Idilli (Teocrito - Pagnini)/XIII
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ILA.
Idillio XIII
Non per noi soli (qual credemmo), o Nicia,
Fu generato Amor da quel fra i Numi,
A cui nacque tal figlio; e noi mortali,
Che il domane ignoriam, non siamo i primi,
Cui bello appaja il bello. Anche il figliuolo
D’Anfitrion, che un cuor di bronzo avea,
E saldo incontro a fier lion, del vago
Ila garzon d’inanellata chioma
Invaghissi, e qual padre un caro figlio
In tutto quel l’instrusse, ond’egli stesso
Ammaestrato si fe prode, e chiaro.
Da lui diviso unqua non era, e quando
Il mezzo-giorno poggia, o quando l’alba
Su’ destrier bianchi alla magion di Giove
Sen corre, o quando i queruli pulcini
Giran gli occhi a’ pollai, battendo l’ali
La madre su la trave affumicata.
Tutto perchè il garzone a suo talento
Instrutto, ed al suo fianco esercitato
Uom degno si formasse. Or quando il corso
L’Esonide Giasone al vello d’oro
Prese, e il seguir d’ogni cittade eletti
I più destri al grand’uopo, il figlio ancora
D’Alcmena Mideatide Eroina,
Nelle fatiche saldo, in via si pose
Verso la ricca Giolco, e con lui dentro
La ben contesta nave Ila discese.
La qual non toccò già le Gianée
Cozzanti insieme, ma fra quelle ratta
Passando qual’aguglia, un vasto mare,
Entrò nell’alto Fasi, e da quel tempo
Restaro immoti que’ due scogli. Or quando
Si levano le Plejadi, e gli estremi
Campi dan pasco a’ teneri agnelletti
Sul fin di primavera, a quel d’Eroi
Divino fior di navigar sovvenne,
E ben schierati nella concav’Argo.
Il terzo giorno allo spirar di Noto
Entrar nell’Ellesponto, ed approdaro
Alla Propontida, ove i buoi l’aratro
Esercitando imprimono gran solchi
Nel terren de’ Ciani. Ivi sul lido
Usciti vèr la sera a torma a torma
Allestivan la cena, e molti un letto
Comune in terra distendean; chè un prato
Gran comodo a far letti ivi porgea.
Indi butomo acuto, indi segaro
Alto cipero. Andossene Ila il biondo
Con un vaso di rame a cercar acqua
Da cena per recarla ad esso Alcide,
E al prode Telamon, ch’entrambi sempre
Ad una stessa mensa eran compagni.
Ben tosto si fu accorto in basso piano
D’un fonte, che gran foglie avea d’intorno,
Azzurra celidonia, adianto verde,
Tortuosa gramigna, appio fiorente.
Ordìan le Ninfe in mezzo all’acqua un ballo,
Ninfe vegghianti, e dive a’ villanelli
Tremende, Eunica, Malide, e Nichea
Dal bel guardo gentil di primavera.
Stava il garzon con la capace brocca
Già pronto in atto ad attuffarla in acqua.
Tutte allora alla man se gli avvinchiaro,
Chè a tutte amor del giovinetto Argivo
Velato avea le tenerelle menti.
A piombo ei ruinò nelle fosc’acque,
Siccome quando una raggiante stella
Striscia dal ciel precipitando in mare,
E de’ nocchieri alcun grida ai compagni:
Amici, alzate i lini; è fausto il vento.
Le Ninfe avendo il garzoncel piangente
Su le ginocchia gli porgean conforto
Con blande parolette. Alcide allora,
Turbato pel garzon, l’arco ritorto
All’uso degli Sciti, e in un la mazza,
Ond’ei sempre la destra empiea, si tolse
Per girne in traccia. Ila chiamò tre volte
Quant’ei potè dalla profonda gola.
Tre volte udì il fanciullo, e fuor dell’onde
Gracile suono uscì. Benchè vicino,
Parea da lungi. Or qual lion barbuto,
Crudivoro lion, che di lontano
La voce di cervetta ode pe’ monti,
Al preparato pasto esce correndo
Dal covo; tale Alcide disïoso
Del suo garzon per inaccessi dumi
Si raggirava, e gran paese intorno
Prendea. Miseri amanti! Oh! quanto errando
Per monti, e selve a soffrir ebbe, e tutte
Pose in non cale di Giason le cure.
Ferma si stava con le antenne alzate
La nave, e i navalestri a mezza notte
Le vele sventolavano aspettando
Ercole pur, che furibundo gìa
Dove condotto era da’ piè; chè un Nume
Spietato sotto il cor lo lacerava.
Così il bellissim’Ila infra la schiera
Entrò degli Immortali. Ercole intanto
Schernian gli Eroi qual disertor di nave,
Perch’Argo abbandonò ben allestita
A trenta banchi; e fino a Colco, e a Fasi
Inospitale a piè fornì ’l viaggio.