Il Leone di Damasco/III. Il Pascià di Damasco
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III.
Il Pascià di Damasco
Furono i sultani che resero spaventosamente sanguinaria la popolazione turca, instillando un odio feroce, senza tregua e senza pietà, verso il cristiano, a cui nessun supplizio doveva bastare per procurargli la morte.
Non il primo, che fondò la dinastia degli Osman, il famoso Bajazet, che assoggettò quasi tutto l’Islam e che non cedette ad altri che dinanzi all’invincibile Tamerlano, che conduceva le orde tartare e che non ebbe nessuna pietà per il vinto Sultano, poiché lo fece rinchiudere in una gabbia di ferro e morirvi dentro di crepacuore.
Non il secondo, il primo Maometto, il più famoso, il più dolce dei sovrani, che perdonava ai ribelli, e che concesse la vita al suo stesso fratello ribellatoglisi con l’aiuto del principe di Valacchia, e che morì ad Adrianopoli nel 1421, rimpianto dal suo popolo e lodato perfino dai suoi nemici. Fu Maometto II, il più grande dei sultani turchi, che instillò nei suoi sudditi l’odio contro i cristiani, e che inventò spaventosi supplizi anche per i suoi vizir.
Sotto questo fortunato conquistatore, che per primo piantò la Mezzaluna sulla cupola di Santa Sofia di Costantinopoli, distruggendo per sempre il regno di Bisanzio, la crudeltà turca si sviluppò in modo spaventoso.
Crudele ed inflessibile, non pago di aver fatto del mar Nero un lago turco, di aver conquistata la Crimea, la Trebisonda, e di aver portate le sue armi, sempre vittoriose, fino in vista delle Alpi, aveva mostrato ai suoi giannizzeri come si trattano i prigionieri di guerra, facendo segare vivi cinquecento veneziani.
Fece passare a fil di spada ottocento epiroti caduti nelle sue mani; fece strozzare vizir e principi spodestati, e inaugurò nel Serraglio il sacco di cuoio, entro cui mettevasi la donna che più non piaceva al suo signore, insieme ad un gatto, sacco che poi veniva gettato di notte nel Bosforo con una palla di ferro appesa in fondo. Sembrò che una vera follia sanguinaria s’impadronisse di tutto il popolo turco, follia che gli altri sultani si guardarono di lasciar spegnere, per spargere intorno a loro il terrore, e far tremare i nemici lontani.
E si mostrò subito spaventosamente crudele il terzo Maometto, famoso per la sua barbarie ed anche per le sue vittorie.
Aveva diciannove fratelli quando salì al trono. Temendo che qualcuno potesse più tardi ostacolargli il Sultanato, li fece strozzare tutti dai muti del Serraglio.
Avido di gloria, osa misurarsi coll’Austria, che allora era la maggior potenza dell’Europa, ed in una furiosa e terribile battaglia sconfigge il duca Massimiliano uccidendogli cinquantamila uomini!...
I prigionieri non ebbero quartiere e morirono tutti fra i più orribili supplizi, poiché ormai il turco considerava il cristiano come un essere indegno di esistere al mondo.
Imbaldanzito, porta le sue armi sul Danubio e nell’Asia, e manda galere a devastare le coste italiane, facendo dovunque orribili stragi. Come se il delitto commesso con l’uccisione dei suoi diciannove fratelli non bastasse, ne commette un altro, che fa inorridire non solo il mondo islamico, bensì anche quello cristiano.
Mahmud, il suo primogenito, principe d’indole ardita e generosa, aveva chiesto più volte a suo padre di condurlo alla guerra invece di lasciarlo chiuso nel Serraglio fra le cinquecento belle dell’harem.
Quella insistenza ispira al sanguinario Sultano il dubbio che egli ambisse qualche grosso comando per servirsene poi contro di lui, e lo fece strozzare. La crudeltà ottomana aumentava a vista d’occhio.
Non bastavano più i lacci di seta dei muti, non bastavano più le stragi notturne dell’harem, non bastavano più a quel crudele Sultano le forche, le esecuzioni in massa, le seghe per tagliare a metà i prigionieri, i tagli dei nasi e degli orecchi; inventò la spellatura operata con rasoi affilatissimi, supplizio divenuto poi quasi popolare, e che, come si vede, non era ignoto nemmeno ad Haradja.
Non erano d’altronde i soli sultani a rinfocolare la ferocia ottomana: anche le sultane vi concorrevano facendo strozzare le loro rivali, o gettarle vive nel Bosforo entro il fatale sacco. Si può dire anzi che rivaleggiarono coi loro padroni e signori, macchiando largamente il Serraglio di sangue. Perfino le cristiane, rapite sulle coste d’Italia e poi diventate potenti nell’harem, non si mostrarono più umane.
È rimasta famosa la Baffa, nobile veneziana, rapita da corsari turchi, venduta schiava a Costantinopoli, per diventare poi una delle più potenti e delle più crudeli sultane che la storia degli Osmanli ricordi.
Insanguinò il Serraglio in tutti gli angoli, e pur essendo cristiana innanzi tutto, e veneziana poi, incrudelì contro i giaurri della sua medesima razza, come se Maometto avesse sconvolto il suo cervello e l’avesse fatta più mussulmana di tutte le mussulmane dell’impero.
Non vi era quindi da stupirsi se Haradja, nipote d’un corsaro algerino, diventato più tardi famoso, che massacrava quanti prigionieri gli cadevano vivi nelle mani, fossero capitani od umili soldati, non si impressionasse troppo ad applicare qualcuno degli atroci supplizi che Maometto III aveva inventati durante le brevi soste guerresche.
Il Pascià non aveva staccati gli sguardi dalla castellana d’Hussiff, come per chiederle se avesse voluto scherzare o semplicemente spaventarlo. La comparsa di Hamed fornito d’una cassetta, seguito da quattro marinai che portavano due cavalletti e due grosse tavole, lo convinse presto del suo errore.
— Dunque tu oseresti?... — chiese con voce rauca, strozzata dalla collera.
— Io oserò tutto se tu non parlerai — rispose Haradja. — Non ti chiedo, come ti dissi, di dirmi dove si trova tuo figlio; a me basta sapere dove si nasconde sua moglie, il Capitan Tempesta.
Il Pascià proruppe in una risata.
— Credi tu, forse che i giaurri, nei loro paesi, vivano separati dalle loro donne? Sai bene che non ne possono sposare che una, e dicendoti dove si trova la duchessa napoletana, moglie di mio figlio, t’indicherei anche il palazzo abitato da Muley-el-Kadel. Io d’altronde non so nulla, e tu, nipote d’un pirata, puoi uccidermi come hai ucciso il mio fedele capitano d’armi.
— Bada, Pascià!... — gridò Haradja, con voce stridula.
— Quando tu mi avrai presa la vita tutto sarà finito, e nulla avrai saputo.
— Siete dunque ben ostinati voi ottomani dell’Asia Minore.
— Più valorosi e più leali di quelli delle isole e del continente.
— Vuoi tornare a Damasco?
— Che cosa devo fare? Ormai ho capito che nulla ho da comunicare al Sultano Ibrahim.
— Parlare!... — urlò Haradja, che sembrava una tigre.
— Ti posso dire che i banditi siriaci che salivano ad ondate dal deserto, si sono calmati, e che le sabbie non giungono più fino al mare.
— Va’ a raccontare ciò alle tue favorite.
— Lo sanno già e si annoierebbero se ripetessi loro queste storie.
— Dunque non parlerai di Capitan Tempesta, della moglie di tuo figlio? Non mi dirai dove potrei raggiungerla...
— E farla uccidere — disse il Pascià, con voce sarcastica. — Alla nipote del grande ammiraglio non mancherebbero certo dei miserabili arruolati in Tripolitania, in Algeria, o più lungi ancora, nel Marocco, pronti a maneggiare il pugnale anche contro una donna.
— T’inganni!... Sono anch’io forte nelle armi e non meno, spero, della principessa italiana.
— Infatti, mi hanno detto che il tuo capitano d’armi, che si dice sia una delle migliori lame dell’impero, abbia fatto di te una valente allieva.
— Chi te lo disse?
— L’ho udito narrare un giorno a Damasco.
— Ah!... Si parla di me in quella città! — esclamò Haradja, arrossendo di orgoglio.
— Cipro è troppo vicina alla costa perché qualche volta non si parli anche del castello d’Hussiff e della sua castellana.
— E così? — disse Haradja, alzandosi impetuosamente, intanto che il carnefice della galera faceva preparare la tavola del supplizio e visitava i suoi rasoi.
— Che cosa vuoi? — chiese il Pascià.
— È mezz’ora che ti ripeto che voglio sapere dove si trova la principessa.
— Ed è mezz’ora che io ti rispondo che non so nulla — rispose il Pascià.
— Ah, non sai nulla!...
— No.
— Per Allah, la vedremo!...
Aveva fatto un cenno.
Hamed si era gettato come una tigre sul Pascià, gli aveva tolta la magnifica coperta di seta damascata che lo copriva, e siccome il disgraziato non aveva indosso che dei calzoni di seta bianca ed una camicia, pure di seta, di colore giallo, strappò tutto.
Afferratolo quindi, lo gettò abbastanza brutalmente sulle due tavole sorrette dai Cavalletti, e lo legò col dorso in alto, stringendogli fortemente le braccia e le gambe.
— Puoi vantarti di avere un carnefice che non ha riguardi né per pascià, né per vizir. Che preghi Allah di non cadermi un giorno sotto le mani — disse il padre del Leone di Damasco.
— Me ne manderai un altro tu — rispose Haradja. — A Cipro non si può trovare di meglio. È vero che i damaschini godono fama di essere gentili.
— Ah!... Unisci anche l’ironia!...
— Io!... Mai, Pascià.
Hamed aveva preso due grandi rasoi, ben affilati, e stava passando l’uno sull’altro, cercando di produrre maggior rumore.
— Devo cominciare, padrona? — chiese.
Delle urla feroci coprirono la sua voce. I marinai della gagliotta, quantunque ormai disarmati, protestavano contro quella crudeltà che si voleva applicare al loro signore.
Haradja si volse verso i vinti, guardandoli sdegnosamente, poi disse a Metiub:
— Fa’ caricare quattro colubrine a mitraglia, e se quelle gru di Damasco si muovono, fa’ spazzare il ponte.
— Come vuoi — rispose il capitano d’armi, il quale si mostrava sempre più seccato. Hamed aveva terminato di affilare i suoi rasoi.
Afferrò con la mano destra la spalla sinistra del Pascià sollevando un po’ la carne, poi col rasoio più affilato cominciò a tagliare la pelle. Una grossa macchia di sangue si diffuse subito, allargandosi rapidamente. Il Pascià non aveva mandato un grido. Haradja aveva strette le pugna, mentre la fronte del capitano d’armi si offuscava.
— Parlerai? — chiese la castellana d’Hussiff, con voce alterata.
— Non so nulla — ripetè il Pascià a denti stretti.
Hamed, che teneva già sollevato un pezzo di pelle, interrogò con gli sguardi la crudele donna.
— Continua pure — rispose questa.
Il carnefice prese il secondo rasoio e riprese la sua non facile operazione, guardandosi di non intaccare i muscoli.
Per alcuni istanti ancora il disgraziato Pascià, che si sentiva spellare vivo, resistette al dolore atroce, poi un grido gli uscì dalle labbra:
— Basta cane!... Che il Profeta maledica te e la tua padrona insieme.
— Non ti ha alzato che un pezzo di pelle appena largo come due mani — rispose Haradja. — Resistono poco i vecchi polli di Damasco. Vuoi che il mio bravo Hamed continui, o ti deciderai a parlare?
Il Pascià era rimasto silenzioso, stringendo i denti. Il sangue scorreva sul suo dorso e si raccoglieva lentamente sotto il primo cavalletto, gocciolando con sordo rumore.
Hamed ad un cenno della padrona, aveva lasciato ricadere la pelle.
— Vedi bene, Pascià, che io non sono donna da spaventarmi — disse Haradja. — Come ho mandato a finire sui pettini il tuo capitano d’armi, farò scorticare te.
Una bestemmia sfuggì dalle labbra del torturato.
— Ah!... Tu vuoi sapere dove si trovano mio figlio e sua moglie!... — gridò. — Va’ a prenderteli a Candia se l’oserai. Cinquantamila turchi sono caduti intorno ai fossati della città che i veneziani difendono, e più d’altrettanti vi finiranno dentro, te lo dico io. Se hanno preso la Canea dopo poche settimane, non prenderanno così facilmente Candia. Sono dieci anni che le nostre mine lavorano e che tuo zio bombarda giorno e notte senza che la bandiera dell’impero abbia potuto sventolare su quelle rovine. Vuoi andarli a cercare? Va’, sei libera, ma guardati dalle mine. Mi hanno detto che si consuma molta polvere laggiù, e che intere compagnie saltano di quando in quando.
— Candia!... — esclamò Haradja. — Che cosa sono andati a fare in quella città? Io so che la principessa italiana si era lasciata rinchiudere in Famagosta, perché sperava di trovarvi un gentiluomo francese suo fidanzato, ma a Candia!...
— Ti ho detto che la principessa aveva dei possedimenti nell’isola.
— E... m’inganneresti, Pascià o cercheresti di farlo per sottrarti ai rasoi del mio bravo Hamed?
— No, perché so che tu, con tutta la tua spavalderia e col tuo capitano d’armi e col famoso ammiraglio, non entreresti mai in Candia.
— Lo giureresti sul Corano?
— Sì — rispose il Pascià.
— Mi basta la tua parola perché ti credo buon mussulmano.
Ad un suo cenno Hamed accomodò per bene la pelle che aveva levata con pochi colpi di rasoio, e la coprì con un pezzo di tela leggermente umidita in acqua salata. Le corde furono subito sciolte ed il Pascià potè alzarsi e mettersi a sedere.
— Sei contenta, ora? — chiese ad Haradja, che lo guardava sempre impassibile.
— Sì — rispose la castellana d’Hussiff.
— E andrai a scovare mio figlio e mia nuora?
— Certo.
— Entro Candia?
— O dinanzi ai suoi bastioni.
— Colle galere del tuo famoso zio?
— Di ciò non occuparti.
— Vorrei saperlo. Assisterò io a quella scena?
— Tu assisterai all’assedio di Candia nei sotterranei del mio castello d’Hussiff. Ve ne sono di quelli assai freschi che i vecchi galli invidierebbero.
— Cagna!... — urlò il Pascià.
— Urla, ingiuria finché vuoi, la mia pelle è dura, è pelle cotta sotto il sole algerino come quella di mio zio.
— E tu credi che qualcuno non vendicherà l’offesa recata al governatore di Damasco?
— Chi? Il Sultano? Ibrahim ha ben altro da fare in questo momento. È troppo rattristato per aver ucciso la sua crudelissima Sultana.
— Chi, Roxelana? La grande Sultana che faceva tremare tutto il suo Serraglio?
— Nobile veneziana anche quella, e che superava, forse pei suoi lunghi capelli biondi ed i suoi occhi neri, la crudeltà della Baffa e di tutte le favorite mussulmane.
— Morta, hai detto!...
— Era tempo che quella cristiana, diventata Sultana, se ne andasse, non so se al paradiso dei suoi o dei nostri. Guardava tutto il giorno il Bosforo, e quando calava la sera, si divertiva a far strozzare le sue rivali turche. Perfino le figlie del Sultano imbecille, che si fa portare attraverso i suoi giardini ed i suoi appartamenti in lettiga, ha fatto sgozzare dinanzi ai suoi occhi. Kourremsultana, l’eterna annoiata, aveva bisogno di svaghi.
— Ed è morta!... — esclamò, per la seconda volta, il Pascià, il quale pareva che dimenticasse i suoi dolori.
— Era diventata troppo terribile la bionda veneziana che ogni sera, per distrarsi, insanguinava il gran «salone delle perle».
— Chi ti ha detto che la Sultana è morta?
— È stata uccisa, ti ho detto. Aveva avuto il coraggio, dopo aver tentato di avvelenare il figlio primogenito del Sultano con della frutta candita, d’insultare la sorella del suo signore.
— Audaci queste veneziane.
— Ma tu non sai ancora come ha finita, a ventitré anni, quella meravigliosa bellezza che incantava tutta Costantinopoli.
— Narra!... Narra!...
— E la tua... pelle?
— Non occupartene. Le storie tragiche interessano noi mussulmani.
— Ed il Sultano la mandò a chiamare e le disse, furioso per l’insulto fatto a sua sorella: «Tu hai dimenticato, cristiana nell’anima, la distanza che passa fra te e mia sorella». «Quale distanza?» ha chiesto orgogliosamente la crudele giaurra. «Quella d’una schiava comperata sul bazar della mia capitale, di fronte ad una figlia di sangue imperiale.» La veneziana, sfidando il proprio sposo, in presenza dei suoi dignitari, osò aggiungere un’altra atroce ingiuria. Fu la sua sentenza di morte. La sua bellezza non la salvò dalla mazza d’oro del suo sposo che si affondò nei suoi biondi capelli.
— E cadde uccisa?
— Il Sultano le aveva spaccato il cervello.
— E poi?
— Pascià, — disse Haradja — e la tua scorticatura?
— Quando noi mussulmani udiamo delle grosse novità, anche moribondi, torniamo alla vita.
— Ma ora basta: non ho più nulla da raccontare. Dobbiamo occuparci della tua guarigione, ora che hai parlato.
— Sì, dietro le salde mura di Candia, ho parlato. Va’ a cercare i miei figli fra i veneziani che le difendono.
— Non occuparti di questo. Hamed, prendi il Pascià, portalo nella sua cabina ed incaricati della sua guarigione. La tua presenza a Candia è inutile: dei carnefici laggiù ne troverò a diecine, se dovessi averne bisogno.
Poi volgendosi verso Metiub, continuò:
— Fa’ porre ai ferri tutti i damaschini e fa’ passare sulla gagliotta una trentina dei miei uomini affinché la conducano a Hussiff.
— Non verrò con te io, signora? — chiese il capitano d’armi.
— Mi sarai più che mai necessario a Candia. Fa’ eseguire i miei ordini, fa’ alzare la bandiera azzurra perché le galere si rimettano al vento, e raggiungimi presto.
Il sole stava per tramontare in un oceano di fuoco. Il Mediterraneo pareva che fiammeggiasse tutto, lasciandosi sferzare dalla brezza, che di quando in quando si abbatteva sulle sue acque corruscandole.
Haradja fece il giro della galera, forse per non vedere oltre il Pascià, che già Hamed aveva portato sulla gagliotta, si soffermò qualche minuto sull’alto castello di prora contemplando il sole tramontante, e respirando a pieni polmoni la brezza carica di salsedine, poi tornò verso i due alberi.
Guardò, senza impallidire, il povero capitano d’armi del Pascià che alcuni marinai stavano togliendo dai pettini per gettarlo ai pescicani, molto numerosi allora nel Mediterraneo orientale, in seguito ai continui combattimenti navali che avvenivano fra i veneziani ed i Cavalieri di Malta da una parte, ed i mussulmani dall’altra, e che fornivano a quegl’ingordi pesci prede abbondanti, poi si coricò sulle due colubrine sulle quali era ancora stesa la magnifica coperta di damasco del Pascià.
Subito due uomini le portarono il caffè su un vassoio d’oro, scolpito a rimbalzo, ed un narghilek con l’acqua profumata di rose e la pipa ben carica del biondo tabacco di Morea, essendo allora permesso anche alle donne di fumare.
Pochi lustri prima però, una favorita di Murad, il quale aveva proibito l’uso del tabacco in tutti i suoi stati, sotto pena di morte, per poco non era stata strozzata dai muti del Serraglio, perché sorpresa a fumare lo scibouk.
La terribile donna sorseggiò lentamente il caffè, mentre il capitano d’armi piombava in acqua, con un sinistro tonfo, si fece accendere la pipa e si mise a fumare tranquillamente, come se fosse coricata su una soffice ottomana del suo meraviglioso castello.
Intanto Metiub aveva fatto eseguire rapidamente i suoi ordini. Quando la gagliotta montata da trenta marinai d’Hussiff, si mise alla vela verso Cipro, la galera, dopo aver innalzata sulla maestra la bandiera azzurra per segnalare alle navi del Gran Bascià di seguirla, volse la prora verso ponente.
— A Candia — disse Haradja al suo capitano d’armi, che si era seduto su una colubrina vicina.
— E speri tu di vendicarti del Leone di Damasco e della duchessa italiana? — chiese Metiub scuotendo un po’ la testa. — Farà caldo entrare in quella città contro la quale i nostri, da anni ed anni, si fanno ammazzare allegramente a migliaia e migliaia.
— Perché entrare fra quelle rovine? Non ne avremo bisogno.
— Speri di attirarli fuori?
— Certo.
— Con quale mezzo?
— Hai dimenticato, tu, che ho fatto rapire il figlio del Leone di Damasco? Quando noi giungeremo a Candia lo troveremo fra le mani del Bascià.
— Comincio a capire.
— Vedrai che tutto andrà bene.
— Hum!... Hum!... — fece Metiub, battendo una mano sul pomo del suo spadone.
— Fa’ preparare la cena.
— È già pronta.
— Che si prepari sul ponte. Voglio godermi questo magnifico tramonto.
— Che pare piova sangue — disse Metiub.
— Sarà quello che scorre a Candia.
Lasciò cadere il bocchino del narghilek, si stirò le braccia e balzò, leggera come un uccello, giù dalle due colubrine, avviandosi verso il cassero, dove i due cuochi stavano preparando la cena.
E la galera intanto, sospinta da una leggera brezza di scirocco, s’avanzava verso Candia, seguita a distanza dalle cinquanta navi da guerra della squadra del Gran Bascià.