che da tre giorni si sono raccolte nella rada di Capso delle galere veneziane al comando di Sebastiano Veniero.

— Il grande ammiraglio della Serenissima!... — esclamò il conte.

— Sì, capitano generale.

— Sono molte?

— Appena otto, ma tutte nuove, armate potentemente e rapidissime, avendo doppi equipaggi di galeotti. Voi conoscete l’audacia del grande ammiraglio, e qualche colpo di testa contro il Bascià possiamo aspettarcelo.

Il conte crollò la testa.

— Otto contro trecento — disse poi. — Quale spaventevole massacro. Finché la Serenissima non avrà stretto alleanza con tutti gli stati cristiani, e avrà fatto raccolta di navi spagnole, siciliane, austriache, papali, francesi, genovesi, noi non riusciremo mai ad avere il sopravvento sul mare. Grande è stata l’audacia di Mocenigo, che ha fatto sventolare le bandiere veneziane dinanzi a Costantinopoli, come grande è stata la sua vittoria ma tutto ciò non è bastato. È il Bascià che bisognerebbe colpire al cuore, ed allora la potenza navale mussulmana si sfascerebbe. Disgraziatamente Venezia, oggidì, non può, purtroppo, tentare un simile colpo, quantunque nei suoi arsenali si lavori giorno e notte a costruire nuove galere.

Il Leone di Damasco si era fermato dinanzi alla duchessa, fissandola intensamente.

— Se io partissi? — disse.

— Per dove?

— Per la rada. Chi lo sa, con Sebastiano Veniero tutto si può attendere, anche l’arrembaggio della capitana del Bascià e la liberazione del nostro Enzo. Lo vuoi, tu, Eleonora? Nikola, che sa dove si trovano ancorate le navi e che ha amici nelle campagne, e Mico mi accompagneranno.

I grandi occhi neri della duchessa si illuminarono d’una viva luce.

— Tu vuoi tentare una così pericolosa impresa? — chiese con voce commossa.

— Sì, Eleonora, tutto io tenterò per strappare ad Haradja nostro figlio e mio padre.

— Pensavo appunto in questo momento al povero Pascià di Damasco chiuso nei sotterranei del castello d’Hussiff. Io non so se il Veniero, con così poche navi, oserà gettarsi contro la flotta del Bascià, ma potrebbe ben assalire e demolire il covo di quella trista donna, ora che i capi sono qui al campo. Che cosa dite voi, signor conte?

— Che non si devono perdere le occasioni per fare ai turchi il maggior male possibile. Assalire l’ammiraglia del Bascià, a meno d’un miracolo, non sarà possibile, ma Hussiff non si trova sulla terra cretese, dove i turchi pullulano come le mosche — rispose il capitano generale. — Se volete, Muley-el-Kadel, vi darò una scorta di fidi guerrieri per farvi scortare fino alla rada di Capso.

— No, signor capitano generale — disse il rinnegato. — Tre uomini possono sfuggire agli esploratori turchi; se fossero di più non risponderei della loro vita.

— Battono sempre la campagna gli ottomani?

— Sì, signor conte.

— Sta a te ora parlare, Eleonora — disse il Leone di Damasco.

— La notte sarà oscura poiché odo il tuono brontolare — rispose la duchessa. — Parti: tu sei sempre il Leone di Damasco che i turchi, malgrado tutto, rispettano e temono ancora.

— Lo vuoi, Eleonora?

— Sì — rispose la duchessa.

— Ma chi veglierà su di te durante la mia assenza?

— Il capitano generale di Candia — disse, con voce grave, il conte Morosini. — Vostra moglie, Muley, è sotto la protezione della Serenissima.

— Grazie, signor conte, e se mi si offrirà l’occasione, non solo salverò mio figlio, ma farò pagare ad Ali Bascià le sue infamie.

— Ve lo auguro. A che ora la partenza? — chiese il conte. — Devo avvertire i nostri avamposti.

— Lasceremo Candia appena le tenebre saranno calate — rispose Nikola. — So dove si trovano le grosse guardie turche, e spero di poterle sfuggire. Pregano troppo quella gente!...

— Muley — disse la duchessa, con le lagrime agli occhi. — Sei deciso?

— Sì — rispose il Leone di Damasco, con accento risoluto. — La morte non mi prenderà, Eleonora, e poi la mia vita ho sempre saputo difenderla.

— A questa sera — disse il capitano generale. — Vi farò uscire dal bastione di Cavarzere, che non è guardato dai turchi, almeno così sembra. Vi aspetto, Muley.