Il Baretti - Anno II, n. 5/Tendenze letterarie
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TENDENZE LETTERARIE
La realizzazione del «grottesco».
Una nuova vita — nuova, più che nella sua genericità, nel suo atteggiarsi, svolgersi e sintetizzarsi — era venuta su dalla guerra. I giovani erano rimasti presi da un insegnamento in un primo tempo di fede, ma che poi — a contatto con la realtà — si mutò in qualche cosa di ironico, di scettico, di sarcastico: in odio alle volgarità della vita, c’è stato un tuffo nelle fantasticherie e nel sogno. Il fiorire di favole, avventure, grotteschi, confessioni si deve, evidentemente, a questi atteggiamenti determinanti stati d’animo molteplici: la vita, ecco, appare come qualche cosa di più dello shakesperiano «racconto raccontato da un idiota pieno di sonno e di vento e che significa nulla».
Quindi il sorgere del teatro, che sommariamente fu detto «grottesco», è indice di un movimento di evoluzione, sincero anche perchè sincrono ad altri paesi uscenti dalla guerra: in Germania abbiamo avuto gli espresionisti, in Francia Jan Sarment e Fernand Crommelynck, per la Russia basta citare Leonida Andreieff.
Nel «grottesco» abbiamo una maschera e un volto, un’apparenza e una consistenza: c’è un’azione i cui gesti e i cui atti sono più o meno comuni; ma al di là di quest’azione (dovuta alla maschera) c’è un rigoglio, dapprima latente e poi patente, di sentimenti tragici e contraditori (dovuti al volto). La visione ironica della vita nel suo sdoppiamento tra maschera e volto, apparire ed essere (in questo abbiamo la netta distinzione del «grottesco» dal teatro romantico) porta a procedimenti e a risultati che sono frutto di spiriti i quali hanno visto scosso il loro sentimentalesco gaglio. Il rilevato misticismo, in questo caotico stato di cose, è una superfetazione necessariamente precaria: uno scetticismo idealistico viene a infiltrarsi nelle anime più travagliate.
L’allegria, la buffoneria e la goffagine sono apparenti: nel fondo c’è la tragedia; ma una tragedia nuova perchè creata da fatti nuovi ed espressa da anime che — come dice Silvio D’Amico — imprimono alle loro manifestazioni una caratteristica comune: «una tendenza marionettistica» alla concentrazione in poche e marcatissime smorfie d’una sognata quintessenza del comico e del tragico umano». Sicché gli uomini vengono marionettizzati c le marionette umanizzate; però i più fantocci di Jacinto Benavente — quando sono stati spesso citati in proposito — hanno più vita degli uomini del «teatro grottesco».
Ma — a parte Benavente — quando si è voluta trovare una paternità al «grottesco» s’è citato Shaw per la tecnica, Andreieff per la tragica impossibilità di afferrare il vero senso della vita e la vera essenza del Pensiero, Lothar per il ghigno e per il sarcasmo, Molnar per la sarcastica caricatura del romanticismo... Richiami che dicono poco, che non indicano una decisa derivazione e che non giustificano lo sbocco del movimento.
La verità potrebbe essere questa: il nuovo spirito aveva ereditato varie soluzioni dei problemi inerenti alle funzioni essenziali della vita; questa eredità lasciava tutti scontenti — quindi ecco sorgere la necessità di ricercare soluzioni più profonde e rispondenti comunque ai nuovi orientamenti. Le ricerche portano a una posizione continua di dubbio. Dubbio non cartesiano ma renouveriano; e cioè: ognora presente all’anima nostra: anche nei voli più superbamente idealistici.
Ma esiste — accanto al problema genericamente spirituale — la necessità di una soluzione estetica; necessità che con Chiarelli. Antonelli, Cavacchioli, Veneziani ed altri, non trova soddisfazione. Se Adriano Tilgher avesse pensato a ciò non avrebbe consigliato agli scrittori drammatici del dopoguerra un bagno di filosofia.
Perchè appunto nel «teatro grottesco» c’è bisogno di spogliarsi delle ideologie più o meno originali, o meglio di soggiogare e dominare queste ideologie per arrivare a una logica, che sia al di là della comune logica; ma che sia drammatica, lirica, insomma estetica — quindi ricca di una nuova logica che è la logica estetica.
Data la difficoltà di questo compito specifico, niente di strano se tutti gli scrittori «grotteschi» abbian lottato invano: infatti abbiamo avuto appena in alcuni una parziale attuazione; magari degna di nota, ma non effettivamente risolutiva.
Comunque non è il caso di parlare di un esaurimento del «grottesco». Hanno fondamentalmente torto coloro che — come Luigi Tonelli, Marco Praga, Lorenza Gigli, ecc. — hanno creduto all’esaurimento, cioè al fallimento, di questo tentativo. E’ stato più evidente Silvio D’Amico quando si è limitato a constatare la sua disillusione riguardo alla prima fase del «teatro grottesco» e a rimanere in fiduciosa aspettativa per ciò che questo squillo di rivolta ideale poteva portare seco. Nel 1920 D’Amico non poteva dire di più: certo diversamente dovevano essere valutati, da un canto gli sforzi e le conquiste di Luigi Pirandello, dall’altro gli sforzi e le attuazioni liriche di Rosso di San Secondo (per limitarci a due che, col rinnovamento teatrale hanno immediate attinenze).
E’ il caso d’insistere su questo: il difetto massimo della prima fase del «teatro grottesco» sta nella mania di voler troppo teorizzare, di voler fare troppo filosofia; senza che questa trovi il suo traguardo estetico. E il problema filosofico non può essere tutto il problema dell’arte: il secondo non si arresta al primo, anche se dal primo — coscientemente o inconsciamente non importa — prenda sempre le mosse.
Quindi Sieccoci una serie di errori iniziali e perciò a una non esatta visione dell’evoluzione spirituale dei problemi contingenti da cui ha preso le mosse la corrente rinnovatrice. Se, rispetto all’arte, i risultati della prima fase del rinnovamento teatrale siano stati poveri non possiamo metterlo in dubbio; però crediamo che non poteva esere altrimenti. Non per la lapalissiana ragione che non è stato altrimenti; ma perchè, più che costruzioni coscienti e altamente serene, nel dopoguerra quasi immediato — quando gli animi erano ancora eccitati dalla lotta di vita o di morte sostenuta — non potevamo avere che dei tentativi caotici.
Da questo punto di vista la fisionomia del «grottesco w si identifica con un’amalgama che non ha e non può avere immediati sviluppi d’arte. Questi saranno, poi, raggiunti da Luigi Pirandello che saprà cogliere i frutti della prima fase:
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Noi abbiamo, dunque, affermato che esiste una fase necessariamente polemica e preparatoria. Vi è soluzione di continuità tra il «teatro grottesco» e il teatro di Pirandello; Pirandello, dal suo canto, tiene ad affermare l’autonomia del creatore: «Se quegli spiriti, e non sono un indistinto e indeterminato nel tempo, ma punti indistinti e indeterminati dello spirito stesso attivo, il quale appunto perchè ha in sè, connaturali, e vivo travaglio, può trovare la forza di liberarsene esprimendoli».
Pirandello ha in un certo senso ragione; e per altro non contraddice affatto alla nostra tesi. Perchè — come ha dovuto notare lo stesso Pirandello — in Spagna, ai tempi di Pope de Vega e di Calderon de la Barca, gli scrittori teatrali «rifacevano le stesse trame, impostate con lo stesso spirito comune a tutte le generazioni, e la paternità delle idee non contava nulla... pure de quella baraonda nacque La vita è sogno e altre opere d’arte di serietà indiscutibile. Nel caso del «grottesco» non si tratta nemmeno di trame: gli atteggiamenti dello spirito contemporaneo sono intimamente (e non riflessivamente) sentiti da Pirandello: problemi che nascono come spontanei, e non come acquisiti: sono quindi spontanei e capaci di assurgere a forme difinitive d’arte.
Ora quello che è il significato ideologico del teatro pirandelliano è stato analizzato da Adriano Tilgher che, appunto per questo, è stato e continua a essere il critico principale di questo teatro. Sulla scorta di Tilgher rifare ancora una volta la indagine sarebbe certo utile: noi ci limitiamo a pochi accenni.
Risalta, anzitutto, l’antitesi tra la vita e la forma, l’essere e l’apparire, la concezione dell’individuo come groviglio di idee in continua contradizione, essere che continuamente si costruisce tanto da rappresentare — volta a volta — uno, nessuno, centomila. «Inevitabilmente noi ci costruiamo. Mi spiego. Io entro qua e divento subito, di fronte a lei, quello che debbo essere, quello che posso essere — mi costruisco — cioè, me le presento in una forma adatta alla relazione che debbo contrarre con lei. E lo stesso fa di sè anche lei che mi riceve. Ma, in fondo, dentro queste costruzioni nostre messe così di fronte, dietro le gelosie e le imposte, restano ben nascosti i pensieri nostri più segreti, i nostri più intimi sentimenti, tutto ciò che siamo per noi stessi, fuori delle relazioni che vogliamo stabilire». (Baldovino nel Piacere dell’onestà).
Maschera e volto: abbiamo — dopo le varie peripezie sceniche di questi due aspetti — il trionfo del volto, vale a dire rivelazioni compiutamente tragiche che si risolvono in una scena finale satura di drammaticità e di umanità. Tutta quella che è la fredda logica di Pirandello scoppia in una conclusione, che è squisitamente lirica e indiscutibilmente umana.
Ma Pirandello — e questo è il suo principale difetto — ha molte preoccupazioni intellettualistiche che non si realizzano qualche volta esteticamente: pur essendo dall’autore poste come problemi che, in se stessi logici, tendono a una soluzione estetica.
Qualcuno potrebbe allora considerare questa parte del teatro di Pirandello come espressione di filosofia: ma. da questo punto di vista, molte cose dovrebbero essere dette sull’attendibilità filosofica e sulla originalità di pensiero. D’altronde questo non dev’essere compito di critici letterari che guardano alle idee in quanto queste s’inquadrano nello spirito diffuso del tempo e in quanto, soprattutto, attuano delle nuove realtà e delle nuove possibilità di fervida vita sciolta dai contatti mediati della dialettica. In proposito Cosi è {se vi pare) — commedia in cui il pensiero non si drammatizza — è caratteristica: una proposizione filosofica è il perno di quest’opera che — pure essendo la più chiara, lineare e schematica — non è certo fra le più significative opere di Pirandello. Sebbene in Cosi è (se vi pare) si cerchi d’infondere un afflato lirico di vita, non viene affatto realizzato il passaggio dell’atteggiamento logico a quello che possiamo chiamare potenziamento e sviluppo fantastico.
E molte delle opere di Pirandello sono su questa base, peccano in quanto si attardano in discussioni teoriche e logicizzano i moti dell’anima: senza nulla drammatizzare.
Da questo punto di vista abbiamo una continuazione — riguardo allo stile su una linea di sorprendente adeguatezza — di quello che è il travaglio, la preoccupazione del «teatro grottesco». Ma se è vero che una buona fine giustifica tutta una vita, in buona parte del teatro di Pirandello l’ultimo atto e spesso l’ultima scena — giustifica, dal lato estetico, tutto un lavoro e lo rende tale da imporsi all’attenzione di chi cerca una concretezza di creazione: al di sopra, se non al di fuori, dello svolgimento dialettico dai necessari postulati intellettuali.
E’ il caso di Pensaci, Giacomino!, del Piacere dell’onestà, del Giuoco delle parti, di Ma non è una cosa seria, di Enrico IV, ecc. Dice il protagonista del Giuoco delle parti: « Credete che io non abbia sentimento? Io ne ho; ma, quando esso sorge in me, lo afferro per le corna, lo domo e lo inchiodo». E’ così: per uno svolgersi di scene il cui dialogo è fatto di spezzature sicilianamente espressive; ma, a un certo punto, cade la superstruttura: cade la maschera e si scopre il volto, nella sua miseria e nella sua tragedia. — Credete che io non abbia sentimento? — Potevamo anche crederlo, sì, prima di giungere alla fine del dramma; ma dopo no, dopo abbiamo dovuto considerare la superstruttura logica come un diversivo messo avanti per nascondere il cuore, come un atteggiamento quasi snobistico per domare e inchiodare il sentimento.
Dovrebbe essere citata — quale inconfutabile documentazione — l’ultima parte di Enrico IV: quando la finzione durata tant’anni, davanti alla donna amata e al di lei drudo, viene a infrangersi, ed Enrico IV, in un eccesso d’ira, repentinamente ferisce Belcredi.
La verità è che, quando si era alla ricerca di complicazioni cerebrali, un uomo — Luigi Pirandello — , pur partecipando a questa ricerca, riusciva a salvare il teatro italiano dall’astrattissimo logicizzante.
I critici si sono in un primo tempo quasi esclusivamente preoccupati dall’apparato filosofico di questo scrittore: tutto un mondo interessante per atteggiamenti e qualche volta per originalità, ma transeunte; a posto nel suo tempo e incapace di varcare i confini ristretti di questo suo tempo.
Se oggi noi sentiamo di poter collocare Pirandello tra i realizzatori, è proprio per quel valore eternamente e squisitamente umano che sta all’apice di molte sue creazioni: valore che in un primo tempo la moda imperante volle completamente trascurato o collocato in una discreta penombra; e che noi sentiamo, oggi, di dover mettere in prima linea per potere giungere a una valutazione verace dell’arte pirandelliana.
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Ci è sembrato inutile — dopo aver constatato come il teatro di Luigi Pirandello sia non il superamento logico ma la realizzazione estetica del «teatro grottesco» — insistere nell’elencazione dei problemi di pensiero che detto teatro pone (spesso senza risolverli, perchè il famoso relativismo è un rimanere al di qua di ogni possibile soluzione: l’atteggiamento dell’asino di Buridano). Questo, semmai, potrebbe essere fatto in altra sede.
Qui era necessario — dopo avere quasi in blocco negata l’importanza estetica del «teatro grottesco» — dimostrare come Pirandello sia riuscito ad attuare un teatro nuovo, veramente di arte, realizzando esteticamente i problemi del tempo confusamente posti dagli autori di «grotteschi», e da Pirandello sentiti come propri (quindi, insistiamo, realmente propri).
II movimento spirituale che si concretizza nel teatro nuovo è l’espressione d’un mutato stato di cose: non vive ai margini della nuova vita; ma è centro propulsore di essa.
Questo era necessario dimostrare — sia pure sistematicamente — : per ciò che riguarda il problema pirandelliano diciamo soltanto che molte sono le faccie che questo problema assume nelle sue estrinsecazioni d’arte: un pensiero poliedrico che tenta la sua poliedrica effusione, una visione fondamentalmente compiuta della vita.
E anche questo potrebbe essere registrato all’attivo. D’altronde «i problemi rappresentati nell’opera d’arte — dice lo stesso Pirandello — restano e resteranno così come sono stati fissati: problemi della vita. La loro irriducibilità consiste nella loro espressione, in quanto essa è rappresentazione».
Ecco, in forma d’esempio, un chiarimento che riguarda direttamente Pirandello: anche l’essere o non esser di Amleto si può negare e superare dal lato filosofico: ma dal lato estetico no: resta come espressione compiuta e definitiva di vita. Gli animi che si avvicineranno all’opera di Shakespeare intenderanno quanto di essa potranno intendere; ma non penseranno di negare o affermare il valore di Shakespeare a seconda che aderiranno o no ai problemi filosofici svolti o accennati dal tragico inglese.
Giuseppe Sciortino.