I suicidi di Parigi/Episodio primo/III

Episodio primo - III. Un buon viglietto di lotteria

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III.

Un buon viglietto di lotteria.

Nel mezzo della state del 1833, il dottore di Nubo trovavasi a Nicastro di Calabria.

Un editore gli aveva dimandato di ripubblicare la grande opera di lui: L’etnologia delle popolazioni dell’Italia meridionale, che, nel 1812, gli aveva conquistato il posto di membro dell’Accademia delle Scienze ed il nastro della Legione d’Onore.

Il dottore, viaggiava per distrarsi. Controllava il suo libro, onde metterlo al livello delle scoverte e delle dottrine, le quali avevan, dopo quell’epoca, allargato il dominio delle scienze naturali. Egli amava, d’altronde, percorrere quelle vaghe contrade, poco esplorate, e dove non s’incontra neppure lo stesso inglese! Gli osservatori si compiacciono in queste lande sociali ancora vergini, ove, di ogni sguardo, si squarcia un velo dell’incontaminata Iside. [p. 15 modifica]

Il dottore infatti, scovriva costumi e maniere nuove, paesaggi potenti di splendore, di contrasti, d’inatteso: un lembo del mondo primitivo, perduto ai pie’ dell’Italia, in mezzo al XIX secolo.


Era un giorno di fiera.

Il dottore di Nubo, a cavallo, accompagnato da una guida, se ne andava a visitar le montagne. Traversava la piazza pubblica della cittaduzza.

Una banda di zingari ostruiva la via, circondata da una folla grande di curiosi cui aveva attirata.

La banda componevasi di una dozzina d’individui; più, quattro scimmie, due orsi, una ventina di asini, tre cani e lo zio Tob — il quale era il proprietario, il principe, il papa, il padre, il padrone, il tiranno di tutta quella roba.

Dond’e’ venivano?

Essi arrivavano: ecco tutto!

L’industria ch’esercitano gli zingari nella Bassa Italia è complessa. Essi sono ferrai, maniscalchi, giocolieri, calderai, incantatori, stregoni, indovini di buona ventura, trovatori di tesori, ladri di fanciulli, scassinatori di porte... cozzoni sopra tutto. Gli uomini comprano e vendono asini; le donne rubano animali domestici, dicono la buona sorte alle fanciulle — cui esse maritano sempre riccamente e subito — o fanno peggio ancora — senza neppure accorgersi che fanno male. Si conoscono le loro costumanze. È inutile ribiascicarne.

Essi danno del compare a chiunque. Ànno numerosi segreti di cozzoneria.

Il più vecchio, il più magro, il più consunto dei ciuchi — un censore teatrale della specie — diviene nelle loro mani brioso come una vedova che si rimarita, uno scolaro in vacanza.

Quando voi credete che lo zingaro apra la bocca di questa povera bestia per mostrarvene i denti — cui ha testè segati per dissimularne l’età — egli le cola destramente nella gola una pillola infernale di peperone che le brucia le viscere, la incita alle follìe e le dà gli ardori verdi ed irresistibili di un cappuccino. Quando voi credete ch’e’ ne carezza le groppe; egli le punge a dentro, mediante un [p. 16 modifica]cardo a punte acute nascosto nelle palme. Voi credete che la bestia è grassa come un abate benedettino; essa è nè più, nè meno che gonfia. Laonde, il contadino diffida a modo delle compre e delle vendite dei gitani.

Il dottore, fermo un istante dall’ingombro nella via di quella comitiva bizzarramente stracciona, vide venire a lui una creatura di dieci o dodici anni ch’egli suppose del sesso femminile, e chiedergli un piccolo dono.

Gli zingari non mendicano mai. Essi prendono a mutuo; domandano un piccolo regalo; rubano; ma non stendono la mano alla limosina. Crederebbero mancarsi di rispetto: ànno un’industria!

La vista di quella cosina — era una ragazza — colpì il dottore.

Ella era assolutamente un embrione, tanto era segaligna e magra. Ma quell’embrione, sviluppato dalla natura che ne aveva gettato i rudimenti, poteva divenire sublime. Per il momento, non iscorgevasi che delle ossa ammirabilmente organizzate; dei grandi occhi neri scintillanti come quelli di un serpente in collera; dei lunghi e castagnini capelli, che contornavano una fronte elevata e larga, a mo’ di paralellogramma; una pelle che non era bruna, che non era pallida, ma che, animata da una circolazione meglio nutrita, poteva acquistare una tinta più chiara e trasparente di quella di una creola. Poi, una bocca grandicella, ma ben fessa ed armata di piccoli denti bianchi, acuti ed eguali; una vitina svelta, alta, soffice, pieghevole come un giovane pioppo. Insomma eran quivi i primi stami di una di quelle donne che, trasportate in una grande città ed in un mondo come Parigi e Londra, possono addiventare un flagello, una magia: che cominciano sempre per levarsi da Cleopatre avvegnachè finiscano talvolta in Maddalene.

Il dottore gettò una moneta d’argento alla bambina e continuò il suo viaggio per l’escursione progettata. Ma, cosa bizzarra! quell’abbozzo di donna gli trottò per lo spirito tutto il dì.

Si fermò di un tratto.

Non era però il magnifico orizzonte che si spiegava innanzi ai suoi occhi che lo arrestava.

E’ non vedeva punto, dalla cima di quell’appennino, solcato da filicciuoli di neve come una tavola di vecchio ro[p. 17 modifica]vere niellata in argento, nè il Mar Jonio dai flotti verdastri; nè il Tirreno arrovellato dai suoi cavalloni turchini; nè l’Etna che ondeggia in distanza in un’aureola di vapori violetti; nè quel cielo allo spazio infinito, che con la sua profonda limpidezza sembra raddoppiare la potenza della vista. No: e’ non vedeva nulla di tutto codesto, nè altra cosa. Un’idea aveva traversato la mente del dottore di Nubo come un lampo nel fitto della notte.

— E s’io m’impossessassi di questa potenza? — brontolò egli alla fine.

E dette ordine alla guida di tornare immantinente a Nicastro.

I psicologi àn tanto scritto sull’origine, la nascita, la cristallizzazione del pensiero, che non se ne sa assolutamente più nulla. Laonde, io m’astengo netto dall’intraprendere un’investigazione metafisica su questo subietto — ne fosse pur questo il momento.

L’intuizione subìta dall’avvenire poteva ben essere nello spirito del dottore la conclusione di un seguito di ragionamenti anteriori, la soluzione di numerosi dubbii, di molte paure, di lunghe ricerche, di una meditazione attiva e persistente sul suo proprio passato. Il suo grido finale poteva ben essere l’ultima parola di un problema, di cui studiava le premesse da lungo tempo, l’ergo di un sillogismo che era costato, Dio sa quante veglie e quante preoccupazioni. Però chi lo sa? Il conte di Nubo non era comunicativo sulle sue evoluzioni psicologiche.

E’ non era di quella pasta d’uomini cui Orazio qualifica di fruges consumere nati — buoni tutto al più ad ingollare la loro polenta — come un deputato ministeriale. La sua esistenza, zeppa, poco ordinaria, era scorsa a cielo aperto, a cielo offuscato, nei chiarori del mezzodì sovente, più sovente ancora nei ciechi abissi della notte.


Tornato a Nicastro, e’ fece chiamare l’albergatore e gli disse:

— Io sarei curioso di contemplar da vicino e parlare al capo degli zingari, che ò visto stamane nella piazza della fiera. Potreste indurlo a venir qui?

— Nulla di più facile, eccellenza, se tuttavia non se l’è svignata dal paese. [p. 18 modifica]

— No: l’ò visto or ora: vi è ancora.

— In questo caso, eccellenza, vado a servirvelo in un quarto d’ora.

— Io non chiedo che il capo solo.

— Vostra eccellenza non vedrà che lui.

Infatti, poco stante, lo zio Tob arrivò.

Non mai Callot, o Moya, o Pinelli, non fantasticò di un cialtrone più compiuto di questo zio Tob. Giammai fiero Castigliano non portò cenci con più fierezza e nobiltà che codestui — vantandosi del resto di discendere dai re di Polonia, benchè nato nello Yorkshire.

La sua toilette era il più strano abuso del pleonasma — eppure sembrava nudo! Aveva una camicia a merletto sur una camicia da notte, sovrapposta essa stessa ad una camiciuola di rosso fustagno. Sulla camicia à jabot s’incrociava un panciotto di piqué bianco, alla Robespierre, sotto, un panciotto di velluto, preceduto da un terzo panciotto di raso nero, che mostrava i suoi lembi consunti in fra i due. Poi, su codesto, un pastranello che si sarebbe detto una vareuse rossa, un attila ungherese, ed un mantello alla spagnuola. Il suo capo era coperto da un feutre grigio a larghe falde, il quale dava libero passo, dai suoi molti buchi, alle ciocche di un’irsuta capigliatura che aspiravano a sventolare a grado dell’aure. Il feltro era sormontato da un’altra piuma di coda di galli, azzeccata da uno scheggiale brillante di acciaio, ed abbellito da una fettuccia di velluto. Poi ancora, dei calzoni azzurri larghissimi, cacciati a mezzatibia, in un paio di stivali alla scudiera, sui quali ballonzavano delle uose mal bottonate.

I capelli neri del babbo Tob si attorcigliavano sulle sue spalle come colubri. I suoi lineamenti, regolarissimi, rilevati da un naso aquilino delicato e da un paio di magnifici occhi neri, restavano ancora imponenti, malgrado l’estrema loro magrezza ed il loro colorito di oliva.

Tob era alto, nervoso, spigliato. Però tutto codesto indovinavasi anzi che vedersi, non essendo facile a discernerlo.

Lo zio Tob era un composto di toppe di rapporto. Ogni parte del suo corpo serviva a completare l’armonia ed a compensar la dissonanza della parte vicina. Ogni arnese aggiunto al suo vestito, serviva a dissimulare la soluzione di con[p. 19 modifica]tinuità dell’arnese sottoposto, di guisa che, ravvicinati l’uno all’altro, essi formavano appena un involucro più screziato che caldo.

La regolarità delle sue forme serviva appena altresì a temperare la ripulsione, che senza ciò avrebbero desta la sua magrezza e la sua itterizia.

Lo zio Tob si fè avanti di un’aria sicura, mentre le sue ossa scricchiolavano al suo passo. Non cavò il copri-capo. Prese per di più una seggiola, cui avvicinò a quella del dottore, ed attribuendosi la parola pel primo e dandogli del tu, al modo dei gitani, disse:

— Che mi vuoi tu, compare?

Il dottore non rispose da prima. E’ cercava a rendersi conto dell’uomo con cui aveva a negoziare, mediante l’analisi della fisionomia e l’osservazione di quelle mille protuberanze — cui certe abitudini della vita e del pensiero sollevano sul corpo — sì eloquenti, quando li si sa interrogare da frenologo, non da ciarlatano.

Dopo due minuti di silenzio, che turbavano lo zio Tob, il dottore fiutando una presa di siviglia, disse lento, lento:

— Io sono straniero. Viaggio perchè mi annoio. Son curioso. Amo le storie bizzarre. Ora, come io m’immagino, caro, ch’e’ vi potria essere nella storia vostra qualche cosa di piccante, vi ò fatto chiamare per chiedervene il racconto.

Il dottore aveva aperta la conversazione con mal garbo — non tardò ad avvedersene.

Lo zio Tob restò un istante come stupefatto, gli occhi spalancati, pensando sognare, sospettando, malgrado ciò, che non fosse innanzi ad un commissario di polizia. Poi si alzò pian piano, e rispose:

— Io pure, sono straniero. Io viaggio per vivere. Io non sono punto curioso. Detesto le storie, bizzarre o no. E come non ò nella mia vita nulla di ghiotto, e come, quand’anche ve ne fosse, io non l’avrei spippolato al primo ozioso venuto che prendesse la pena di chiedermelo a brucia pelo, io ti rispondo: addio compare.

— Scusatemi, signore — riprese il dottore alzandosi — io non aveva intenzione di offendervi. Se vi ò dimandato il racconto delle vostre avventure non è mica unicamente [p. 20 modifica]per un sentimento di curiosità. Un’idea più generosa ispiravami.

— Alle corte, compare — sclamò bruscamente lo zio Tob. — tu ài un servigio a chiedermi. Un uomo come te non scomoda un uomo come me pel semplice piacere di fare una chiacchierata come un vecchio paio di amici. Andiamo dunque al busillis. Che mi vuoi tu?

— Dappoichè voi mettete la quistione in questi termini — replicò gaiamente il dottore — io l’accetto. Andiamo al fatto.

— Andiamovici — ripostò il babbo Tob.

— Io ò rimarcato, nella vostra banda di gente e di bestie, una creaturina di dieci o dodici anni cui suppongo una fanciulla.

— Ah! ah! — fece Tob grattandosi il naso — Sì, infatti, è una fanciulla. E poi?

— È vostra figlia?

— Che ne so io? Del resto, appo di noi, il figlio appartiene alla comunità. E’ non rileva che dal suo capo; non conosce che sua madre; ed è classificato dalla nazione ove nacque. Chi nasce in Ungheria è ungherese; chi nasce in Italia, italiano.

— Che diritto avete voi sulla vostra compagnia?

— Dimanda piuttosto, compare, qual diritto io non mi abbia.

— In questo caso, voi potete vendere quella fanciullina.

— Se volessi, il potrei senza fallo.

— Che prezzo, volendolo come il potreste, ne dimandereste allora?

— Io non ò detto che il volessi. Ma come tu ami a cianciare, cianciamo pur di codesto come di tutt’altro.

— Allora?

— Orbè, l’è secondo. Che vorresti tu farne, anzi tutto.

— Mia figlia — supponiamo.

— In questo caso, e’ sarebbe più caro.

— Perchè?

— Perchè la sarebbe perduta per sempre per noi.

— Infine — sclamò il dottore con un po’ d’impazienza.

— Cinque mila franchi — disse Tob, distillando le sillabe.

— Il prezzo di un cavallo inglese! — proruppe il dottore. Mille grazie. Compro una Circassa. [p. 21 modifica]

— Ti tengo — gridò lo zio Tob. Non è una figlia che tu compri allora, l’è un’utilità, l’è uno strumento, l’è un godimento o un servizio qualunque che tu acquisti infine. Tu calcoli semplicemente, non compi un’opera da filantropo.

— Ciò mi riguarda, brav’uomo.

— E ciò riguarda anche me. Cinque mila franchi, dunque.

— Impossibile. Addio.

— Vuoi tu comprarla alla libbra, compare?

— La carne viva inganna al peso. Voi sareste minchionato, caro. No.

— Ad ogni modo, ne daresti tu che?

— Mille franchi.

— Mille franchi! La sarà per me la gallina dall’uovo d’oro. Però dimmi questo, compare: ne farai tu una cristiana?

— Senza dubbio.

— Io diffalco allora cinque cento franchi di mancia pel diavolo. Prendila a 4,500 franchi.

— No.

— Ne farai tu una cattolica, apostolica, romana, compare?

— Sì.

— In questo caso, ne diffalco altri mille franchi — a causa della probabilità che la potrà un giorno tornare a noi, in un modo o nell’altro. Tre mila cinquecento franchi, allora.

— No. Due mila franchi, ecco l’ultimo mio prezzo.

— Un’ultima domanda, compare, insistè lo zio Tob, riflettendo — ove la conduci tu?

— A Parigi.

— Vada. Te l’abbandono per 3000 franchi. Tutto non è perduto.


Il dì seguente, lo zio Tob consegnava la fanciulla pel prezzo sopradetto, accettato dal dottore.

Infrattanto, il mercato conchiuso, il dottore faceva rivenire l’albergatore e gli comandava da cena per due.

— Io mi tedio a cenar solo e non mangio — diss’egli. A chi potrei indirizzarmi in città per averlo a conviva?

— Ah! — rispose l’albergatore — se vostra eccellenza [p. 22 modifica]ama il buon vino, noi abbiam qui il capitano della gendarmeria...

— Non vo’ birri alla mia mensa, gnoccolone! — interruppe il dottore, conoscendo i polli di casa Borbone.

— Vi sarebbe inoltre l’arciprete.

— Io sono protestante.

— In questo caso, che vi sembra del medico?...

— Son medico anch’io. Ci arrovelleremmo prima di dar mano agli hors-d’oeuvres.

— Allora, eccellenza, io non so mica più... perchè il sotto-intendente non verrebbe.

— Nè io il voglio, perdio.

— Il suo segretario fa la corte alla moglie di lui, e non si scomoderebbe neppure pel re. Il sindaco à la gotta... Ah! un’idea.

— Dite pure.

— Vostra eccellenza gradirebbe ella un messere che mangia molto, ma molto?

— S’e’ mi piacesse, per fermo.

— Ebbene, il cancelliere comunale è la perla delle tavole. E’ non mangia mica sovente, il galantuomo, perchè è povero.

— Perchè è desso povero?

L’albergatore restò allampanato alla dimanda. E’ sbirciò il dottore con attenzione, poi soggiunse:

— Cazzica! perchè è povero? Da prima perchè non guadagna abbastanza. In seguito perchè à una famiglia numerosissima. Infine, eccellenza, perchè giuoca alla lotteria quel po’ di ben di Dio cui guadagna.

— Andate ad invitare il cancelliere — ordinò il dottore — e fate il festino per bene.

Il cancelliere accettò di balzo e giunse all’albergo.

E quest’uomo non aveva sul viso che occhi e peli; poi, un gobbo alle spalle, un piè più corto dell’altro. E’ non rideva mai. Un libro sudicissimo faceva capolino d’una delle tasche della sua giacca.

Egli salutò sommariamente il dottore: la vista dell’imbandigione l’abbacinava.


La cena non fu guari allegra.

Messer lo scriba ingollava pietanze su vino e vino su [p. 23 modifica]pietanze. Il dottore assisteva, con noncuranza, al riempimento di quell’imbuto, aspettando il momento d’intraprendere il suo affare. Imperciocchè, non pretendiamo fare un mistero non aver egli invitato quel baratro per il piacere della di lui compagnia. Alle frutta, il momento gli parve propizio. Il degno uomo piangeva di tenerezza.

— Voi non siete mica ricco, l’amico, mi àn detto — sclamò il dottore.

— Lo sarò — rispose il cancelliere sfolgorante. Io non mi stancherò. O’ un terno, che in tutte le giuocate rasenta l’uscita, e che mi avrebbe prodotto di già due ambi se io li avessi giuocati insieme. Ma, io vo’ tutto, signore; tutto o nulla. Io lo spio, questo scellerato terno; e’ verrà fuori, infine: ne son certo.

— E se io vi dessi dei numeri più certi ancora, eh! Meglio ancora che codesto: se io vi dessi dei numeri che usciranno senza neppur averli giuocati? Che ne dite?

— Peste e paradiso! signore... io direi... che voi vi burlate di me.

— Io non mi burlo giammai di alcuno. Io non scherzo mai.

— Ma allora, eccellenza... voi siete Dio o il diavolo.

— Ditemi un po’. Voi non giuocate dunque che dei numeri schietti schietti?

— Come mo? Vi sarebbe dunque altra cosa a giuocare?

— Senza la formola?

— Che formola?

— Non mi stupisco allora che perdiate sempre.

— Mi strangoli Dio, se ne comprendo goccia, gridò don Antonio.

— Lo veggo bene.

— Voi andrete a rivelarmi codesta formola — impose il cancelliere levandosi, fiammeggiante, con una energia ed una decisione che gli davano l’aria di un bandito.

— La formola del viglietto che giocherete la volta ventura, amico mio — rispose il dottore con calma — sarebbe la seguente: «Estratto dai registri dello stato civile della Comune di Nicastro, n°... pagina... ecc., ecc. Oggi, 20 aprile 1832, s’è presentato a noi, cancelliere della detta Comune, D. Antonio Bello, accompagnato da quattro testimoni onde fare iscrivere una bambina chiamata... chiamata... sì, chia[p. 24 modifica]mata Regina, cui il detto D. Antonio Bello ed i testimoni ànno dichiarato appartenergli, come pure a sua moglie Lucrezia Paolina Atripalda di Nubo, ecc., ecc.»

— In una parola, un atto di nascita! — riassunse lo scriba stupefatto.

— Nè più, nè meno.... secondo le vostre formole ordinarie.

Il cancelliere aveva ascoltato il dottore. Ora, come il discorso di costui gli sembrava incoerente, e’ suppose che l’anfitrione gli favellasse in quel modo onde dargli dei numeri di lotteria così dissimulati, come talvolta si pratica.

I santi, i cappuccini non li danno altrimenti.

E’ cavò dunque di saccoccia il libro sporchissimo che vi mostrava i lembi — chiamato Smorfia nell’ex-regno di Napoli — e che è una specie di dizionario con un numero appiccicato ad ogni parola. Cominciò a sfogliarlo, avvegnachè sel sapesse a memoria. Però non vedendo costrutto in quel che il dottore aveva detto, il cancelliere restò muto e si grattò il cocuzzolo a maniera di idiota.

— Ebbene? — fece il dottore. Rispondete voi? Vi va desso di guadagnar, a colpo sicuro, 500 franchi sur un terno?

— Sì, sì, balbuziò il cancelliere. Ma io non vi veggo il terno, io. Per esempio, noi abbiamo la bambina che fa 37, poi il padre che segna 15, e poi... buona sera.

Il dottore sorrise e rispose:

— Amico caro, quel che io vi chiedo è ben più semplice di tutto ciò. Io vi chiedo, secondo la vostra formola, di estrarre dai registri dello stato civile di Nicastro l’atto di nascita di Regina, figliuola di D. Antonio Bello e D. Maria Lucrezia, Paolina Atripalda di Nubo, nata il 20 aprile 1822. Capite voi?

Lo scriba comprese alla fine, e sorridendo a sua volta, chiese:

— Troverò tutto codesto nei miei registri, signore?

— Ciò vi riguarda — rispose il dottore un po’ brusco. Io vi darò dimani un viglietto di 500 franchi contro l’atto in quistione, bollato, registrato, firmato dal sindaco e dal sotto-intendente.

— Ciò è grave! — mormorò il cancelliere.

— Cosa? ciò che vi chiedo?... [p. 25 modifica]

— Che voi non ne dimandiate che uno, di codesti atti.

— Ah!

— Va bene. L’avrete ad ogni modo domani. Perchè il sindaco firma sempre senza leggere, quando non firma in bianco nei suoi momenti d’ozio. Ma è mestieri far visitar l’atto dal sotto-intendente, onde legalizzare la firma del sindaco, ciò che io farò pure; poi dall’intendente, onde legalizzare la firma del sotto-intendente; infine dal ministro dell’interno a Napoli per legalizzare quella dell’intendente; e se voi dovete far uso di quest’atto all’estero, perchè desso sia autentico, bisogna farla vistare altresì dal ministro degli affari stranieri e dall’ambasciatore.

— Ciò mi riguarda — disse il dottore, dandogli congedo.

A mezzodì, il dì seguente, il dottor Gennaro conte di Nubo entrava nel coupé di posta, azzavorrato della sua nipote Regina Bello, munito dell’atto di nascita di lei legalmente falsato.