Il Leone di Damasco/IV. I ruggiti del leone di San Marco
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IV.
I ruggiti del Leone di San Marco
Venezia, che tanti domìni aveva nel Levante, signoreggiando a Negroponte, nella Morea, a Cipro, la splendida isola donatale da Caterina Cornaro che ne aveva portato la corona, come di Candia e in altre isole minori, dopo d’aver fatto tremare, specialmente con le sue flotte, la potenza mussulmana, tenendosi sempre in prima linea in difesa della cristianità, cominciava ad esaurirsi dopo tante sanguinose lotte.
I ruggiti del Leone di San Marco non giungevano ormai che fiochi, e non facevano più paura ai conquistatori mussulmani che avevano sognato, nella loro mente barbara, la conquista dell’intera Europa e la distruzione completa degli stati cristiani.
Il 1600 fu particolarmente terribile per i prodi veneziani che difendevano, con accanimento feroce, non solo i possedimenti, bensì anche la Croce, quantunque non aiutati che dai Cavalieri di Malta, sempre in armi sulle loro galere contro l’odiato mussulmano ed affatto dimenticata dagli altri stati, che tutto avevano da temere dai sultani.
Maometto II, uno di quei giganti della storia, che troppo sono conosciuti perché occorra ricordare le loro opere, piantando la Mezzaluna a Costantinopoli, fu il primo che preparò la rovina della grandezza veneziana nel Levante. Distrutto l’impero di Trebisonda, tenuto dai Comneni, insignoritisi della Crimea, della Bosnia, rivolge i suoi sguardi rapaci verso le colonie veneziane e s’impadronisce della Morea e di Negroponte, passando a fil di spada le guarnigioni veneziane che le difendevano.
Reso audace dalle sue conquiste e credendo Venezia non da tanto da misurarsi con lui, col pretesto che l’acquisto di Costantinopoli gli aveva trasferito la sovranità di tutti i possedimenti bizantini, reclama audacemente il dominio delle Puglie e della Calabria, e le sue flotte, per la prima volta, fanno sventolare, alle brezze dell’Ionio, la bandiera della Mezzaluna, e nel 1480 espugna Otranto mettendola a sacco fra indicibili orrori.
Un altro Maometto, il quarto, raccoglie l’eredità del terzo che suona guerra a Venezia ed a tutta la cristianità, e quantunque l’impero non fosse più possente come prima, lancia le sue flotte nel Mediterraneo e perfino dentro l’Adriatico a tentare la conquista della Dalmazia, ove i veneziani avevano fiorenti colonie.
Il Leone di San Marco, quantunque a sua volta, stremato dalle lunghe guerre, lancia il suo poderoso ruggito, e le galere veneziane, comandate dall’ammiraglio Mocenigo, nel 1656 non solo ricacciano i nemici dall’Adriatico, ma, fiere della loro fortuna, forzano audacemente i Dardanelli, occupano Tenedo, Samotracia e Lemuro, e si mostrano in vista di Costantinopoli minacciando il blocco.
Le armi di Maometto si rivolsero, intanto che le sue flotte si ricostruivano, alle conquiste terrestri.
Assale i principi di Transilvania e si rende padrone di quel regno; a Grosvaradina batte i tedesco-ungheri, poi porta le sue armi vittoriose perfino nel cuore della Russia, mentre i suoi eterni nemici, i veneziani, a Milo gli distruggono la maggior parte della flotta.
Riprende allora la guerra terrestre, alla testa dei suoi invincibili giannizzeri, e intima la guerra all’Austria, ma un generale italiano, il conte Montecuccoli, comandante delle forze tedesche, rompe presso il villaggio di San Gottardo, in Ungheria, i terribili conquistatori, salvando l’Europa da una invasione turca.
Maometto, firmata la pace di Vasvar, che gli dava un aumento di territori in Ungheria, ripensa ai veneziani.
Le sue flotte sono state rinnovate, il suo esercito è vittorioso, e getta centomila uomini sull’isola di Cipro e trecento galere agli ordini di Ali Bascià. I veneziani resistono tenacemente a Nicosia, ma soprattutto a Famagosta, sui cui bastioni, sempre diroccati dalle colubrine e dalle mine e sempre rinnovati, per undici mesi combattono con un valore che fa stupire tutto il mondo cristiano, ma che non lo fa però muovere.
Malgrado i tentativi di Sebastiano Veniero, il grande e vecchio ammiraglio veneziano, di portare truppe, polveri, armi e viveri alla disgraziata città ridotta ormai ad un cimitero, Famagosta si arrende a Mustafà con la promessa di avere salve le vite, l’onore e le ricchezze.
Il turco, esacerbato di aver veduto cadere intorno ai bastioni della infelice città più di trentamila dei suoi guerrieri, manca vigliaccamente alla parola, sicuro dell’impunità, e se risparmia parte della popolazione, fa passare a filo di spada gli ultimi veneziani, poi s’impadronisce dei loro comandanti.
Fa strozzare Marcantonio Quirini, impiccare all’antenna d’una galera il settantenne Lorenzo Tiepolo, tagliare a pezzi Astorre Baglione e l’albanese Manoli Spiloto, ma riserba al supremo comandante della piazza, l’eroico Marcantonio Bragadino, un trattamento veramente degno della ferocia turca.
Gli fa tagliare il naso e gli orecchi, lo fa assistere al supplizio dei suoi disgraziati compagni, poi, per undici giorni, così conciato, lo fa trascinare per le vie della città per far divertire i giannizzeri, quindi, legatolo ad una pertica bilanciata, lo fa rinvigorire facendogli fare dei tuffi in mare, e finalmente, al dodicesimo, quel cane di mussulmano, fa scorticare interamente l’eroico difensore di Famagosta, chiedendogli, fra le risate delle truppe, come mai il suo Cristo non gli venga in aiuto in quel difficile momento.
L’eroe, nello spasimo atroce dell’orribile supplizio, bisbigliava sereno il Miserere!...
Incoraggiati dal successo, i turchi mettono gli occhi sull’isola di Candia, ultima colonia veneziana che mostrava ancora, nel Levante, il Leone di San Marco. Era sultano allora Ibrahim, uno dei più prodighi che abbiano occupato il trono dei califfi, e così insaziabile incettatore di belle schiave per popolare il Serraglio che, narrano con orrore i cronisti ottomani, il prezzo di quelle salì alla enorme cifra di duemila piastre a testa.
Aveva sposato sette sultane, ciascuna delle quali possedeva i redditi di una provincia, galere, barche e portantine fregiate di gemme di gran valore. La conquista di Candia fu causata da una donna, poiché quel Sultano, che si faceva portare in lettiga attraverso i giardini e gli appartamenti del Serraglio, non avrebbe mai sognato forse di misurarsi coi veneziani, che tanto avevano dato da fare a Maometto II.
Aveva ricevuto in regalo una bellissima schiava, acquistata da un funzionario del suo palazzo, ma già quasi madre per opera, pare, d’un principe georgiano. Nato il fanciullo, la schiava fu incaricata di allattare il principino Mohammed, nato da una favorita del Sultano, nella medesima epoca.
Non si sa per quale stranezza, il Sultano aveva preso ad amare più il figlio della schiava che il proprio, sollevando grandi ire nel Serraglio. Quella ingiusta predilezione, il favore che godeva la bellissima nutrice, quasi innalzata al grado di favorita, e le alte cariche assegnate al funzionario che l’aveva regalata, non dovevano tardare a provocare grossi disordini.
Un giorno, mentre Ibrahim passeggiava nei giardini del Serraglio in compagnia della nutrice e del figlio di costei a cui prodigava delle affettuose carezze, s’incontra con la sua favorita, la quale teneva in braccio il principino Mohammed. Furibonda la favorita si slancia contro il Sultano, e gli mette fra le braccia il figlio, gridandogli:
— Ecco il solo che ha diritto al vostro amore ed alle vostre carezze.
Ibrahim, in fondo, non era meno crudele di tutti gli altri sultani che avevano regnato prima di lui. Invece di abbracciare il proprio figlio, lo afferra per i piedi, corre ad una cisterna vicina e ve lo lascia cadere dentro, e non sarebbe certamente più uscito vivo di là senza il pronto accorrere degli eunuchi e delle guardie, che lo trassero in salvo.
Dopo quella scena, la nutrice, comprendendo ormai che la sua vita è in pericolo, malgrado la protezione del Sultano, domanda di intraprendere un pellegrinaggio alla Mecca insieme al funzionario, il quale non si sentiva del pari sicuro di salutare il sole dell’indomani.
Ibrahim, molto a malincuore però, poiché si era affezionato stranamente al figlio della schiava, accordò loro il permesso, dopo promessa di tornare presto, e diede alcune galere per scortarli.
Nelle acque dell’arcipelago i Cavalieri di Malta, i fidi alleati dei veneziani, e sempre in lotta con la Mezzaluna, assaltano la flotta, ammazzano il funzionario e la maggior parte degli equipaggi, e fanno prigioniera la bellissima schiava ed il suo bambino.
Credendo dapprima di aver catturato il figlio del Sultano, l’erede dell’impero turco, lo trattano con grandi riguardi, e lo conducono a Candia insieme alla madre, affidandoli ai veneziani.
Conosciuto l’errore, i cavalieri lo reclamano, e lo fanno educare nella fede cristiana destinandolo allo stato ecclesiastico, e quel personaggio passa attraverso la storia col nome di Padre Ottomano, creduto da tutti, in buona fede, un figlio d’Ibrahim.
La vittoria dei prodi Cavalieri di Malta, e soprattutto la prigionia della schiava, eccitano prima lo sdegno, poi il furore del Sultano, il quale decide di punire i veneziani che avevano accolto nei loro porti i vincitori.
Una formidabile squadra, composta di oltre quattrocento vele e montata da centomila uomini, il 30 aprile del 1645, salpa da Costantinopoli, e dopo una difficile traversata, getta le ancore dinanzi alla Canea, che era una delle maggiori città dell’isola.
I veneziani, colti di sorpresa, corrono coraggiosamente alle difese, e comincia così quella feroce guerra che doveva durare un quarto di secolo, seminando i campi del paese di Minosse di migliaia e migliaia di veneziani, di cretesi e di turchi soprattutto.
Il presidio di Canea, poco numeroso, dopo poche settimane cede al grande impeto delle forze ottomane, e tosto la sua cattedrale e le sue due chiese sono tramutate in moschee. Alla fine di luglio, Venezia manda i primi soccorsi, ma giungono troppo tardi.
La piazza era già caduta, ed a Costantinopoli si celebrava, con grandi feste, quella prima conquista. Per un anno Jussuf Pascià, conduttore delle forze mussulmane, armeggia nell’interno dell’isola con varia fortuna, poi, disperando di espugnare Candia, già ben fortificata dai veneziani, torna a Costantinopoli per ottenere nuove galere e nuove truppe.
Il Sultano, indignato, vuole costringerlo a ripartire, tacciandolo di pusillanime, e siccome l’ammiraglio si rifiutava ostinatamente, immemore dei preziosi servizi avuti, lo fa strozzare. Nel frattempo una squadra veneziana occupa Patrasso, facendo prigionieri cinquemila turchi e condannandoli alle galere del remo, per vendicare i cinquecento compatrioti, fatti segare vivi da Maometto II. Ibrahim, sempre più furente, ordina il massacro generale di tutti i cristiani stabiliti nel suo impero, sentenza che, se avesse avuto corso, nella sola Costantinopoli sarebbe costata la vita a duecentomila persone fra greci ed armeni. L’energia dei suoi ministri, i quali temevano la guerra contro tutta la cristianità, evita quell’orribile macello, ma la guerra intanto si riaccende, più feroce che mai, a Candia.
Ali Bascià, il famoso ammiraglio, sostituito al disgraziato Jussuf, nel 1646 fa prendere d’assalto Retimo ed altre piazzeforti cretesi, e poi si arresta dinanzi a Candia, capitale dell’isola, che trentamila veneziani e diecimila cretesi difendono strenuamente, decisi a farsi seppellire sotto le rovine della città, piuttosto che arrendersi, memori delle orribili stragi di Famagosta.
Venezia, stremata, soprattutto finanziariamente, pur di accorrere in aiuto della sua ultima colonia ed armare nuove galere, sacrifica la sua famosa catena d’oro zecchino, che veniva conservata nel tesoro di San Marco, e che formava l’orgoglio del popolo e l’invidia degli altri stati.
Era tanto lunga e tanto pesante che occorrevano quaranta robusti facchini per portarla. Serviva, quella catena, alla Repubblica Veneta a due scopi: come tesoro di guerra e da previdente risparmio pei casi improvvisi di pubblico bisogno, ed in pari tempo per fare pompa di ricchezza nelle grandi solennità.
In quelle occasioni la preziosa catena veniva appesa a festoni lungo il porticato del Palazzo Ducale del quale adornava due interi lati, uno verso la riva degli Schiavoni e l’altro verso la piazzetta. Candia la fuse e la divorò tutta con grande rammarico del popolo veneziano.
E la guerra continuò sempre più accanita, intorno alla disgraziata città. I turchi, terminate le opere preparatorie, aprono, nei primi del 1648, le prime trincee, mentre le loro navi si misurano, con varia fortuna, su tutte le coste dell’isola, per trattenere le flotte veneziane condotte dal settantaduenne Sebastiano Veniero, e respingere i continui attacchi dei Cavalieri di Malta.
Una spedizione di giannizzeri costringe il comandante turco a sospendere l’assedio, il quale però viene ripreso con maggior accanimento alcuni mesi dopo, e rinvigorito colla costruzione di due nuovi forti.
Nel frattempo, l’indolente ed effeminato Sultano Ibrahim cade assassinato, vittima d’una delle solite congiure di palazzo, e gli succede Maometto IV ancora fanciullo. Si credette per un momento che la guerra dovesse cessare, ma la madre del nuovo Sultano, apprendendo che in una battaglia navale ottocento mussulmani erano stati uccisi dai veneziani, i quali però ne avevano perduti ben tremila dei loro, invia ad Ali nuove navi e nuove truppe.
Le sorti della guerra ridiventano favorevoli ai turchi sul mare, non così in terra, dove perdono inutilmente migliaia e migliaia di guerrieri per conquistare pochi villaggi nell’interno dell’isola.
Candia, quantunque stretta in un cerchio di ferro, che non permetteva ormai più alle galere veneziane di riprovvederla d’armi, di munizioni e di viveri, resisteva sempre con indomito coraggio.
La popolazione era morta quasi tutta di fame, e dei trentamila difensori non ne rimanevano che poche migliaia, affranti dal lungo battagliare, indeboliti dalle malattie e dal cibo insufficiente.
Nel 1666 i turchi, che avevano già perduto, intorno ai bastioni della valorosa città, circa centomila uomini, decidono di fare un ultimo tentativo. Un Gran Vizir viene mandato da Costantinopoli affinché prenda personalmente il comando delle forze assedianti.
Nel maggio, poiché l’inverno era stato pessimo, i mussulmani danno l’attacco ai forti interni della piazza a furia di mine. In tre mesi ventimila quintali di polvere venivano consumati dagli assedianti.
Le mine erano così poderose, che saltavano delle intere compagnie di assediati. Nel 1669 Candia, ridotta ormai ad un vasto cimitero, con soli quattromila guerrieri incapaci di difendere i bastioni sventrati dalle mine, agonizzava, ma la cristianità preparava al turco feroce una terribile lezione che doveva ricevere in altre acque.
Due giorni dopo, la galera di Haradja, sempre scortata dalla grossa squadra, giungeva verso il tramonto dinanzi a Candia, il cui porto era ingombro di navi mussulmane. Era allora il primo anno che la città sosteneva l’assedio, e ribatteva con vigore terribile gli assalti degli ottomani, spegnendone a migliaia dentro i fossati dei bastioni. Nel momento in cui la galera di Haradja giungeva in porto colla scorta, tutta Candia era coperta da una immensa nuvola di fumo che la rendeva invisibile.
Sfolgoravano le colubrine turche e quelle dei veneziani, con un rimbombo spaventevole, e tuonavano le mine per aprire, dopo dodici mesi, da parte degli assedianti, le prime trincee che avevano già inzuppato col sangue di ventimila uomini.
Metiub, praticissimo del porto, condusse la galera attraverso le numerose navi da guerra che appoggiavano, con frequenti cannonate, gli sforzi dei giannizzeri, ed abbordò la grossa galera di Ali Bascià, dicendo alla sua signora non senza una punta d’ironia:
— Sei in casa tua!...
Il Gran Bascià, già avvertito dell’arrivo della castellana d’Hussiff, aveva dato ordine ai suoi cuochi di ritardare di qualche ora la cena, e si era mosso sollecitamente incontro alla terribile nipote, che già saliva, accompagnata dal fedele capitano d’armi, la scala di corda, più lesta di un gabbiere.
Il famoso ammiraglio, che doveva perdere la sua testa nella grandiosa battaglia di Lepanto, aveva allora cinquant’anni. Di origine algerina, aveva la pelle assai bruna, la barba molto rada, la statura piuttosto piccola quantunque ben robusta.
Aveva dato ai veneziani terribili battaglie nelle acque di Cipro, dell’Arcipelago, dell’Ionio ed intorno a Candia, ricevendo sconfitte ma anche dandone. I pescicani del Mediterraneo orientale non avevano avuto da lagnarsi, poiché più di ventimila uomini fra turchi, veneziani e Cavalieri di Malta erano affondati colle loro galere.
Vedendo Haradja comparire sopra la murata, le offrì galantemente la mano, dicendole:
— Il figlio del Leone è in mia mano.
— Non l’hai scorticato? — chiese la castellana d’Hussiff, ridendo.
— Chi ha potuto supporre questo?
— Il mio capitano d’armi.
— Al tuo posto l’avrei già gettato ai pescicani.
— È troppo prezioso, Bascià — rispose Haradja, dopo essersi assicurata che Metiub si era unito all’equipaggio e che non poteva udirla. — Dov’è il ragazzo?
— In una mia cabina. Ed il Pascià di Damasco?
— Nei sotterranei d’Hussiff.
— Sei terribile, nipote.
— Degna d’un Ali Bascià.
Un sorriso di soddisfazione comparve sulle labbra del grande ammiraglio ottomano.
— Si parla infatti molto di te.
— Il fanciullo?
— Vuoi vederlo?
— Subito — disse Haradja, quasi con prepotenza. — Quando te l’hanno consegnato gli uomini che ho mandato a Venezia a rapirlo?
— Due giorni fa.
— Come hanno fatto a rapirlo?
— Sono entrati in Venezia fingendosi epiroti.
— E nessuno li ha disturbati?
— Nessuno, poiché hanno potuto portarlo via dal palazzo che tu avevi loro indicato.
— Senza uccidere nessuno?
— Oh!... La nutrice del bambino, o meglio la sua sorvegliante, poiché non ha più bisogno di latte il piccino.
— Fammelo vedere.
— Che furia!...
— Non ho sangue freddo io come l’hanno gli ammiragli.
— Puoi avere ragione — rispose il Bascià. — Vieni, Haradja.
Attraversarono la parte poppiera della grossa galera, passando accanto a Metiub il quale già cenava con una bureke, una specie di pane sfogliato intinto nel grasso, e pieno di quel formaggio acido e puzzolente pel quale i turchi vanno ghiotti, e scesero nel quadro, ampio, ricchissimo e già illuminato.
— È qui — disse il Bascià, aprendo la porta d’una cabina. — Deve dormire: non svegliarlo.
Entrarono in una minuscola stanzetta illuminata da una lampada ad olio con campana di vetro opaco per attenuare la luce, e su di un lettuccio, coperto di una leggera trapunta di seta gialla, Haradja potè scorgere il figlio dei suoi odiati nemici.
Con una mossa rapida si era avvicinata, anzi, così impetuosa, che per un momento il Bascià temette qualche scatto troppo violento da parte della sua crudele nipote.
— Guardati — le disse. — Veglio io su questo piccolo prigioniero.
Haradja alzò la trapunta e apparve un fanciullo di circa tre anni, roseo e paffuto, con dei lunghi riccioli bruni, anzi opachi, coperto d’una camicia di seta bianca adorna di pizzi di Murano.
— Bello e bene sviluppato, è vero? — disse il Bascià. — È figlio di un eroe mussulmano e di una terribile donna cristiana. Peccato che il Leone non abbia sposato te.
— Taci, zio — disse Haradja, la quale fissava il fanciullo con due occhi pregni d’odio.
— Non potrai dire che non sia bello. Il sangue mussulmano fuso col cristiano dà sovente dei buoni frutti. Noi e loro, d’altronde, siamo razze guerriere. Hai finito di guardarlo, nipote?
Haradja si era alzata di colpo lasciando ricadere bruscamente la coperta, come se avesse cercato, con quell’atto, di svegliare il fanciullo, incrociò le braccia, e fissando il Bascià gli disse:
— Si direbbe che tu non odii questo piccolo prigioniero, come tu lo hai chiamato.
— Niente affatto — rispose il grande ammiraglio. — Forse che nelle sue vene non scorre sangue ottomano?
— Misto al cristiano!...
— Sia pure, ma anche quello datogli da sua madre valeva meglio di tutto quello che scorre fra le cinquecento donne del Serraglio, solamente intente ad assassinarsi fra di loro, a meditare congiure di palazzo ed uccidere sultani.
— Capitan Tempesta, o meglio la guerriera cristiana, ti avrebbe per caso colpito? — chiese Haradja, ironicamente.
— L’ho ammirata quando, pur essendo donna, si batteva gagliardamente e vinceva il suo futuro marito, che godeva la fama di essere la prima scimitarra dell’esercito mussulmano assediante Famagosta — rispose il grande ammiraglio.
— Andiamo a cenare. Discorreremo meglio.