Il Filostrato/Parte ottava
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IL
FILOSTRATO
DI GIOVANNI BOCCACCI
PARTE OTTAVA
ARGOMENTO
I.
Egli era, com’è detto, a sofferire
Già adusato, e più nel fece forte
L’alto dolor, da non poter mai dire,
Che ’l padre, ed egli e’ fratei per la morte
Ebber d’Ettor, nel cui sovrano ardire
E le fortezze, e le mura e le porte
Credean di Troia, il qual lunga stagione
Gli tenne in pianto ed in tribolazione.
II.
Ma non per ciò amor si dipartia,
Come ch’assai mancasse la speranza;
Anzi cercava in ogni modo e via,
Come suol’esser degli amanti usanza,
Di potere riaver qual solea pria
La dolce sua ed unica intendanza;
Lei del non ritornar sempre scusando,
Per non poter ciò esser estimando.
III.
Ei le mandò più lettere, scrivendo
Quel che sentia per lei la notte e ’l giorno;
E ’l dolce tempo a mente riducendo,
E la fede promessa del ritorno:
Spesse fïate ancora riprendendo
Cortesemente il suo lungo soggiorno
Mandovvi Pandar, qualora tra essi
O tregue o patti alcun furon concessi.
IV.
E simigliante egli ebbe nel pensiero
Ancor più volte di volervi andare
Di pellegrino in abito leggiero;
Ma sì non si sapeva contraffare
Che gli paresse assai cuoprire il vero;
Nè scusa degna sapeva trovare
Da dir, se stato fosse conosciuto,
In abito cotanto disparuto.
V.
Nè altro aveva da lei che parole
Belle, e promesse grandi senza effetto:
Onde a presumer cominciò che fole
Erano tutte, ed a prender sospetto
Di ciò che era ver, siccome suole
Spesso avvenire a chi senza difetto
Riguarda in fra le cose c’ha per mano,
Perchè non fu il suo sospetto vano.
VI.
E ben conobbe che novello amore
Era cagion di tante e tai bugie;
Seco affermando che giammai nel core
Nè paterne lusinghe mai nè pie
Carezze avuto avrien tanto valore;
Nè gli era luogo a veder per quai vie
Più s’accertasse di ciò che mostrato
Già gli aveva il suo sogno sventurato.
VII.
Al quale amor raccorciata la fede
Aveva molto, siccom’egli avviene,
Che colui ch’ama mal volentier crede
Cosa che cresca amando le sue pene;
Ma che pur fosse ver di Diomede,
Come pria sospettò, fè ne gli fene
Non molto poi un caso, che gli tolse
Ciascuna scusa, ed a crederlo il volse.
VIII.
Stavasi Troilo non senza tormento
Del suo amore timido e sospeso;
Quand’egli udì, dopo un combattimento
Tra li Troiani e’ Greci assai disteso
Fatto, con uno ornato vestimento,
A Diomede gravemente offeso
Tratto, tornar Deifebo pomposo
Di cotal preda, e seco assai gioioso.
IX.
E mentre che portarlosi davanti
Facea per Troia, Troilo sopravvenne,
E molto il commendò fra tutti quanti,
E per vederlo meglio alquanto il tenne:
E mentre e’ rimirava, gli occhi erranti
Or qua or la d’intorno a tutto, avvenne
Che esso vide nel petto un fermaglio
D’oro, lì posto forse per fibbiaglio:
X.
Il quale esso conobbe incontanente,
Siccome quei che l’aveva donato
A Griseida, allora che dolente
Partendosi da lei prese comiato
Quella mattina, che ultimamente
Era la notte con lei dimorato;
Laonde disse: or veggio pur ch’è vero
Il sogno, il mio sospetto, ed il pensiero.
XI.
Quindi partito Troilo, chiamare
Pandar si fe’, il quale a lui venuto,
Si cominciò con pianto a rammarcare
Del lungo amore il quale aveva avuto
A Griseida sua, e a dimostrare
Aperto il tradimento ricevuto
Gli cominciò, dolendosene forte,
Sol per ristoro chiedendo la morte.
XII.
E cominciò così piangendo a dire:
O Griseida mia, dov’è la fede,
Dove l’amore, dove ora ’l desire,
Dove la tanto gradita mercede
Data da te a me nel tuo partire?
Ogni cosa possiede Diomede,
Ed io, che più t’amai, per lo tuo inganno
Rimaso sono in pianto ed in affanno.
XIII.
Chi crederà omai a nessun giuro,
Chi ad amor, chi a femmina omai,
Ben riguardando il tuo falso spergiuro?
Oimè che io non so, nè pensai mai
Che tanto avessi il cuor rigido e duro,
Che per altro uom io t’uscissi giammai
Dell’animo, che più che me t’amava,
Ed ingannato sempre t’aspettava.
XIV.
Or non avevi tu altro gioiello
Da poter dare al tuo novello amante,
Io dico a Diomede, se non quello
Ch’io t’avea dato con lagrime tante,
In rimembranza di me cattivello,
Mentre con Calcas fossi dimorante?
Null’altro far tel fe’ se non dispetto,
E per mostrar ben chiaro il tuo intelletto
XV.
Del tutto veggio che m’hai discacciato
Del petto tuo, ed io contra mia voglia
Nel mio ancora tengo effigïato
Il tuo bel viso con noiosa doglia:
O lasso me, che ’n malora fui nato,
Questo pensier m’uccide e mi dispoglia
D’ogni speranza di futura gioia,
E cagion émmi d’angoscia e di noia.
XVI.
Tu m’hai cacciato a torto della mente,
Laddov’io dimorar sempre credea,
E nel mio luogo hai posto falsamente
Diomede; ma per Venere dea
Ti giuro, tosto ten farò dolente
Colla mia spada alla prima mislea,
Se egli avviene ch’io ’l possa trovare,
Purchè con forza il possa soprastare:
XVII.
O el m’ucciderà, e fieti caro;
Ma spero pur la divina giustizia
Rispetto avrà al mio dolore amaro,
E similmente alla tua gran nequizia.
O sommo Giove, in cui certo riparo
So c’ha ragione, e da cui tutta inizia
L’alta virtù per cui si vive e muove,
Son li giusti occhi tuoi rivolti altrove?
XVIII.
Che fanno le tue folgori ferventi,
Riposan elle? O più gli occhi non tieni
Volti a’ difetti dell’umane genti?
O vero lume, o lucidi sereni,
Pe’ quai s’allegran le terrene menti,
Togliete via colei nelli cui seni
Bugie e inganni e tradimenti sono,
Nè più la fate degna di perdono.
XIX.
O Pandar mio, che ne’ sogni aver fede
M’hai biasimato con cotanta istanza,
Or puoi veder ciò che per lor si vede,
La tua Griseida te ne fa certanza:
Hanno gl’iddii di noi mortai mercede,
Ed in diverse guise dimostranza
Ci fan di quello, ch’è a noi ignoto,
Per nostro bene spesse volte noto.
XX.
E questo è l’un de’ modi, che dormendo
Talor si mostra, io me ne sono accorto
Molte fïate già mente tenendo;
Or vorre’ io allora essermi morto,
Dappoi che per innanzi non attendo
Sollazzo, gioia, piacer nè diporto;
Ma per lo tuo consiglio vo’ indugiarmi,
A morir co’ nemici miei coll’armi.
XXI.
Mandimi Iddio Diomede davanti
La prima volta ch’esco alla battaglia!
Questo disio tra li miei guai cotanti,
Sì ch’io provar gli faccia come taglia
La spada mia, e lui morir con pianti
Nel campo faccia, e poi non me ne caglia
Che mi s’uccida, sol ch’e’ muoia, e lui
Misero trovi nelli regni bui.
XXII.
Pandaro con dolor tutto ascoltava,
E ’l ver sentendo, non sapea che dirsi:
E da una parte a star quivi il tirava
Dell’amico l’amor, d’altra a partirsi
Vergogna spesse volte lo invitava
Pel fallo di Griseida, e spedirsi
Qual far dovesse seco non sapea,
E l’uno e l’altro forte gli dolea.
XXIII.
Alla fine così disse piangendo:
Troilo: non so che mi ti debba dire:
Lei quanto posso tanto più riprendo
Siccome di’, e del suo gran fallire
Nïuna scusa avanti far n’intendo,
Nè mai dov’ella sia più voler gire;
Ciò ch’io fe’ già il feci per tuo amore,
Lasciando addietro ciascuno mio onore.
XXIV.
E s’io ti piacqui, assai m’è grazïoso:
Di quel ch’or fassi altro non posso fare,
E come tu così ne son cruccioso;
E s’io vedessi il modo d’ammendare,
Abbi per certo io ne sarei studioso:
Faccialo Iddio, che può tutto voltare,
Pregolo quanto posso ch’el punisca
Lei, sì che più ’n tal guisa non fallisca.
XXV.
Grandi furo i lamenti e ’l rammarchio,
Ma pur fortuna suo corso facea;
Colei amava con tutto il disio
Diomede, e Troilo piangea;
Diomede si lodava d’Iddio,
E Troilo per contrario si dolea;
Nelle battaglie Troilo sempre entrava,
E più che altri Diomede cercava.
XXVI.
E spesse volte assieme s’avvisaro
Con rimproveri cattivi e villani,
E di gran colpi fra lor si donaro,
Talvolta urtando, e talor nelle mani
Le spade avendo, vendendosi caro
Insieme molto il loro amor non sani:
Ma non avea la fortuna disposto,
Che l’un dell’altro fornisse il proposto.
XXVII.
L’ira di Troilo in tempi diversi
A’ Greci nocque molto senza fallo,
Tanto che pochi ne gli uscieno avversi
Che non cacciasse morti da cavallo,
Solo che l’attendesser, sì perversi
Colpi donava; e dopo lungo stallo,
Avendone già morti più di mille,
Miseramente un dì l’uccise Achille.
XXVIII.
Cotal fine ebbe il mal concetto amore
Di Troilo in Griseida, e cotale
Fin’ ebbe il miserabile dolore
Di lui, al qual non fu mai altro eguale;
Cotal fin’ ebbe il lucido splendore
Che lui servava al solïo reale;
Cotal fin’ ebbe la speranza vana
Di Troilo in Griseida villana.
XXIX.
O giovanetti, ne’ quai coll’etate
Surgendo vien l’amoroso disio,
Per Dio vi prego che voi raffreniate
I pronti passi all’appetito rio,
E nell’amor di Troilo vi specchiate,
Il qual dimostra suso il verso mio,
Perchè se ben col cuor gli leggerete,
Non di leggieri a tutte crederete.
XXX.
Giovane donna è mobile, e vogliosa
È negli amanti molti, e sua bellezza
Estima più ch’allo specchio, e pomposa
Ha vanagloria di sua giovinezza;
La qual quanto piacevole e vezzosa
È più, cotanto più seco l’apprezza;
Virtù non sente nè conoscimento,
Volubil sempre come foglia al vento.
XXXI.
E molte ancor perchè d’alto lignaggio
Discese sono, e sanno annoverare
Gli avoli lor, si credon che vantaggio
Deggiano aver dall’altre nell’amare;
E pensan che costume sia oltraggio,
Torcere il naso e dispettose andare;
Queste schifate, ed abbiatele a vili,
Che bestie son, non son donne gentili.
XXXII.
Perfetta donna ha più fermo disire
D’essere amata, e d’amar si diletta;
Discerne e vede ciò ch’è da fuggire,
Lascia ed elegge, provvede ed aspetta
Le promission; queste son da seguire:
Ma non si vuol però scegliere in fretta,
Che non son tutte saggie, perchè sieno
Più attempate, e quelle vaglion meno.
XXXIII.
Dunque siate avveduti, e compassione
Di Troilo e di voi insiememente
Abbiate, e fia ben fatto: ed orazione
Per lui fate ad amor pietosamente,
Ch’el posi in pace in quella regïone
Dov’el dimora, ed a voi dolcemente
Conceda grazia sì d’amare accorti,
Che per ria donna alfin non siate morti.