Il Conte Nulin
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IL CONTE NULIN.
Presto! Presto! I corni rimbombano; i bracchieri in gran gala stanno in sella sin dall’alba; i levrieri saltellano nei guinzagli. Il signore s’avanza sul verone, colle mani puntellate ai fianchi; esamina ogni cosa, e una amabile serietà gli splende sul volto. Ha indosso un soprabito tartaro, un coltello turco a cintola, una boccetta di rum ad armacollo, e un corno appeso a una catena di bronzo. Sua moglie, colla scuffia da notte in capo, con un semplice fazzoletto sulle spalle, tutta sonnacchiosa e indispettita, osserva dalla finestra quella turba d’uomini e di cani. Arriva il cavallo del padrone. Questi impugna la criniera, inforca gli arcioni, e grida alla consorte: “Non m’aspettare!” E tosto sprona, e via.
Negli ultimi giorni di settembre (per parlare come si parla in prosa) la campagna è noiosa; piove, fa della mota, tira vento, neviscola, e i lupi ululano intorno alle ville. Ma questo appunto è ciò che piace al cacciatore! Sdegna egli le mollezze della vita; lancia il corsiero nelle vaste campagne; cangia ogni sera soggiorno; bestemmiando, inzuppandosi, e mangiando a più non posso, insegue le fiere e ne fa orrenda strage.
Ma che sarà della signora, durante l’assenza del marito? Non le mancano le faccende. Salare i funghi, pascere le oche, ordinare il pranzo e la cena, sorvegliare la cantina e il granaio. L’occhio della padrona è necessario in ogni dove; vede bene e vede tutto.
Sventuratamente, la nostra eroina.... (Ah che mi sono scordato di dirvi il suo nome! Suo marito la chiamava Taliuccia; noi la chiameremo Natalia Pavlovna.) Natalía Pavlovna dunque non s’intendeva punto dei suoi interessi domestici, per la ragione che era stata educata, non già nella casa paterna, ma in una pensione nobile diretta da una emigrata francese, madama Falbalà.
Sta a sedere innanzi alla finestra; sul tavolino giace aperto il quarto volume d’un romanzo sentimentale intitolato: Amours d’Elisa et d’Armand ou La correspondance de deux familles; romanzo classico, antico, lungo, lungo, lungo, morale, decente e scevro di sottigliezze romantiche.
Natalia Pavlovna cominciò a leggerlo con attenzione; ma, frastornata dalla zuffa d’un becco con un cane, s’affacciò alla grata per mirar la giostra. I monelli di strada si smascellavan dalle risa; le tacchine dell’orto incalzavano, stridendo, un gallo fradicio; tre anatre sguazzavano in una pozzanghera; una vecchia attraversava il cortile fangoso per andare a stendere la biancheria nel chiuso; il cielo s’annuvolava; pareva che volesse nevicare.... tutto a un tratto s’udì in lontananza un tintinnío di sonagli.
Chi ha vissuto un pezzo in una villa isolata, sa per esperienza quanto il distante squillo dei sonagli esalta il cuore e la immaginazione. Forse sarà qualche amico attardato, qualche compagno della nostra gioventù.... Forse sarà dessa?... Dio mio!... s’accosta, s’accosta.... Il cuore ci balza in petto. Il rumore s’appressa sempre più... ma ohimè! già s’indebolisce, si dilegua e svanisce dietro il monte.
Natalia Pavlovna vola al balcone. Quella musica la rallegra; guarda e scorge una calescia che corre accanto al mulino al di là del fiume.... ora passa il ponte.... vien da lei senza dubbio.... no.... svolta a sinistra. — Natalía la segue cogli occhi, e quasi piange dal dolore. Ma di subito.... oh che fortuna! Nello scender la china, la calescia ribalta.
“Filippo, Basilio! Ehi di casa! Presto! è ribaltata una calescia! Conducetela qua, e invitate a pranzo il viaggiatore.... ma sarà vivo?... andate a domandarne.... presto, presto!”
Il servitore parte. Natalía Pavlovna accomoda in fretta i suoi ricci, si getta uno scialle in dosso, tira le cortine, spinge una sedia, e aspetta: quanto le converrà aspettare? Finalmente arrivano; arrivano finalmente. Impillaccherato dalla melletta della strada, tristo e mezzo sciancato, s’avanza l’equipaggio. Segue il signore zoppicando. Il cameriere francese non si sgomenta; va ripetendo: allons! courage! Salgono sul verone; entrano nel vestibolo. Mentre il cameriere Picard brontola, e si adira; mentre il signore introdotto a porte spalancate in una stanza separata, s’occupa della sua toelette; domanderete forse chi è costui? Egli è il conte Nulin che torna dall’estero, ove dissipò in pazzie e in mode tutte le sue rendite future. Ora, onusto di fracchi, di gilè, di cappelli, di ventagli, di mantelli, di fascette, di spille, di bottoni da camicia, di occhialini, di foular, di calze ricamate a giorno, egli si trasporta a Pietroburgo per farvisi vedere come un animal curioso. Ha inoltre nei suoi bauli un libro serio di monsieur Guizot, un album di pessime caricature, un nuovo romanzo di Walter Scott, la raccolta dei bons mots della corte di Francia, le ultime canzoni di Béranger, gli ultimi componimenti di Rossini e di Paer, ec. ec. ec.
Già la tavola è apparecchiata; è battuta l’ora di pranzo; la padrona aspetta con impazienza; l’uscio s’apre; il conte comparisce. Natalía Pavlovna si alza a metà e chiede garbatamente come egli sta di salute e come sta la sua gamba.... Il conte risponde: “Non sarà nulla.”
Siedono a mensa. — Egli avvicina la sua posata a quella di Natalia; appiccano conversazione. Il conte impreca alla santa Russia; non comprende che uno possa vivere fra quelle nevi eterne. Sospira e anela Parigi. — “Che si recita di bello al teatro?” — “Il teatro è orfano.... c’est bien mauvais; ça fail pitié. Talma divien sordo e scade; Mademoiselle Mars, oimè, invecchia. In ricompensa, c’è Potier, le grand Potier! Solo questo cantante mantiene la sua antica riputazione.” — “Quali sono gli scrittori di moda? — “Sempre D’Arlincourt e Lamartine.” — “Hanno imitatori anche presso di noi.” — “Dite davvero? Poffar di bacco! L’ingegno incomincia a svilupparsi anche in Russia. Piaccia a Dio che alla fine c’inciviliamo!” — “Come si portano i busti?” — “Molto bassi.... quasi sino al.... ecco, fin qui.... Permetta ch’io esamini il di lei vestiario.... appunto così.... ruches, nastri; questo è proprio un modello; tutto insomma mi par assai conforme alle ultime mode.” — “Ce le mandano per il telegrafo.” — “Vuol’ella sentire un grazioso vaudeville?”
E il conte si mette a canterellare.
“Ma, conte, voi non mangiate.” — “Son sazio.” — “Se così è....”
Sorgono da tavola. La giovine padrona è straordinariamente allegra. Il conte si dimentica di Parigi, e ammira la di lei leggiadria. Passano la serata in festa e in riso. Il conte non cape in sè dal diletto. Lo sguardo della signora esprime la benevolenza, e talora si china a terra fiso e languido. Sta per suonar mezza notte; i servi russano da gran tempo nell’anticamera; il gallo ha già strillato più volte; la guardia notturna picchia sulla lastra di ferro;1 le candele consumate stanno per estinguersi. Natalia Pavlovna si rizza.
― “È tardi,” sclama; “i letti son pronti. Riposi bene....” Il galante conte, mezzo innamorato, si leva a malincuore, e bacia la mano della sua gentile ostessa. Ma che vedo? Ove non trascorre la civetteria delle donne? L’incantatrice, Dio le perdoni, ha dato una lieve stretta di mano a Nulin.
Natalia Pavlovna è spogliata; sta davanti a lei la sua cameriera Prascovia. Amici cari, la detta Prascovia è la confidente dei capricci di Natalía; cuce, lava, porta le ambasciate, chiede in regalo i vestiti usati, di quando in quando fa ridere il padrone, e qualche volta lo sgrida, e mènte con impudenza in faccia alla padrona. Adesso discorre gravemente del conte, delle sue faccende; conosce appuntino ogni suo negozio. Dio sa come ha potuto istruirsene! Finalmente la padrona le impone silenzio: “Chètati, tu mi secchi!” Domanda la camiciola e la scuffia da notte; s’insinua nel letto e manda via la cameriera.
Frattanto Picard spoglia il conte. Il conte si corca e chiede un sigaro. Monsieur Picard glielo arreca, e al tempo stesso una boccia d’acqua, una tazza d’argento, una bugia di bronzo, uno smoccolatoio a molla, uno svegliarino, e un romanzo non ancor tagliato.
Nulin dà una scorsa alle pagine di Walter Scott. Ma il suo pensiero è altrove. Una atroce cura lo martira; egli dice fra sè: “Sono io forse innamorato? Possibile?... Che caso strano! Sarebbe! bella davvero... Pare ch’io non dispiaccia alla signora di queste soglie....” E così meditando smorzò il lume.
Un caldo insoffribile lo assale; non dorme; e il diavolo neppure, il quale gli suscita in testa mille idee incongrue. Il nostro focoso protagonista si rappresenta al vivo lo sguardo significante della padrona; quella statura rotondetta e grassoccia, quella voce soave veramente femminile, quel volto, quelle carnagioni cui la sanità rende più fresche del rossetto. Si rimembra il gentil tocco della punta di quel piedino; si ricorda esattamente che Natalía gli ha stretta la mano con quella sua manina negligente. È uno stolido; doveva rimanere con lei e cogliere il momento opportuno. Ma non è ancora troppo tardi, la porta sta sempre aperta, senza dubbio. Così divisando, indossa una guarnacca di seta a più colori, rovescia una seggiola in mezzo al buio, e, colla speranza di ottenere il suo desire, si dirige, nuovo Tarquinio, verso quella Lucrezia, pronto ad ogni incontro.
Così talvolta un gatto astuto, smorfioso favorito delle serve, si pone in agguato presso al focolare; s’inoltra bel bello, furtivamente, socchiude le palpebre, ruzza colla coda, sguaina gli artigli, e a un tratto acchiappa l’infelice sorcio.
L’innamorato conte s’aggira nelle tenebre, e si fa strada brancolando; oppresso dall’ansia del cuore, può appena trarre il fiato, e trepida quando ode il tavolato scricchiolargli sotto ai piedi. Giunge alle bramate mura, volta la maniglia d’ottone della toppa, e l’uscio pian pianino cede. Egli getta un’occhiata nella camera: la fiamma della lampada mezzo estinta diffonde un fioco bagliore nell’alcova. La padrona riposa placidamente o finge di riposare.
Egli entra, fruga, torna addietro, e finalmente si butta in ginocchioni. Essa.... Ora, con suo permesso, prego le signore di San Pietroburgo d’imaginarsi che spavento provò al destarsi la nostra Natalía Pavlovna, e di decidere che cosa conveniva che facesse.
Spalancando i suoi grandi occhi, essa mira il conte; il nostro eroe esterna con calore la sua passione, e già la sua mano audace preme quella della dama.... Essa allora riprende coraggio; accesa d’un generoso sdegno, ripiena di pudica superbia, e forse anche, vo’ credere, di paura, balza dal letto, e vi brando il braccio, dà a Tarquinio uno schiaffo; sì, uno schiaffo, e che schiaffo!
Rosso di vergogna e fremente di rabbia, il conte inghiotte quell’oltraggio. Non so come sarebbe andata a finire la faccenda, se il cane barbetto che si mise a guaire non avesse svegliato Prascovia. Il conte, sentendola venire, dà le gambe a imbelle fuga, maledicendo la sua dimora in quella casa e i capricci delle donne.
Come Natalía, Prascovia e Nulin passassero il resto di quella notte, pensalo tu, lettore, se il puoi; io non intendo aiutarti a figurartelo.
La mattina seguente, il conte s’alza in silenzio, si veste svogliatamente, si mette, sbadigliando, a limar le sue unghie color di rosa, s’annoda con negligenza la cravatta, e non si liscia gli inanellati capelli colla spazzola inumidita. A che egli pensi, io non so; ma ora lo invitano a prendere il tè. Che fare? Il conte, comprimendo la stizza della sua balordaggine e il suo secreto furore, esce dalla stanza.
La giovine civetta abbassando gli occhi beffardi, e mordendosi le labbra di cinabro, parla con modestia di cose indifferenti. Confuso a prima giunta, poco a poco rianimandosi, il conte risponde sorridendo. Era appena un’ora che stavano insieme, e già il conte scherzava con disinvoltura, e si sentiva di bel nuovo innamorato, quando s’udì uno strepito nel vestibolo. Qualcheduno è entrato. Chi sarà mai?
“Taliuccia, bene alzata.” — “Chi vedo! Conte, ecco mio marito. Mio caro, il conte Nulin.” " — “Me ne rallegro assai. Che tempo scellerato! Ho veduto la vostra calescia bell’e pronta dal fabbro. Taliuccia! abbiamo inseguito una lepre bigia nei boschi vicini. Ehi! acquavite. Conte, vi prego d’assaggiarla; vien di lontano. Rimarrete a pranzo con noi.” — “Grazie, non posso; ho fretta di partire.” — “Conte, io ve ne supplico. Mia moglie ed io ve ne saremo grati. Ci siamo intesi; voi restate.”
Il conte però, stizzito e disperato, s’ostina a voler andarsene. Picard, che si è ristorato le forze con un buon sorso di vino, si lagna di dover di nuovo ripor la roba. Già due servitori attaccano i bauli sulla imperiale. Tutto è in ordine; la calescia è introdotta nel cortile, e il conte parte....
Questa storiella potrebbe finir qui, amici miei, ma aggiungerò due parolette.
Quando fu sparito l’equipaggio, la signora narrò al marito tutto l’accaduto, e scrisse l’impresa del conte a tutti i di lei conoscenti. Ma chi fu quello che più ne rise con Natalía Pavlovna? Voi non lo indovinereste giammai. — Forse lo sposo? — Oibỏ. Non fu lo sposo. S’adirò fortemente; disse che il conte era un matto, uno sguaiato, e che lo caccerebbe a furia di cani come una lepre.
Colui che più ne rise, fu un vicinante di Natalía, un giovinotto di ventitre anni, nominato Lidin.
Ora, amici cari, chi ardirà sostenere che al secol nostro, una donna fedele al consorte non sia prodigio?
Note
- ↑ V’è nei villaggi russi un ispettore che percorre le strade di notte picchiando sopra delle lastre di ferro.