Il Leone di Damasco/II. Ferocia turca

II. Ferocia turca

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I. La nipote di Alì Bascià III. Il Pascià di Damasco

II.

Ferocia turca


Il capitano d’armi del Pascià, a quella brutale intimazione, ebbe uno scatto di rivolta e alzò minacciosamente la sua pesante scimitarra, mentre colla sinistra impugnava una di quelle lunghe pistole incrostate di madreperla che usavano i turchi dell’Asia Minore e con buon successo.

— Tu non mi hai ancora vinto — disse con voce irata. — Nessuno dei tuoi uomini è ancora salito sulla gagliotta ad abbassare la bandiera del mio signore.

Haradja alzò un braccio ed indicò le cinquanta galere del Gran Bascià in panna a meno di un miglio.

— Passa attraverso quelle, se credi — gli disse. — Noi staremo a guardarti.

— E perché ci fermate, mentre il mio signore è atteso a Costantinopoli dal Sultano?

— Io ed il Gran Bascià lo sappiamo. Ti arrendi?

— Ti ho detto che nessuno dei tuoi uomini è ancora salito sulla mia nave.

— Metiub, salta!... — gridò Haradja.

Il capitano d’armi del castello d’Hussiff varcò la murata della gagliotta a piedi giunti, tenendo alzato il suo spadone.

Il capitano d’armi del Pascià di Damasco, valoroso come tutti i turchi dell’Asia Minore, gli attraversò il passo investendolo furiosamente a gran colpi di scimitarra.

Avrebbe potuto freddarlo d’un colpo con una pistolettata, ma da leale guerriero aveva gettato l’arma da fuoco per impugnare, con la sinistra, un solido yatagan largo tre dita.

Metiub, incalzato vigorosamente, fu costretto ad addossarsi alla murata, avendo ben compreso d’aver dinanzi un avversario da non scherzare. I due equipaggi erano rimasti immobili, cogli archibugi in mano, fumanti nelle micce, pronti a scagliarsi rabbiosamente l’uno addosso all’altro. Haradja, con un piede su una colubrina, assisteva tranquillamente al duello, contando sull’abilità del suo capitano d’armi.

I due uomini, entrambi coperti di ferro e di maglie d’acciaio di fabbrica milanese, le sole che armavano cristiani e miscredenti dell’Europa e dell’Africa, si erano attaccati rabbiosamente, scambiandosi terribili colpi, che strappavano delle grida d’ammirazione ai due equipaggi.

Le loro corazze di quando in quando scrosciavano senza però cedere. I due valorosi mandavano urla selvagge nello scambiarsi quelle terribili botte, urla che facevano sorridere Haradja di compiacenza.

Per quattro o cinque minuti i due capitani tentarono di spaccarsi gli elmetti, non riuscendo a schiodare le corazze, poi quello del Pascià di Damasco, avendo fatto un passo falso, cadde sul ponte con un gran fragore di ferramenta, lasciandosi sfuggire la scimitarra e l’yatagan.

Metiub gli era balzato subito addosso, puntando lo spadone alla gola, alla estremità superiore della corazza.

— Devo ucciderlo? — chiese ad Haradja.

La nipote del Bascià stette un momento silenziosa, poi rispose:

— No: abbiamo da parlarci con quel vinto.

— Alzati!... — disse Metiub al capitano d’armi del Pascià.

Il damaschino d’un balzo fu in piedi, raccolse la scimitarra, la ruppe sull’orlo della murata, poi disse, guardando fissa Haradja:

— Vinto non sono stato che per uno dei tanti incidenti che succedono agli uomini che s’attaccano. Io d’altronde conosco la fama sinistra che gode la nipote del grande ammiraglio. Eccomi!...

Con un salto aveva varcato le due murate ed era caduto a due passi da Haradja.

— Che cosa vuoi ora da me? — chiese, incrociando le braccia, e guardandola sdegnosamente. — La mia vita? Prendila!...

— Voglio solamente sapere dove si trova il tuo padrone — rispose Haradja, la quale, con un rapido sguardo, si era già accertata che i pettini di ferro erano stati fissati ai due alberi, in modo da guardarsi l’un l’altro.

— È nella sua cabina ammalato.

— Che cos’ha?

— Soffre ai piedi.

— Si mangiano troppi polli a Damasco — disse la terribile donna, con ironia. — È vero che sono i migliori.

— Tu non l’hai veduto mangiarli. La sua malattia potrebbe dipendere dalla troppa sabbia che il vento spinge sulla città e che le notti rendono assai umide. Tu sai che il mare non è lontano.

— Ciò non m’interessa. È ben altro ciò che io voglio sapere da te e dovrai parlare.

— Interrogami.

— Prima te, poi il tuo padrone.

— Aspetto.

— Dove andavate?

— A Costantinopoli, chiamati da una lettera del Sultano.

— Ah!... — fece Haradja. — Scritta proprio dal Vizir del Sultano?

— Almeno lo credo — rispose il capitano d’armi del Pascià di Damasco, aggrottando la fronte. — Si sarebbe commesso un infame tradimento per perdere il mio signore?

— Va’ a domandarlo a Costantinopoli.

— Lascia che ci vada.

— Ora no: forse dopo, quando avrai parlato.

— Che cosa vuoi tu dunque sapere?

— Dove si trovano Muley-el-Kadel, figlio del Pascià, e sua moglie, quella famosa Capitan Tempesta.

— Ed a me lo chiedi?

— Tu sei il confidente del tuo padrone e saprai bene dove si trova il Leone di Damasco che da tre anni invano faccio cercare in Italia. So che quella gente felice ha abitato un po’ di tempo a Napoli, dove la cristiana ha molti possedimenti, essendo una duchessa; so che hanno soggiornato a Venezia nel palazzo Loredan, ma quando io stavo per vendicarmi dell’uno e dell’altra, sono scomparsi. Solo il figlio si trova nella Regina delle Lagune, o meglio, vi si trovava, poiché a quest’ora viaggia verso l’Oriente.

— L’hai fatto rapire!... — esclamò il capitano d’armi, impallidendo.

— In mancanza del Leone e di sua moglie, ho preso loro il figlio.

— Che età ha?

— Tre anni, si dice.

— E che cosa vorrebbe fare la nipote del Gran Bascià di quel piccino?

— Ciò non ti riguarda — rispose brutalmente Haradja.

— Ebbene, io non so dove si trova il figlio del mio signore. Sposata la cristiana, egli ha rotto ogni rapporto con suo padre, troppo buon mussulmano per permettere un simile matrimonio.

— A chi vorresti darla da bere? A me? T’inganni, amico. Dove si nascondono quei giaurri maledetti? Voglio saperlo, dovessi strapparti la vita.

— Prendila pure: te l’ho già detto — disse il capitano d’armi del Pascià.

— Non ho nessuna fretta — rispose Haradja, quasi sorridendo. — Tu sai dove il figlio del Pascià si trova, in Italia o in Oriente?

— Io non so nulla, te l’ho già detto.

— Ah, cane!... — urlò Haradja, balzando in piedi. — Cerchi la morte, tu?

— Mio padre è morto combattendo contro i curdi; suo figlio morrà assassinato dai suoi correligionari. La morte d’altronde non ha mai fatto paura al vero guerriero.

— Parlerai?

— Se vuoi sapere che i curdi delle steppe da tempo annoiano i damaschini, te lo posso confermare.

— Che m’importa di quelle tribù selvagge che hanno dato dei fastidi ai sultani?

— Allora ti posso raccontare che a Bassera le galline ingrassano magnificamente dentro le opulente risaie.

— Ah!... Tu osi scherzare colla nipote di Ali Bascià!... — gridò Haradja, con voce sibilante. — Metiub, dov’è Hamed?

— Dietro di te — rispose il capitano d’armi della terribile donna.

Un negro di statura gigantesca, che doveva avere la forza di due robusti uomini uniti, coperto d’un semplice sottanino di seta rossa, adorno di alcuni pezzi di corallo, era bruscamente comparso dietro la nipote del Bascià.

— È pronto il gioco dei boscelli? — chiese Haradja.

— Sì — rispose il negro.

— Impadronisciti di quest’uomo e spoglialo.

Non aveva ancora terminato di parlare che Hamed si era precipitato, con lo slancio d’un leone, addosso al capitano d’armi del Pascià di Damasco, atterrandolo.

La lotta fu disperata, ma brevissima. La forza poderosa del gigantesco negro ebbe ben presto ragione, e tutte le vesti del disgraziato capitano furono stracciate dopo d’aver levata l’armatura di ferro che Metiub non era riuscito a sfondare.

Subito una fune scese fra i due alberi, fornita d’un boscello, e quattro marinai, aiutati dal negro, legarono il capitano alle braccia, alle gambe, e poi sotto alle ascelle, issandolo quindi ad un’altezza di quattro metri.

Di fronte, parte per parte, vi erano i pettini di ferro, lunghi tre piedi, con le punte arcuate, affilatissime, lunghe cinque o sei pollici. Il capitano d’armi del Pascià non aveva mandato nemmeno un grido, e si era lasciato dondolare all’estremità della corda.

— Vuoi parlare? — chiese Haradja, con voce rabbiosa.

— Ti ho detto che io non so nulla.

— Ah!... La vedremo!...

— Tu vuoi la mia vita, lo so, l’ho indovinato: divertiti.

— Se parli io non ti toccherò.

— Non so nulla.

— Fatelo ballare!... Vedremo se quando sentirà i morsi dei pettini, si deciderà a parlare.

— Perderai inutilmente il tuo tempo — rispose il valoroso capitano.

— Lancia, Hamed!... — urlò la nipote di Ali Bascià.

Gli uomini della gagliotta, che fremevano di rabbia, vedendo il loro capitano avventato contro i terribili pettini, puntarono gli archibugi, ma le otto colubrine di tribordo della galera ed i trenta fucilieri li persuasero a frenarsi, per non esporsi ad una strage generale, specialmente con le cinquanta navi da guerra sempre in panna, che pareva non attendessero che un segnale per avanzarsi.

Il gigantesco negro afferrò una corda, mentre i due marinai ne prendevano un’altra, ed il disgraziato capitano d’armi del Pascià si vide lanciato fra i due alberi, in direzione dei pettini.

— Parlerai? — gridò un’ultima volta Haradja.

— Non so nulla — rispose il valoroso.

— Ed allora che il Profeta ti accolga nella sua infinita misericordia.

— Dannata cagna!... Tu assassini un uomo nelle cui vene scorre il tuo medesimo sangue, perché sono turco anch’io!...

— E quanto di quello curdo t’affluisce al cuore? — chiese Haradja sempre ironica.

La risposta fu un grido orribile che fece impallidire tutti i marinai della gagliotta. Hamed, con una strappata più violenta, aveva portato il capitano su uno dei pettini, ed una punta gli aveva squarciato il dorso, in vicinanza della colonna vertebrale.

Il disgraziato rimase un momento sul ferro che doveva avergli attraversato un polmone, poi, sotto lo strappo violento dei due marinai, attraversò di volata la nave, lasciando cadere larghe macchie di sangue. Si udì un altro grido più terribile, più spaventoso.

Il capitano era caduto sull’altro pettine con grande violenza, e due arpioni gli avevano squarciato orrendamente il ventre, uscendogli dietro il dorso per un buon palmo.

Un ruggito di furore si era alzato fra gli uomini della gagliotta, però nessuno aveva cercato di rinnovare il tentativo di rivolta.

Si sapevano perduti, più che vinti.

Se non ci fossero state le cinquanta galere, quei valorosi, poiché tutti i turchi dell’Asia Minore hanno coraggio da vendere, non avrebbero certamente indugiato a tentare una lotta disperata.

Il capitano d’armi era rimasto infisso, tutto rattrappito, perdendo, dai due squarci, sangue ed intestini. Rantolava rabbiosamente e bestemmiava il Profeta ed anche Allah.

La nipote del Bascià lo guardava sempre impassibile. Si sarebbe detto che aveva gettato, sui pettini, un semplice pollo di Bassora anziché un forte guerriero damaschino.

Sui due ponti delle navi regnava un profondo silenzio, rotto solo dai rantoli, sempre più fievoli, del capitano; tutti trattenevano il respiro.

La voce di Haradja lo ruppe bruscamente.

— Metiub — disse, sedendosi su di una colubrina. — Quell’uomo mi annoia coi suoi soffi da pescecane ramponato. Finiscilo con un colpo di fucile.

— Non farmi commettere una tale vigliaccheria padrona — rispose il capitano d’armi del castello d’Hussiff. — Lascialo morire in pace.

— Allora tu sei più crudele di me. La sua agonia potrebbe durare qualche ora senza speranza, ormai, di tornare vivo a Damasco. Le uri del Profeta aspettano sempre sorridendo i forti guerrieri dell’Islam: affrettagli la sua volata lassù.

— Forse hai ragione, — rispose il capitano — ma questo servigio glielo puoi far rendere da Hamed. Io mi batto, ma non assassino.

— Hai udito, Hamed? — disse Haradja, rivolgendosi al negro.

— Sì, padrona.

— Finiscilo.

Il carnefice della galera prese dalle mani d’un marinaio un archibugio, soffiò sulla miccia, si avanzò di alcuni passi, puntò attentamente, poi fece fuoco. Il capitano del Pascià aveva ricevuto la palla nella testa ed era morto sul colpo, senza mandare un sospiro.

— La sua anima è fra le braccia delle uri — disse Haradja. — Quale compenso hanno questi guerrieri, mentre noi donne...

— Vi andrà lassù? — chiese Metiub, con voce beffarda. — Non è morto combattendo contro i giaurri.

— Il Profeta ha il cuore largo.

Il capitano d’armi fece una smorfia e scosse ripetutamente la testa. Sulle due navi regnò un altro lungo silenzio, un silenzio tranquillo da parte dell’equipaggio della galera della terribile nipote del Bascià, pieno invece di fremiti da parte dei damaschini del Pascià, i quali non avevano ancora abbandonate le armi, poi Haradja, volgendosi verso Metiub, gli disse:

— Ti sei addormentato sull’anima del capitano d’armi del Pascià? È vero che era un tuo confratello.

— Che cosa vuoi dire, signora? — chiese il forte turco, mostrandosi assai seccato dei feroci capricci della sua padrona.

— Fa’ deporre le armi a quella gente — disse Haradja, indicando l’equipaggio della gagliotta. — Le micce fumanti che si fabbricano a Damasco sono troppo cattive per tollerarle a lungo. Le cinquanta galere sono là, e non aspettano che una bandiera azzurra attraversata da una riga gialla innalzata sulla maestra della nostra nave per rimettersi al vento, ed allora saranno mille colubrine che raderanno come un pontone la gagliotta.

Quelle parole erano state pronunciate a voce alta, onde i damaschini tutti le potessero udire.

Metiub si avanzò verso la murata e disse, con voce imperiosa, agli uomini del Pascià: — Giù le armi!... La nipote del grande ammiraglio lo vuole.

I damaschini ebbero una lunga esitazione, poi spensero le micce e gettarono sulla tolda i pesanti archibugi, i quali caddero con un gran fragore di ferraccio. Le scimitarre e gli yatagan invece volarono in mare.

— È fatto — disse Metiub ad Haradja.

— Ora va’ a scovarmi il Pascià.

— Che cosa vuoi fare di lui?

— Lo so io e basta.

Il capitano d’armi del castello d’Hussiff chiamò il gigantesco negro e quattro archibugieri e passò sulla gagliotta, scomparendo sotto il quadro dell’alto cassero. Due minuti dopo ritornava, portando fra le robuste braccia un vecchio dalla lunga barba bianca, avvolto in una magnifica coperta di seta damascata.

Era il Pascià di Damasco, il padre del Leone. Il capitano fece accostare due colubrine e depose il vecchio a pochi passi da Haradja. Quantunque dovesse aver varcata già la sessantina, era un uomo d’aspetto imponente, dai lineamenti nobilissimi e ad un tempo energici. I suoi occhi, ancora pieni di fuoco, che tradivano l’antico guerriero, si erano fissati ferocemente in quelli di Haradja.

— Chi sei tu, — chiese, con voce fremente — che osi cannoneggiare la nave che conduce a Costantinopoli il Pascià di Damasco? Non hai veduto la mia bandiera sventolare sulla cima della maestra?

— E tu non hai veduto quella che sventola sulla mia galera? — chiese Haradja. — Guardala.

Il Pascià alzò gli occhi verso la cima della maestra e fece un gesto di stupore ed insieme d’ira.

— La bandiera di Ali Bascià!... — esclamò. — Che cosa vuole da me il grande ammiraglio? Potrebbe occupare meglio il suo tempo dinanzi a Candia.

— Sono io che voglio qualche cosa da te, Pascià.

— Ma chi sei tu?

— La nipote del Bascià.

— La signora del castello d’Hussiff?

— Sì, sono io.

Il Pascià strinse le pugna.

— Lo sapevo che un giorno ti avrei trovata sul mio cammino, perfida donna — gridò. — Sono sfuggito a tre tuoi attentati per farmi lasciare Damasco e catturarmi in mare come hai fatto ora. Che cosa vuoi tu da me? Bada che sono imparentato con Maometto II.

— È morto, e non lascerà le uri del paradiso per venire in tuo soccorso — disse la giovane donna, con voce sarcastica.

— Sono un principe!...

— Quanti principi hanno fatti sparire i sultani!... Ammazzano i loro fratelli prima di salire al trono, e anche i loro figli, quando hanno qualche sospetto o se lo creano.

— E che cosa vuole concludere la castellana d’Hussiff? — chiese il Pascià, con voce ironica.

— Che la nipote del Bascià ti tratterà come un qualunque prigioniero di guerra.

— Me!...

— Te, signore di Damasco.

— Io ho ancora da sapere però per quale motivo tu hai cannoneggiata e poi arrembata la mia gagliotta.

— Ho fatto anche di più: voltati e guarda che cosa pende dall’albero di trinchetto, da quel pettine di ferro.

Il Pascià si era voltato impetuosamente ed aveva mandato un grido d’orrore. Il suo capitano d’armi era sempre appeso ai denti e sanguinava ancora.

— Infame!... — urlò, lanciando fiamme dagli occhi.

— Ti spaventi per così poco, Pascià?

— Infame!...

— Se avesse parlato, quell’uomo sarebbe ancora vivo — disse Haradja, sempre fredda e beffarda.

— Tu hai assassinato un prode!...

— Quando me ne sono accorta era troppo tardi. Come ti dissi, però, la colpa è stata sua. Se mi avesse detto dove si trovano rifugiati tuo figlio Muley-el-Kadel e sua moglie, la duchessa cristiana, che a Famagosta combatteva sotto il nome di Capitan Tempesta, fumerebbe ancora il suo scibouk.

— Ah!... È per questo che tu l’hai ucciso!... — urlò il Pascià.

Haradja, alzò le spalle con fare annoiato, poi disse:

— Ora sarai tu che parlerai.

— Io!...

— Bada!... Siamo in alto mare, ed io posso far affondare la tua gagliotta con tutte le persone che la montano, e ti assicuro che nessuno uscirebbe vivo per recarsi a Costantinopoli a raccontarlo ad Ibrahim, il nostro buon Sultano.

— Sicché tu vorresti dire che se io non parlassi, pur essendo di maggior nobiltà della tua, poiché tuo zio non era altro che un pirata algerino, mi assassineresti come il mio capitano d’armi?

Haradja esitò a lungo a rispondere, poi disse: — Non so: si vedrà!...

— Che cos’è che vorresti sapere da me?

— Dove si trova tuo figlio.

— Perché t’interessa?

Un livido lampo balenò negli occhi della castellana d’Hussiff.

— Non sai dunque che ci eravamo amati? Io sospiravo quel fiero Leone di Damasco, che sotto le mura di Famagosta, faceva stupire i centomila turchi del Vizir Mustafà colle sue prodezze.

— Ne avevo infatti udito vagamente parlare — rispose il Pascià, quasi trascuratamente. — E poi?

— Una principessa cristiana me lo rapì!... — gridò Haradja.

— Ho saputo anche questo.

— Dove si sono rifugiati? Sono tre anni che li faccio cercare per l’Italia, da Napoli a Venezia, e da gente scelta...

— Buona per colpi di pugnale — disse il Pascià, ironicamente.

— E non hanno trovate che le loro tracce nelle due città — proseguì la castellana d’Hussiff, senza rilevare la stoccata del damaschino.

— Dove saranno allora?

— È a te che lo domando. Tu sei il padre del Leone di Damasco, ed il suocero di quella odiata Capitan Tempesta.

Il Pascià si alzò di scatto sulle due colubrine, respingendo la coperta di seta, poi fissandola intensamente, disse:

— Sappi che da quando mio figlio ha rinnegato la religione del Profeta e sposata la cristiana, io più nulla ho saputo del Leone di Damasco.

— Menti!... — urlò Haradja, balzando in piedi, pallidissima. — Tu menti!... Hai d’altronde ragione. È tuo figlio ed hai diritto di difenderlo, ma l’altra è una giaurra, che ha combattuto contro i figli dell’Islam e che molti ne ha uccisi, pur essendo donna, e puoi abbandonarmela. Dove si trova quella donna? Io lo voglio sapere!...

— Se non ho mai avuto notizie di Muley, nemmeno posso averne ricevute della cristiana. Dove sono? Chi lo sa? La duchessa aveva vasti possedimenti nel napoletano e perfino a Negroponte ed a Candia. Viaggeranno attraverso l’Italia, o forse, non sentendosi sicuri, attraverso l’Europa.

— Lasciando il loro figlio a Venezia?

— I nostri compatrioti, oggidì che la guerra infuria ancora, non hanno passo libero nella Regina delle Lagune. Non hanno dimenticato, quei valorosi mercanti, la perdita di tutte le loro colonie, della Morea, di Negroponte e di Cipro, come non hanno scordato i cinquecento loro soldati, caduti vivi nelle mani di Maometto II, che li fece segare tutti per metà.

— Il Sultano era nel suo diritto, e poi era tuo parente — rispose Haradja, ironica.

— Io, turco forse più di quelli che vivono a Costantinopoli, non avrei commessa una così grossa infamia.

— Dovevano fare a meno d’impegnarsi in una guerra, non sapendosi abbastanza forti.

— E ci hanno uccisi sotto le mura delle città di Cipro e di Candia, di Morea, e di Negroponte, meglio che duecentomila guerrieri, e ci hanno distrutto, insieme coi Cavalieri di Malta, più di trecento galere. E non erano pronti per una guerra!... Da dieci anni si assedia Candia per terra e per mare. Che cosa ha fatto il tuo grande zio colle sue cinquecento galere? E che cosa ha fatto Jussuf Pascià?

— Hanno preso la Canea.

— Ma non l’isola intera. Le ossa dei nostri guerrieri si trovano dovunque, dietro a qualunque pietra di quell’isola.

— Tutto ciò non m’interessa — disse Haradja seccata. — Alla guerra si va per ammazzarsi e non già per chiacchierare. Lascia questo discorso, Pascià, e se non vuoi dirmi dove si trova tuo figlio, dimmi dove si nasconde la cristiana.

— Ti ho detto che non lo so — rispose il Pascià, con voce dura.

— Non lo vuoi proprio dire?

— Non so nulla.

— Anche il tuo capitano d’armi diceva così, e si ostinava a confermarlo, e vedi dove è andato a finire, su dei pettini.

— Sicché tu vorresti dire? — chiese il Pascià, aggrottando la fronte e diventando pallido.

Haradja si volse verso il gigantesco negro e gli disse:

— Fa’ portare in coperta due cavalletti, due tavole ed i tuoi rasoi.

— Sì, padrona.

— Che cosa hai detto? — urlò il Pascià.

— Chi sei tu, ora, signore di Damasco? Un vinto e nient’altro...