Il Baretti - Anno II, n. 5/Gozzano
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GOZZANO
La Casa Treves ha pubblicata una edizione definitiva delle poesie di Guido Gozzano (G. G., I primi e gli ultimi colloqui), una edizione, nella quale, alle poesie della prima edizione postuma, pubblicata anche dal Treves (I colloqui) sono aggiunte altre escluse arbitrariamente da quella e che erano comparse nella raccolta La via del rifugio (Torino, Streglio), che ebbe tre ristampe tra il 1906 e il '907 ed è ora quasi introvabile. Ho detto che la esclusione era stata arbitraria: se non altro per la prima di quelle poesie, che dava il titolo alla raccolta, e che è troppo caratteristica della psicologia e dell'arte gozziana perchè fosse abbandonata in una edizione esaurita.
I fedeli di Guido Gozzano e in genere tutti coloro, che s'interessano alle vicende della poesia italiana al principio del secolo, saluteranno dunque con piacere la comparsa di questa edizione definitiva. Scorrendo questo volume ci è dato di ricostruire intera la figura del poeta. Il nuovo esame non conduce a sorprese o a nuove scoperte, ma probabilmente rende i contorni più precisi.
Si è voluto vedere troppo o troppo poco in Guido Gozzano. Si sono cercate derivazioni straniere di lunga portata — e non erano che risonanze e non più; si sono cercati anche motivi psicologici estremamente complicati. Che i giovani poeti sbocciati nei primi anni di questo secolo, ai quali fu dato l'epiteto di crepuscolari, avessero in comune una sprecata tendenza al cerebralismo non c'è dubbio; ma prima di dare un giudizio generale bisogna assodare quanto di quel cerebralismo sia passato nella loro arte e quanto sia rimasto alle soglie di essa, senza aver preso corpo, come semplice portato di una moda letteraria.
Di questo bisogna tener conto per formarsi un concetto adeguato dell’arte del Gozzano, poiché quell'arte, se la si vuol vedere nelle sue espressioni perfette, è composta di pochi elementi giunti a maturazione, per toccare i quali bisogna passare attraverso un maggior numero di elementi rimasti incompiuti e confusi, che soggiacevano quasi tutti alle varie influenze letterarie del tempo o degli anni di poco precedenti.
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Nelle tristi giornate del settembre 1864 Torino era portata a ribellarsi dall'elementare istinto di conservazione, che le faceva indovinare come, nelle condizioni storiche in cui il fatto si verificava, il trasferimento della capitale significava per essa ben più che un’abdicazione politico-burocratica. Da allora per circa un ventennio, e soprattutto nei dieci anni tra il 1865 e il '75, Torino entra in una zona d'ombra, dalla quale esce prima lentamente, poi con lunghi passi per effetto del suo trasformarsi in un grande centro industriale e di transito internazionale
Questo però non provocò una trasformazione rapida e radicale della fisionomia del paese: anzi il carattere lento, massiccio e misoneista della popolazione reagì con tutte le forze ataviche, e finì, con uno strano accomodamento, per dare alle nuove forme di vita, alle nuove e necessarie abitudini un posto accanto agli usi, alle abitudini della vecchia casa patrizia o borghese.
Così nel suo aspetto architettonico la città s'ingrandì e si rinnovò, squadrandosi sempre più sotto l’influsso dei piani stradali parigini del Secondo impero: e ciò non pertanto è rimasta rinchiusa nel perimetro delle vecchie mura, non più esistenti eppure idealmente riconoscibilissime; e i monumenti del primo rigoglio della monarchia, non imponenti, ma vivaci, riescono a comporsi in una certa armonia coi nuovi aspetti, per la loro stessa grazia insieme discreta e movimentata. Cosi egualmente nella vita e nella cultura piemontese, e torinese, in ispecie, lo sviluppo industriale moderno e le numerose influenze straniere di passaggio non hanno intaccato il fondo tradizionale, paesano, quale si venne modellando sotto i primi re piemontesi, con un certo fasto casalingo di piccola nobiltà militare ed ecclesiastica, che, a poche miglia dalla campagna avita, non ha occasione ne desiderio di obliarsi in corte. Vita mediocre e tuttavia sostenuta in un fasto meditato: quanto bastava per conservare le prerogative familiari. Il barocchetto del tardo Seicento e del primo Settecento divenne quindi lo stile trionfante, e sopravvive oggi, adattandosi e insieme adeguando a sé le forme nuove; ma non è meno vero — quantunque forse meno appariscente — che il barocchismo è rimasto trionfante nella cultura più prettamente torinese: cioè un seicentismo della seconda maniera, non quella rutilante, ma quella arguta e in minore del «concettismo». I due temperamenti maschi e violenti, che avrebbero potuto imprimere un’altra direzione al corso della poesia piemontese: Baretti e Alfieri, furono costretti ad allontanarsi dal paese ed esercitarono la loro influenza in modo più potente in altre parti d’Italia, e in Piemonte di riflesso ed eccezionalmente. Invece le numerose influenze della mondanità francese del Secondo impero dettero nuovo alimento al concettismo barocco dell’arte piemontese, aggiungendo un nuovo elemento esotico.
Per questa ragione, poterono acclimarsi perfettamente e diventare piemontesi di adozione, esercitando una notevole influenza, scrittori come il De Amicis e il Graf, ligure l’uno, cosmopolita l’altro, entrambi artisti di quadretti e di bozzetti, fini, socievoli, sorridenti — anche se con melanconia: tristezze tenui che si possono portare in società e conferiscono alla fisionomia del poeta. Chi voglia farsi un’idea di quello clic sia la concezione poetica tradizionale piemontese rispetto a quella maturata tra la Lombardia e la Toscana sotto l’influenza opposta del ribelle Alfieri non dimentichi La partita a scacchi del Giacosa — vero fiore di serra piemontese — e i disdegni e il disprezzo dell’alfieriano Carducci pel «confettiere» Giacosa per «Edmondo dai languori».
Va ricordato però che anche l’arte piemontese tra la fine dell’800 e i primi del ’900 ha sentito qualche eco del travaglio spirituale, che turbava il pensiero europeo, ed anch’essa ha avuto qualche ora di raccoglimento, ed anche di dramma spirituale, che cogliamo in anime solitarie, insoddisfatte, come il Bistolfi e il Camerana, vaganti fin dalla prima giovinezza fuori dell’orbita intellettuale piemontese e assorbiti in uno slancio verso l’infinito, che pel Camerana divenne un tragico richiamo.
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In quest’aria di tradizionale roccocò artistico e di leggerezza mondana — parte stanca, parte inquieta, desiderosa di novità e insieme turbata, come da cattivi pronostici di un avvenire incerto — spunta e sboccia l’arte del giovane Gozzano.
Il fondo primitivo è quello del giovane poeta mondano, secondo la tradizione letteraria torinese. A quella tradizione il poeta torna con sincera nostalgia fin negli ultimi tempi. La poesia Torino, che è tra le ultime scritte, ritorna, si può dire, al punto di partenza dell’arte gozziana:
Quante volte tra i fiori, in terre gaie |
Il poeta, ritornando con desiderio alle cose più amate in una esistenza, che si sentiva sfuggire inesorabilmente, fa un involontario ricapitolamento dei principali motivi della sua arte.
Il primo, più spontaneo, quello che ha respirato fin dall’adolescenza, « da Palazzo Madama al Valentino», è il motivo torinese, della città mezzo tradizionale e mezzo moderna, mezzo provinciale e mezzo parigina, mezzo austera e mezzo frivola. Questo motivo iniziale, direi quasi istintivo, gli è caro più d’ogni altro, perchè gli dà un bagno di semplicità, di naturalezza (In te ritrovo me stesso bambino......E mi sei cara come la fantesca — che m’ha veduto nascere, o Torino »), le quali sono troppo rapidamente svanite sotto l’influenza della Torino letteraria, cioè della Torino roccocò, e per conseguenza cerebrale, concettista.
Sotto questa seconda influenza i motivi naturalistici scolorano oppure tendono a confondersi in un tentativo di ricostruzione di una Torino stilizzata, tipo 1850: ricostruzione naturalmente cerebrale («Come una stampa antica bavarese»); ma che era stata assorbita anch’essa però dall’ambiente artistico e mondano torinese.
A questi elementi sostanziali e primitivi si erano aggiunti e tendevano a crescere, col declinare della prima giovinezza e con lo sfiorire troppo rapido della salute, alcuni motivi psicologici, che in parte erano eco d’influenze straniere o del Graf o del Camerana. Non potrei precisare per quanta parte gli fossero noti i versi di quest’ultimo (la raccolta completa, postuma, delle poesie del C. usci nel 1907, quasi insieme con La Via del rifugio, presso il medesimo edit. Streglio), ma non è difficile fare qualche raccostamento. Si veda, p. es., il sonetto del Camerana Quercia:
Colossal quercia, o dietro la foresta le ciglia d’oro il plenilunio accampi |
e si veda come questo motivo è stato sviluppato sapientemente dal Gozzano, nell’Amica di nonna Speranza:
Romantica luna, fra un nimbo leggiero che (baci le chiome |
Il presentimento di una morte precoce produce istanti di profondo scoramento o di incubo, e talvolta tenta di far salire tutta la poesia del Gozzano ad un significato quasi leopardiano di dolore immanente e di vanità delle cose umane. Sono voci sparse, che si possono raccogliere qua e là, o che talvolta sono addirittura sottintese. Nella Via del rifugio quel sentimento è mescolato con un lieve sorriso d’ironia:
A che destino ignoto si soffre? Va dispersa |
Ma altrove il pensiero della morte raggela ogni tentativo d’ironia nel poeta, se sopravviene l’idea che la morte lo raggiungerà prima che egli abbia mai conosciuto l’amore (Convito):
Fino alla tomba il tuo gelido cuore porterai con la tua sete fanciulla |
Ed ancora, in Torino, guardando indietro con desolazione alla breve vita:
L’infanzia remotissima... la scuola la pubertà... la giovinezza accesa..... |
In questi tentativi fugaci di dare alla sua arte un significato più profondo e quasi filosofico il Gozzano s’ingannava. La musa del Gozzano non era stata nè sdegnosa nè taciturna, anzi precoce e socievole, ed era stata perfettamente comprensibile e compresa in quello che era riuscito a dire compiutamente. Il resto non era riuscito a dirlo, tanto vero che nei versi precedenti ad un certo momento rinunzia da sè stesso alla parola («Il tedio che non ha parola»). Leopardi aveva trovate le parole acconce.
Questi motivi posteriori tendevano ad intrecciarsi coi primi, esagerandone il carattere eminentemente letterario e cerebrale. Erano in buona parte elementi del decadentismo francese, i quali s’impossessarono del gusto del poeta — in un primo tempo borghese e provinciale — per le cose vecchie, casalinghe («le cose buone di pessimo gusto») e finirono per generare una propensione, una preferenza quasi morbosa per le cose non belle, non fresche, non giovani; e quindi per le persone, e in ispecie per le donne. Il tipo, oramai consacrato nello stile gozzoniano, è, come si sa, la signorina Felicita, «quasi brutta, priva di lusinga», nelle sue vesti «quasi cnmpagnuole», dalla «faccia buona e casalinga»; ma che è ammessa all’attenzione del poeta, perchè riscontra «un tipo di beltà fiamminga», e clic il poeta si compiace, a freddo, di fare innamorare, pel gusto di immaginare tutta una vita provinciale, che potrebbe fare con lei, ma che sa bene che non farà.
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Analizzati gli elementi essenziali dell’arte del Gozzano, possiamo tracciare rapidamente la loro genesi.
L’elemento naturalistico, semplice, fanciullesco, è travolto da tutti gli altri elementi letterari sopravvenuti precocemente. Spunta qua e là, subito soffocato o falsato. Si veda la poesia, caratteristica a questo riguardo, intitolata Elogio degli amori ancillari.
Nulla di più naturalistico che i facili baci colti sulla bocca di una cameriera. Parrebbe che in una ribellione per la vita letteraria il poeta amasse obliarsi nel piacere di una vita meno che semplice, elementare. Ma ecco che vien fuori il vero motivo psicologico:
M’accende il riso della bocca fresca ...... |
Torna dunque anche qui la vita letteraria. La conquista della servetta piace sopratutto perchè suggerisce una visione boccaccesca.
Paolo e Virginia e La Signorina Felicita sono in bilico sullo stesso piano mobile di una ambiguità artistica non risoluta. Nella prima il poeta si sente per un momento in immaginazione il giovanetto Paolo dell’immortale candido libro di Bernardino di Saint Pierre; ma è un momento fugace d’illusione. La realtà gli rende di nuovo il suo cuore ghiacciato d’ogni giorno:
Ahi se potessi amare! Ah se potessi amare, canterei si novamente |
Nella Signorina Felicita il poeta, più scaltrito e più egoista, sente già il peso della precoce vecchiezza, che è nella Via del rifugio, e non può più illudersi di essere l’ingenuo giovinetto Paolo; ma s’illude di bere a nuove fonti di vita, avvicinando la ragazza ingenua, una Virginia provincialotta. E’ un altro sforzo per un ritorno alla vita naturale, come quello che abbiamo visto accennato nell’Elogio degli amori ancillari; ma anche qui cade presto di fronte alla realtà del carattere irrimediabilmente artificioso del poeta, che mentre da principio tentava d’ingannare sè stesso, alla fine si accorge bene che non ama e tuttavia continua ad ingannare la ragazza, per un crudele esperimento poetico, per assoggettare la inconscia felicità al camuffamento fantastico in ragazza romantica tipo 1850. Il giorno dell’addio la povera ragazza, col cuore gonfio, scrive la data sul muro. E il poeta dal cuore di ghiaccio:
Io non sorrisi. L’animo godette quel romantico gesto d’educanda. |
E giunse finalmente il momento del distacco, « distacco d’altri tempi », e:
M’apparisti così come in un cantico dei Prati, lagrimante l’abbandono |
Quest’ultimo verso è la chiave e insieme la maledizione di questo gruppo di poesie del Gozzano. Egli si sforza di fingere come uomo e come poeta, perchè gli pare che quello che è meno bello. Ma viceversa è troppo presente in lui la preoccupazione di recitare la parte, perchè la poesia possa sgorgare limpida. E tanto meno ci convince quando si rifugia in considerazioni astratte. Il Miserere di Paolo e Virginia e certe interrogazioni rettoriche della Felicita («Giova guarire? Giova che si viva? ecc.) sono le cose meno belle dei due componimenti.
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C’era da temere che per questa via il Gozzano, malgrado i graziosi tratti di poesia sparsi qua e là, si sarebbe inaridito in un arte eccessivamente di maniera, eccessivamente torinese, nel senso che ho detto più sopra. Per fortuna sorse l’ispirazione dalla stessa crisi del suo cerebralismo. A furia di amare le cose vecchie, le donne vecchie, finanche sè stesso più vecchio (il piacere della vecchiaia a venticinque anni!); a furia di pensare la vita come un romanzo vissuto da un altro («un bel romanzo che non fu vissuto - da me»...), di vedere la bellezza nell’irreale e anche nel fittizio e nel falso («le vecchie stampe — artifiziose, belle più del vero»); a furia di negare la vita vissuta per la vita fantasticata, l’oggi per l’ieri, egli fini per sentirsi nè di oggi nè di ieri, e la visione che continuamente prospettava su di uno schermo immaginario, col ripetersi «lei gioco all’infinito, si scoloriva e, peggio, s’imbruttiva, assimilandosi alla visione, che aveva di sè stesso davanti allo specchio. E’ la maledizione che persegue tutte le forme di cerebralismo.
Allora egli fu assalito da un sentimento, che non aveva provato ancora. Egli aveva cercato di foggiarsi la vita una volta per sempre in un bel panorama, come in una delle vecchie stampe, che tanto gli piacevano, e di guardarsela questa vita fantastica con il gusto del collezionista appassionato, tanto da obliare completamente la vita in atto:
(Socchiudo gli occhi, estranio ai casi della vita |
Ora cominciava ad accorgersi che di tutte le illusioni quella era la maggiore; sentiva anche dentro di sé il fluire del tempo, che tutto muta e tutto rapisce, anche le creature della nostra immaginazione. Ed allora, come altri resta percosso per la perdita di una persona cara, egli fu percosso per non poter possedere interamente ed eternamente le creature della propria immaginazione, così come una volta gli avevano sorriso. Non meno delle donne vive, che egli non sapeva amare, anche le immagini del passato, suoi desiderati rifugi, si scoprivano enigmatiche e sfuggenti dalla vita dell’amatore immaginario. Spuntò allora, vero fiore della poesia del Gozzano, il senso della nostalgia, che sgorga dall’unico sentimento reale e profondo, che lo abbia scosso nella breve, arida esistenza.
Dallo stato d’indifferenza volontaria, di cui s’era fatto un programma di vita, racchiuso nel ritornello della Via del rifugio
(Socchiusi gli occhi, sto supino nel trifoglio |
il poeta passa ad uno stato di languido rimpianto per la raggiunta coscienza che il passato è inafferrabile e lui è oramai impotente a cogliere il presente. I due simboli di questo nuovo stato d’animo, riscaldati di vera e intima poesia, sono la fotografia sbiadita della giovanissima Carlotta, l’Amica di nonna Speranza, con la data: « 28 giugno 1850 », e la fuga in bicicletta della viva adolescente Graziella, che non ha detto una parola al poeta e non ha lenito con uno sguardo la sua schiacciante malinconia (Le due strade)
.... « Fu taciturna, amore, per te, come il Dolore...» — « O la Felicità »... |
In queste due poesie, alla confusione precedente di motivi eterogenei e per lo più filtrati attraverso ricordi letterari, succede una discriminazione, che rende limpida e dà una fisionomia propria alla poesia del Gozzano. Questa è una fisionomia profondamente sconsolata. Il sorriso del « torinese » mondano si sforza invano di distendere le rughe di una precoce vecchiezza. Il poeta tenta ancora di foggiarsi la vita secondo le lusinghe della fantasia; ma questa volta la vita reale gli è dappresso e gli soffia un vento gelato sulla faccia.
Nel guardare la vecchia fotografia sbiadita di Carlotta gli pare di rinascere: (« Rinasco, rinasco nel mille ottocento cinquanta! »). Ma, ahimè! è un sogno di pochi minuti, e il poeta questa volta ne ha coscienza:
Ma te non rivedo nel fiore, amica di Nonna! (Ove sei |
Nelle Due strade il giovane legato alla pesante «catena antica» di un amore per una donna «da troppo tempo bella», è sconvolto dall’apparizione della vergine sul primo fiore. Ma il suo fantasticare è inutile: a quel fiore non gli sarà dato di stendere la mano. Egli resterà legato fatalmente all’antica catena umiliante. Adolfo moderno, non meno egoista, ma meno coraggioso.
In queste poesie l’arte del Gozzano prendeva significato e diventava veramente lirica, cioè da statica e schematica che era prendeva vita e movimento per un profondo contrasto spirituale.
Ahimè! quella voce aveva appena acquistato tono che fu soffocata per sempre!
Mario Vinciguerra.