Il Leone di Damasco/X. Attraverso le rovine di Candia

X. Attraverso le rovine di Candia

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X. Attraverso le rovine di Candia
IX. Il tradimento turco XI. La cavalleria turca

X.

Attraverso le rovine di Candia


A sera piuttosto inoltrata, quando i turchi spingevano il bombardamento colle grosse bombarde, tre uomini, montati su bellissimi cavalli, attraversavano il ponte levatoio del bastione di Cavarzere, il quale era stato silenziosamente abbassato per non attirare l’attenzione di qualche volteggiatore dell’armata assediante.

Erano tutti vestiti d’acciaio; avevano spada, mazza ed archibugio appeso alla sella; sulle spalle, invece del solito mantello bianco, che doveva proteggerli dall’umidità della notte, ne avevano uno nero per meglio confondersi colle tenebre.

Quei tre audaci che lasciavano la città assediata, mentre potevano trovare ad ogni momento la cavalleria turca, scorrazzante sempre per la campagna, erano il Leone di Damasco, Nikola il rinnegato greco, o meglio, falso rinnegato, e Mico l’albanese. Non erano che tre, è vero, ma tutti solidi, e decisi a passare anche attraverso uno squadrone.

Come se i mussulmani si fossero accorti di qualche cosa, o per sfogare la loro rabbia di aver veduto cadere prima la nipote del Bascià e poi Metiub, anche questi assai popolare come famosa lama, quella notte sparavano più terribilmente che mai.

Le grosse palle di pietra, lanciate da bombarde che si spingevano molto innanzi durante l’oscurità, fino alle ultime parallele, e che all’alba, con immensa fatica venivano ritirate, solcavano le tenebre tutte rosse di fuoco, lasciandosi indietro delle lunghissime code di scintille che non si spegnevano che sopra Candia.

Si udivano distintamente cadere sui tetti delle case e non già sui bastioni e sulle torri, perché i turchi avevano l’abitudine, negli assedi, di terrorizzare specialmente la popolazione colla speranza che costringesse il comandante della piazza alla resa.

Se questa manovra era già riuscita contro le piccole città, non poteva aver esito su Candia, dove si trovavano ancora abbastanza guerrieri per tenere a freno gli abitanti e costringerli a dividere con loro tutti gli orrori della guerra.

Essendo il bastione di Cavarzere il più lontano dalle linee d’assedio, le palle non potevano giungere fino là, quindi i tre cavalieri ebbero tutto il loro agio di uscire da Candia e di lanciarsi attraverso la tenebrosa campagna.

— Tu conosci l’isola, Nikola? — chiese Muley-el-Kadel.

— Sì, signore — rispose il rinnegato greco. — Potrei percorrerla con qualunque tempo ed a qualunque ora, poiché era qui che io esercitavo i miei fortunati commerci, rovinati più tardi, da quei cani maledetti.

— Quanto potremo impiegare per giungere a Capso?

— Non prima di ventiquattro ore noi la potremo vedere, se i cavalli resisteranno e se non succederanno cattivi incontri.

— Ma la flotta turca ignora che delle galere veneziane si trovano ancorate nella rada?

— Fino ad ora sì, posso garantirvelo, signor Muley. Il Bascià è persuaso che i veneziani tentino qualche colpo disperato contro la Morea, o un gran colpo di testa contro Costantinopoli, come l’aveva così audacemente tentato l’ammiraglio Mocenigo.

— E tu da chi lo hai saputo?

— Da un cretese rinnegato che odia i turchi più di me, perché ha perduto pure lui tutta la sua famiglia sotto i colpi delle scimitarre infedeli. Fra noi rinnegati abbiamo frequenti rapporti, per aiutarci contro l’oppressore.

— E quel tuo amico ti è venuto a trovare sulla galera ammiraglia? — chiese Muley-el-Kadel.

— Non ha osato tanto, e mediante un segno convenzionale ho dovuto raggiungerlo ad uno degli angoli dell’accampamento. D’altronde, essendo vestito da turco, non poteva correre pericolo alcuno. Regna troppa confusione fra l’armata, e non si ha il tempo di occuparsi di una persona che potrebbe anche essere una spia pericolosa.

— E questo tuo amico dove si trova ora?

— Nella sua fattoria, mezza diroccata, ma che pure continua a lavorare.

— Lontano dalla rada?

— Sei ore di cavallo e forse meno — rispose Nikola. — Vedi nulla dinanzi a te?

— No, signore.

— E tu, Mico?

— Nessuno per ora — rispose l’albanese.

— Per ora, hai detto?

— Quei cani spuntano quando meno si aspettano.

— Sguainate le spade, e giacché la via pare che sia libera, spingiamo la corsa — comandò Muley-el-Kadel.

I tre cavalli, scelti fra i migliori che si trovavano ancora in Candia, si lanciarono al galoppo, mentre le bombe turche continuavano a piovere sulla disgraziata città.

I veneziani, dal canto loro, rispondevano debolmente, poiché non avendo alcuna comunicazione col Mediterraneo, cercavano di fare molta economia delle loro munizioni, colla vaga speranza che gli assedianti, che già enormi perdite avevano subite senza molto progredire, vista l’impossibilità dell’impresa se ne tornassero a Costantinopoli, o che la Serenissima, con una poderosa flotta, accorresse in loro aiuto.

Gravi erano state le perdite subite da quei valorosi che combattevano e morivano pel Leone di San Marco, lontani dai loro superbi palazzi, lontani dalla città meravigliosa del Canal Grande, ma tre volte, ed anche di più, erano state quelle degli ottomani feroci.

I tre cavalieri già si trovavano fuori della zona pericolosa e si preparavano a lanciare i destrieri ventre a terra, quando Nikola, che aveva gli occhi d’un vecchio marinaio, trattenne violentemente il suo, dicendo:

— Uomini dinanzi a noi.

— Carichiamo a fondo — rispose il Leone di Damasco, senza esitare un solo istante.

— Allora via!..

E lanciò il cavallo, seguito dal damaschino e dall’albanese, i quali tenevano tutti la pesante spada in alto, pronti a colpire.

Due cavalieri erano comparsi fra le tenebre, ed a loro volta tentavano di caricare i cristiani.

Con quelle lame che avevano di fronte, avevano ben da sudare ad aprirsi il passo, se erano soli.

— Sotto!... — gridò un’ultima volta il Leone di Damasco. — Accoppiamo quei cani!...

I cinque cavalli si urtarono furiosamente fra uno scrosciare di spade sulle corazze e non furono quelli montati dai cavalieri cristiani che andarono colle gambe all’aria.

— Il mio avversario è caduto colla gorgiera spaccata!... — gridò Muley-el-Kadel. — Spero che almeno questa volta la gola sarà tagliata netta!...

— Io ho scavalcato il mio tirandogli sotto un’ascella — disse il greco. — Spero di avergli toccato il cuore.

— Ed io, — disse l’albanese — non avendo più guerrieri da combattere ho assassinato un povero cavallo. Bah!... Servirà a divertire le uri del Profeta, se veramente esisteranno. Quel Maometto le ha sparate ben grosse, ed i turchi, come se fossero fanciulli, le hanno bevute.

I tre cavalieri, temendo qualche altro agguato, si erano arrestati, interrogando ansiosamente le tenebre che le infuocate palle di pietra delle bombarde mussulmane ormai non illuminavano che assai vagamente.

— Si agita il tuo uomo, Nikola? — chiese il Leone di Damasco.

— Non mi pare, signore.

— Lascialo morire in pace.

— Ed il vostro?

— Non si è più alzato.

— E nemmeno il mio cavallo — disse l’albanese, con aria desolata. — Avere una lama in mano capace di sfondare un’armatura del più saldo guerriero, e dover uccidere dei combattenti a quattro gambe, più felici di scappare che di venire ad un attacco. Ah!... Padrone!...

— Non siamo ancora a Capso — rispose Muley-el-Kadel. — Avrai tempo di provare il filo e la punta della tua arma. Frattanto una cosa m’inquieta.

— Dite, signore — disse il greco.

— Dov’è finito il secondo cavallo?

— Verso il campo turco — disse l’albanese.

— Ne sei certo?

— Oh!... I cavalli ottomani tornano sempre dove hanno mangiato e dormito.

— Ed allora lavoriamo di staffe, e cerchiamo di guadagnare via, giacché la rada è ancora così lontana, è vero Nikola?

— I nostri cavalli avranno tempo di stancarsi.

Allentarono le briglie, puntarono le staffe, e senza preoccuparsi dei due cavalieri turchi, i quali erano forse ancora vivi, si slanciarono attraverso la vasta pianura interrotta, di quando in quando, da campi non più coltivati, quantunque ancora difesi da imponenti bastioni di fichi d’India.

Ormai erano lontani da Candia e le detonazioni non giungevano che molto deboli. I lampi nel cielo non si scorgevano più. I campi si succedevano ai campi, e da quelli cominciavano a giungere insopportabili fetori che non sapevano certamente di uva in fiore.

Dentro i profondi solchi si dovevano trovare ammassi di scheletri, poiché i turchi, colla loro solita ferocia, prima di assediare Candia avevano quasi sterminata la popolazione della campagna, senza far grazia né alle donne, né ai piccini, e là, dove una volta crescevano prosperose, quasi senza curarle, le piante più utili, non si vedevano ormai che mucchi di ossami.

Ben pochi erano stati i cretesi a sfuggire all’immensa strage, e la vita l’avevano avuta a prezzo dell’abiura. Quei pochi però erano i più animosi che contavano, presto o tardi, su sanguinose vendette, e che la Croce la portavano sempre, si può dire, scolpita sul cuore.

E quanti drappelli turchi, sorpresi nelle deserte campagne, giannizzeri o cavalieri, erano caduti dentro i medesimi solchi ove riposavano le loro vittime sventurate!...

Qualche scontro doveva essere avvenuto sulle terre che Muley-el-Kadel ed i suoi compagni attraversavano, poiché il fetore era intenso, e poi i cavalli avanzavano a fatica, sfondando mucchi di ossami.

— Povera Creta!... — disse Muley-el-Kadel, con un lungo sospiro. — Quante rovine!... Quante rovine!... Desolazione dovunque!...

— Ed è notte — disse Nikola. — Vedrete domani come i turchi hanno ridotto le fattorie e le terre. Ci vorranno almeno cent’anni perché quest’isola, un giorno così invidiata ed ora coperta di carogne, torni a diventare quella che era prima, ve lo dico io, signor Muley.

— Ti credo, Nikola.

— I giannizzeri del Vizir prima hanno massacrato, poi hanno tutto diroccato o bruciato.

— Eppur ve ne sono ancora di vivi, degli isolani, fra queste sterminate campagne.

— Saranno forse un migliaio, poiché molti altri sono rimasti, abbastanza tranquilli, nelle città occupate dai turchi, ma sono come mille leoni. Probabilmente avremo occasione di vederli alla prova.

— La Croce lo voglia per mio figlio, per il mio Enzo, che fa tanto piangere i begli occhi della mia donna.

— L’impresa che noi stiamo per tentare, non vi nascondo, signor Muley, sarà estremamente pericolosa, ma se noi, per ora, non riusciremo a strappare al Bascià vostro figlio, tenteremo almeno di salvare vostro padre. Sebastiano Veniero è un uomo che non ha paura del castello d’Hussiff. Ne ha espugnati ben altri in Morea.

— Mio padre!... Povero uomo, condannato, per colpa mia, a soffrire il carcere.

— E non sapete il resto.

— Che cosa vorresti dire?

— Haradja l’ha torturato, togliendogli un pezzo di pelle da una spalla.

— Chi?... — urlò il Leone di Damasco, trattenendo di colpo il cavallo.

— La tigre del castello d’Hussiff — rispose Nikola. — Me lo ha narrato un marinaio turco che ha assistito all’infame supplizio.

— Ha osato tanto!...

— Che cosa non sarebbe capace di osare quella terribile donna?

— Mio padre passato sotto i rasoi come Bragadino, l’eroico difensore di Famagosta?

— È così, signor Muley.

— E poi l’ha sepolto nei sotterranei umidi d’Hussiff!...

— Sta meglio là, ve lo assicuro io, che alla pesca delle sanguisughe. Sapete bene che Haradja si serviva dei prigionieri cristiani perché servissero da esca a quelle maledette bestioline, che io pure ho provate. Alle «acque morte», non si può resistere a lungo.

— Lo so — rispose Muley-el-Kadel, con voce sorda. — Hanno ucciso il visconte Le Hussière, il fidanzato di mia moglie.

— Me lo ricordo, signore, in quale miserando stato era ridotto quel gentiluomo francese.

Aveva appena pronunciate quelle parole, quando a sua volta trattenne violentemente il cavallo, facendolo piegare fino quasi a terra, comandando subito:

— Fermi tutti!...

Il greco si era messo in ascolto.

Guardare era inutile, poiché la pianura era coperta di tenebre fitte, aleggiando in alto delle larghe fasce di vapori acquei i quali nascondevano tutte le stelle.

— Che cos’hai udito? — chiese, dopo qualche istante, il Leone di Damasco che aveva troppo fuoco nelle vene per poter rimaner tranquillo anche un solo minuto.

— Sono certo che c’inseguono.

— I turchi? Noi abbiamo uccisi quei due cavalleggieri, o per lo meno ridotti in così pessimo stato, da non poter far ritorno da soli al campo.

— Saranno stati trovati da qualche pattuglia, signor Muley — disse il greco.

— Non avranno nemmeno loro gli occhi dei gatti — disse Mico. — Chi distingue nulla fra queste tenebre?

— Ascolta tu, albanese — disse Nikola. — I montanari hanno quasi sempre l’udito acutissimo.

Rimasero tutti e tre immobili, accarezzando i cavalli affinché non nitrissero, poi Mico disse:

— Sì, odo un fragore lontano, che non può essere prodotto che da qualche grosso stuolo di volteggiatori. Per la barba del Profeta!... Non ci mancherebbe che un inseguimento ora!...

— Non mi ero ingannato — disse il greco. — I nostri due scavalcati devono essere stati scoperti, ed i loro camerati, ora, vorranno vendicarli. Bah!... Se hanno dei cavalli arabi anche i nostri lo sono, e di razza scelta, è vero, signor Muley-el-Kadel?

— Sono animali da temere ben pochi inseguimenti — rispose il Leone di Damasco il quale non appariva affatto preoccupato. — Tu ci guidavi alla casa di un tuo amico?

— Sì, signor Muley, e non lo troveremo probabilmente solo, poiché ha potuto salvare, sborsando molti zecchini, anche due suoi parenti, famosi per menar le mani.

— Lontana?

— Da quattro a cinque miglia.

— Verremo accolti anche se abbiamo dietro di noi un drappello di cavalieri turchi?

— Il mio amico non è uomo da spaventarsi, e tanto meno gli altri. Dobbiamo accendere le micce degli archibugi?

— Sarebbe un’imprudenza per ora, e poi quei cavalieri sono ancora ben lontani. Lavoriamo di staffe, e cerchiamo di non farci raggiungere prima di arrivare alla fattoria.

I cavalli non avevano già cessato di trottare. Sentendo il ferro tagliente delle staffe, presero un galoppo indiavolato, avventandosi sempre fra i larghi solchi dei campi, privi quasi ormai di piante. I cavalieri tendevano sempre gli orecchi, cercando di raccogliere ancora il lontano fragore sospetto, ma il fracasso prodotto dagli zoccoli dei loro animali non permetteva di udire qualche cosa.

— Eppure sono sicuro che siamo seguiti — borbottava Mico.

Per due ore i cavalieri varcarono campi e campi, saltando solo, di quando in quando, un ammasso dei soliti fichi d’India, ormai altissimi dacché non erano stati più curati, poi rallentarono dinanzi ad un fitto bosco di carrubi.

— La fattoria del mio amico non è lontana — disse Nikola. — Che i cavalli reggano ancora mezz’ora, e noi saremo al sicuro.

— Al sicuro, dici? — chiese il Leone di Damasco.

— Le fattorie dell’isola si sono tramutate in arsenali, e troveremo altre armi ed altra polvere, tanto da smontare uno squadrone.

— Ma come fai, tu, a dirigerti con questa oscurità? — Non so, ma il fatto è che io non mi sono mai ingannato sulla direzione, né per terra, né per mare, anche senza bussola. Forse vi sarà nel mio cervello qualche cosa di quel sesto senso che hanno gli uccelli migratori. Notate che io ho un’altra particolarità, preziosa specialmente in quest’isola che soffre lunghe siccità: io odo le correnti d’acqua sotterranee e so anche trovarle. Eh!... Badate!... Qui è stata commessa un’altra strage: tutto il campo è coperto di scheletri.

— Cristiani? — chiese Muley.

— Oh, ve ne saranno anche molti di turchi, poiché gl’isolani, resi furiosi per le orrende stragi patite, non cadevano senza aver prima bruciato l’ultima cartuccia o rovinato il filo dei loro yatagan. Reggete i cavalli e badate che non si feriscano.

Balzarono nel campo tutto coperto di ossami, i quali esalavano ancora dei pestiferi odori. Essendo, nel frattempo, le stelle ricomparse, i cavalieri poterono scorgere, a breve distanza, le rovine di parecchie grosse fattorie candiote.

Un combattimento furibondo doveva essere successo in quel luogo fra isolani e conquistatori, poi questi ultimi, certamente più numerosi, in nome del Profeta avevano distrutto inesorabilmente i primi, che altra colpa non avevano che di adorare la Croce, ed il fuoco aveva fatto il resto.

— Un villaggio quello? — chiese il Leone di Damasco, indicando gli avanzi dei casolari.

— Sì, signor Muley — rispose il greco, con un sospiro. — Qui i turchi hanno macellati più di seicento tranquilli lavoratori della terra, senza far grazia alle donne ed ai fanciulli. Voi conoscete meglio di me la ferocia ottomana.

— E so quanto fa orrore — rispose il Leone di Damasco. — Ah!... Infami!... Infami!... È contro il forte guerriero che il vero guerriero si misura.

Facendo spiccare ai cavalli dei grandi salti, attraversarono quell’orrendo campo di ossami e si cacciarono dentro al bosco di carrubi. Avevano appena fatta irruzione, quando udirono a terra, in alto, a destra ed a sinistra, un violentissimo starnazzare d’ali, che proiettò su di loro una corrente d’aria impetuosa e per niente profumata.

— Che cosa sono? — chiese Muley-el-Kadel, maneggiando la spada.

— I mangiatori di morti — rispose il greco. — Sono uccellacci neri, con un lungo becco, alti più d’un metro, e che prima della guerra nell’isola non esistevano. Si dice che siano venuti da paesi molto lontani, dalla Persia perfino, e che siano passati qui dopo aver fatta una lunga sosta sulle campagne di Cipro.

— Dove si saranno ben ingrassati — disse Mico.

— Ed ora sono venuti qui. Badate che talvolta, resi feroci dalla fame, osano assalire anche le persone. Due volte ho dovuto difendermi da quei puzzolenti volatili a colpi d’archibugio.

— Basteranno le nostre spade, Nikola — disse il Leone di Damasco. — Come decapitano i turchi coperti di ferro, non avranno da guastarsi il filo. E poi non facciamo uso delle armi da fuoco per ora. Non dimentichiamo di essere inseguiti, e che uno sparo può sempre servire di guida.

— È vero, padrone — disse Mico. — Ah!... Vengono all’assalto!... Non contenti di aver divorati tanti morti, ora pretenderebbero di ingoiare anche i vivi. Adagio, miei cari: questo bastone taglia come il rasoio d’un carnefice turco. Guardate le vostre teste!...

Gli uccellacci che non dovevano aver trovato di che sfamarsi nelle campagne, dove giacevano solo degli scheletri quasi calcinati dal sole, calavano ad ondate sui tre cavalieri, tentando di rimpinzarsi con quelle carni fresche.

Erano tutti neri come le tenebre che li circondavano, con dei becchi lunghi un piede, e tanto larghi, aperti, da poter contenere comodamente un grosso falco o qualche volatile anche più grosso. Squittivano rabbiosamente, quasi fossero volpi, e calavano all’attacco risolutamente, tentando soprattutto di spaccare le teste ai cavalli che non erano coperte di ferro come quelle dei cavalieri.

— Ecco gli alleati dei turchi!... — aveva gridato l’albanese, tirando colpi di spada in tutte le direzioni.

Anche il Leone di Damasco ed il greco avevano impegnata la lotta, quantunque fossero convinti che nessun gran male potesse derivare da quegli uccellacci affamati. Tiravano colpi di spada in pieno, e teste, e ali, e code cadevano in gran numero intorno ai cavalli, i quali, spaventati spiccavano dei salti immensi. Il bosco di carrubi fu però in breve attraversato, ed i cavalieri tornarono a ripiombare nei solchi dei campi.

— Speriamo che quelli che c’inseguono facciano l’incontro di quei poco piacevoli amici — disse Mico. — Tutti i turchi sono, più o meno, superstiziosi, e non si impegneranno certamente fra quelle piante.

In quel momento, nel gran silenzio che regnava sulla campagna si udirono diffondersi per l’aria tranquilla due tocchi bronzei.

— Che cos’è? — chiese il Leone di Damasco, preparandosi ad arrestare il cavallo.

— Questo suono ci annuncia la fattoria di Domoko — rispose il greco. — Il suo campanile suona ancora, e credo che sia l’unico che i turchi, chissà per quale capriccio, non hanno distrutto.

— È la fattoria del tuo amico?

— Sì, signor Muley. I nostri cavalli hanno divorata la via più rapidamente che io lo pensassi. Sia ringraziata la Croce che ci protegge sempre.

I due tocchi squillarono nuovamente. L’onda sonora del bronzo vibrò forte, quasi fosse viva, poi si smorzò lentamente in lontananza in una specie di lamento. I tre cavalieri, passando per un momento le spade da destra a sinistra, si fecero il segno della Croce, poi allargarono le gambe urlando ai cavalli:

— Via!... Via!...

Mentre il suono della campana si spegneva, avevano udito ancora il lontano fragore che annunciava il nemico implacabile.

— Ci salvi la Croce!... — aveva gridato Mico.

— E contiamo sulle nostre spade — disse il Leone di Damasco.

La pianura s’apriva davanti a loro senza spalliere di vigneti, senza carrubi, senza fichi d’India, senza datteri: un polverone immenso si alzava sotto le zampe dei cavalli. Il fuoco turco aveva distrutto ogni cosa, dopo d’aver decimati i lavoratori della terra colle scimitarre e gli archibugi.

Si erano preparato, i conquistatori della Mezzaluna, l’ingrassamento dei campi con cenere e sangue, il guano di quell’epoca. Per un altro quarto d’ora i tre cavalieri avanzarono, poi ritrovarono dei solchi con qualche magro filare di viti.

— Guardate laggiù — disse il greco.

— Una casa ed una torricella!... — esclamò il Leone di Damasco.

— La fattoria del mio amico Domoko.

— Ci sarà in casa?

— Io lo spero.

In quell’istante si udirono i latrati feroci dei cani, bestie grosse di certo, a giudicarle dalla potenza e profondità della loro voce. Rallentarono la corsa e giunsero su un vasto piazzale in mezzo al quale si ergeva la fattoria, una casa massiccia, con muraglie e tetti di pietra, e con ai lati delle tettoie semisfondate.

I turchi, non potendo ardere la casa, avevano cercato di distruggere almeno quelle, affinché i poveri contadini, ancorché convertiti all’islamismo, non potessero riparare i loro cavalli ed i loro montoni.

Nikola ringuainò la spada, accostò le mani alla bocca e mandò tre fischi prolungati. Un momento dopo, mentre i cani latravano più rabbiosamente che mai dentro la casa, tentando di uscire, una piccola finestra si apriva, ed una voce tuonante chiedeva:

— Chi vive? Islam?

— No, San Marco — rispose Nikola. — Vieni ad aprirci, Domoko: siamo inseguiti.

— Da quei cani col turbante?

— Sì.

— Aspetta che svegli i miei cognati. Sei ben Nikola, tu?

— Sì, e conduco con me il Leone di Damasco.

La finestra si rinchiuse, si udì dentro la casa un tramestio ed uno scricchiolare di scale malferme, poi la porta si aprì e tre uomini, tutti alti e robusti, e molto barbuti, si affacciarono soffiando sulle micce di tre archibugi.

— Serba quei colpi pei turchi, Domoko — disse Nikola. — Noi siamo cristiani.

— Si diffida sempre in questi pessimi tempi — rispose il fattore. — La mia casa è a vostra disposizione colla cantina e il granaio.

Uno dei suoi parenti si affrettò ad accendere una puzzolente lampada ad olio, di forma quasi antidiluviana, mentre l’altro metteva a catena i cani, due enormi mastini ringhiosi e pericolosi tanto pei turchi quanto pei cristiani.

I tre cavalieri balzarono di sella, portando le loro armi, compresi gli archibugi, ed entrarono in un vasto stanzone, mentre già i cognati di Domoko correvano ad impadronirsi dei cavalli per condurli sotto una delle tettoie. Il soffitto era annerito, le pareti pure, il pavimento fangoso, essendo formato solamente di terra battuta.

La mobilia consisteva in una dozzina di orci, chiamati zare, destinate a conservare l’olio, e così solide da sfidare le palle di pistola di quell’epoca, in una lunga tavola vecchia forse d’un secolo, tutta bucherellata, ed in pochi scanni zoppicanti.

Appesi alle pareti vi erano invece molti archibugi, colle micce pronte, e parecchi yatagan lucentissimi. Il fattore, che come abbiamo detto, era un uomo robustissimo, quasi un gigante, ed ancora fortissimo quantunque la sua lunga barba fosse brizzolata da lunghi fili d’argento, mosse sollecitamente incontro agli ospiti.

— Il Leone di Damasco? — chiese.

— Sono io — rispose Muley-el-Kadel.

Il candiota lo guardò con un misto di stupore e di meraviglia, poi inchinandosi dinanzi a lui disse:

— Lunga vita all’eroe di Famagosta, sposo di Capitan Tempesta, la cristiana che abbatteva i turchi come io abbatto le mie ulive. Entrate: siete in casa vostra.

— Una parola prima — disse Nikola. — Io non vorrei comprometterti coi turchi.

— Che cosa vuoi dire? — chiese il fattore, corrugando la sua larga fronte.

— Ti ho detto che siamo inseguiti.

— Sono molti quelli che vi danno la caccia?

— Non lo sappiamo ancora.

— Siamo in sei, abbiamo con noi il Leone di Damasco, che cosa potremmo temere da parte di quei cani? La casa è solida, le armi e le munizioni abbondano, e poi non credo che il Vizir possa aver distaccata tutta la sua cavalleria per inseguire così poca gente. Saranno lontani quei cavalieri?

— Avremo un vantaggio di qualche miglio, suppongo — disse Nikola.

— Kara — disse ad uno dei suoi cognati, che in quel momento entrava. — Va’ a prendere del vino, giacché ne abbiamo ancora. Fa più bene ai cristiani che ai mussulmani.

— Non badano più al Profeta ormai — disse Mico. — Trincano più vino che acqua, ve lo assicuro io.

— Ne sono convinto, giovanotto — rispose il fattore, sorridendo. — Signor Muley-el-Kadel, è ben questo il vostro nome che tante volte ho udito, dove eravate diretti?

— Alla cala di Capso — rispose il Leone di Damasco. — Ho assoluto bisogno di vedere Sebastiano Veniero. Lo troveremo ancora?

— Sì — rispose il cretese. — Le sue otto galere sono sempre all’ancora, ma colle vele semispiegate.

Uno dei due cognati era entrato portando un grosso boccale di terra, pieno di quel vino generoso che piaceva tanto perfino ai turchi. Furono portate delle tazze di legno e Domoko lo versò, dicendo:

— Alla morte dell’Islam!...

— Alla sua distruzione — avevano aggiunto l’albanese e Nikola.

Il Leone di Damasco non aveva avuto il coraggio di bere alla fine della sua razza, tuttavia aveva bevuto.

In quel momento i due grossi mastini drizzarono gli orecchi e si misero a mugolare minacciosamente.

— Silenzio — disse il fattore, prendendo una frusta e facendola fischiare.

— Hanno udito i turchi avvicinarsi, è vero? — chiese Nikola.

— Sì, fiutano quelle canaglie da lontano, ma non crediate che questa notte debba succedere un combattimento. I mussulmani sono troppo amanti della luce, e non li vedremo comparire se non quando il sole si sarà alzato. Io spero, però, di giuocare loro un bel tiro. Se andrà male allora daremo mano alle armi e cercheremo di fare del nostro meglio. Che cosa dite voi, signor Muley-el-Kadel, che avete trascorsa la vostra esistenza sempre in mezzo ai combattimenti?

— Spiegatevi, Domoko.

— Un momento, signore — disse il fattore.

Poi volgendosi verso i suoi due cognati che stavano a guardia della porta, cogli archibugi già pronti a sparare, disse:

— Tu, Kitar, va’ a fermare l’orologio della torretta.

— Perché? — chiese il greco, facendo un gesto di sorpresa. — Lascia che la campana suoni.

— No. Quando i pochi contadini sfuggiti alla immane strage turca, e se ne trovano a non molta distanza da qui, non udranno più il vecchio orologio suonare le ore, comprenderanno che qualche cosa di grave sarà avvenuto qui, e li vedremo giungere, sia pure in pochi, in nostro aiuto.

— È un segno convenzionale? — chiese il Leone di Damasco.

— Sì, signor Muley, e se...

Si era interrotto. Il vecchio orologio, prima di essere stato fermato, aveva voluto compiere, ancora una volta, il suo dovere secolare. Le onde bronzee si ripercossero stranamente dentro la casa, facendo mugolare i due mastini, poi si dispersero per la porta rimasta aperta, rombando nella campagna.

— Fra un’ora il sole sarà alto ed i turchi compariranno — disse Domoko.

Si avvicinò ai grossi orci, ne scoprì tre, e dopo d’aver fiutato più volte, aggiunse:

— Vi è stata solamente dell’acqua lì dentro?

— Che cosa vuoi fare? — chiese Nikola.

— Non ti sembra che un uomo possa nascondersi dentro questi vasi panciuti?

— E tu credi che i turchi non solleveranno i coperchi?

— Allora scatenerò i cani e daremo battaglia — disse il fattore. — Morire domani od un altro giorno fa lo stesso, da che la nostra vita, malgrado l’abiura, è sempre esposta a gravissimi pericoli.

Kitar era entrato insieme a suo cognato Kara. I due forti isolani, già abituati ai combattimenti, quantunque fossero entrambi ancora giovani, apparivano tranquilli.

— È fermo l’orologio? — chiese Domoko.

— Non batte più — rispose Kitar. — Ho tagliato la corda che sosteneva il contrappeso e la pietra è caduta in fondo alla torricella.

— Spegniamo il lume e andiamo a perlustrare le vicinanze della fattoria.

I sei uomini attesero che l’oscurità avesse invaso lo stanzone, soffiarono sulle micce degli archibugi e uscirono, mentre i cani, prevedendo qualche cosa di grave, mugolavano sordamente e facevano sforzi disperati per rompere le catene.