I solitari dell'Oceano/2. La tratta delle pelli-gialle

2. La tratta delle pelli-gialle

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CAPITOLO II.

La tratta delle pelli-gialle.

La proclamazione della fine dell’infame tratta degli africani ed il famoso bill Aberdeen, votato nel 1845, col quale si concedevano agli incrociatori pieni poteri d’inseguire le navi negriere fino nelle acque estere, di catturarle, d’incendiarle, di calarle a fondo e di appiccare gli equipaggi che le montavano, dopo una semplice comparizione dinanzi ad una corte marziale, come era da prevedersi, avevano dato un colpo mortale alle opulenti colonie americane.

Le immense piantagioni di cacao, di caffè, di zucchero e di [p. 10 modifica]cotone dell’America centrale e dell’America meridionale, private delle robuste braccia dei negri, erano rapidamente deperite mandando in rovina i ricchi proprietari.

I rischi che correvano le navi negriere erano d’un subito diventati tali, da frenare quasi di colpo l’esportazione dei negri.

Quella razza di intrepidi ma anche di crudeli scorridori del mare, era dunque a poco a poco scomparsa.

I numerosi stazionari inglesi e francesi, scaglionati lungo le coste dell’Africa, alla foce dei grandi fiumi del Congo e della Benguela e sulle coste della Guinea, dopo d’aver dato ai negrieri terribili lezioni, erano finalmente riusciti a porre un termine alla tratta.

I piantatori che vedevano inaridire le loro proprietà, cercarono allora di trovarvi un rimedio. Soppressa l’esportazione della razza negra, pensarono di rivolgersi ad altra razza.

La China colla sua esuberante popolazione, poteva ben fornire braccia ed a buon mercato. Un salasso a quei quattrocento cinquanta milioni di abitanti non doveva essere tale cosa da allarmare le nazioni europee e tanto meno l’apatico governo chinese.

E così fu inventata la tratta dei coolies, tratta che doveva, fino ad un certo punto, rimettere in fiore le immense piantagioni quasi ormai del tutto abbandonate per mancanza di lavoratori. Il chinese se non ha la robustezza dell’africano è pur sempre un buon lavoratore, paziente, resistente ai climi più torridi, alle febbri e anche alle fatiche.

Nata l’idea, eccola messa in esecuzione. Non si trattava che d’ingannare i vigili guardiani del trattato d’Aberdeen e l’inganno fu trovato e come!

Non più tratta, ma semplice emigrazione. Che cosa potevano fare i comandanti degli incrociatori quando loro si mettevano sotto il naso un vero contratto firmato ed approvato dall’emigrante?...

Ecco dunque nel 1847 apparire le prime navi incaricate di trasportare in America gli arruolati chinesi, destinati ai piantatori dell’America centrale ed ai proprietari delle cave di guano, delle isole del Perù. Degli agenti chinesi e portoghesi percorrono le coste della China, fanno incetta di prigionieri di guerra, allora molto abbondanti in causa delle ostilità esistenti fra le tribù del Kuang-tung occidentale, fra gli Hakka ed i Pun-te ed accumularli nella isoletta portoghese di Macao, rinchiudendoli in appositi recinti chiamati barramcoes.

Altri invece incettano agricoltori e pescatori per mezzo di barche armate da chinesi e da portoghesi, oppure acquistano a prezzi derisorii quei poveri diavoli che, rovinati nelle case da giuoco appositamente istituite, hanno venduta la propria persona, cosa permessa dalle barocche leggi chinesi.

Con orribili minaccie si fanno firmare loro dei contratti per otto anni, coi quali si obbligano di lavorare pei loro proprietarii, dietro il modico compenso di quaranta lire al mese, oltre il vitto ed il vestito. [p. 11 modifica]

Quaranta lire, mangiare e anche calzati! Era una vera cuccagna per quei poveri diavoli e le minacce erano davvero superflue.

Firmato il contratto, il giuoco era fatto e le autorità portoghesi di Macao, già comperate, non avevano più a che vedere. Infine si trattava d’un semplice arruolamento accettato dal venduto e dal suo futuro padrone.

Ben vengano gli incrociatori! I contratti erano in mano del comandante della nave che doveva condurre i coolies in America.

Non bastava che mostrarli per soddisfare anche i più esigenti cacciatori di negrieri. E poi non erano più negri: si trattava di chinesi.

Un bel giorno una nave compare dinanzi a Macao, imbarca quattro o cinquecento arruolati, li stiva nel frapponte come acciughe nel barile, si mette in regola colle autorità, fa vidimare i contratti, spiega le vele e se ne va tranquilla attraverso l’immenso oceano Pacifico.

L’incettatore ha pagato ogni arruolato duecentocinquanta lire ciascuno, lo ha venduto al capitano per sei o settecento, il quale poi lo rivenderà pel doppio o pel triplo al luogo di sbarco. Uno splendido affare per entrambi, come si vede.

Ma è qui che il povero chinese comincia ad accorgersi in quali mani è caduto.

La tratta dei negri s’è tramutata semplicemente in tratta d’uomini gialli.

Quei disgraziati, soffocati nel frapponte, accumulati come una banda di maiali, male nutriti, terrorizzati da continue minaccie, possono ben rimpiangere la libertà perduta.

Non sono più esseri umani: sono bestie in mano ai più feroci ed ai più brutali lupi di mare della marina dei due mondi.

I comandanti, per tenerli in freno ed anche per economizzare sui viveri, li trattano come animali feroci.

Li affamano, li assetano, mirando soprattutto ad indebolirli per impedire loro di ribellarsi. Al minimo cenno di resistenza li fucilano senza pietà o li gettano ancora vivi ai pesci cani onde incutere terrore agli altri.

Quante terribili tragedie sono avvenute su queste navi incaricate di trasportare quei disgraziati! La lista sarebbe ben lunga!

E quanti di quegli arruolati giungeranno vivi nei porti americani?

Le malattie scoppiano quasi sempre a bordo di quei legni, specialmente nei frapponti dove s’accalcano tante persone che in fatto di pulizia lasciano molto a disiderare, e allora quali vuoti fanno in quei carnai!

I marinai dell’Oceano Pacifico si ricordano di quella nave, che salpata da Macao nel 1885 diretta a Tahiti, con a bordo cinquecento arruolati, giunta a destinazione con soli centosessanta e ridotti a scheletri viventi. [p. 12 modifica]

Trecentoquaranta erano morti durante la traversata ed erano andati ad ingrassare i famelici pesci-cani.

E la Lady Montague, salpata con quattrocentocinquanta, giunta a destinazione con soli centocinquanta? E la Provvidenza partita con cinquecento chinesi che approda in America con soli quarantadue?

Talvolta non sono invece le malattie che sterminano quei disgraziati: sono il piombo e la mitraglia.

Spinti alla disperazione dai cattivi trattamenti, dalla fame e dalla sete, si sono veduti quei miseri rivoltarsi ferocemente all’equipaggio ed al suo capitano.

Quali massacri allora! Quali orrende carneficine!

Citiamo alcuni di questi fatti.

Sul Napoleone Canevaro e sulla Dolores Urgate, i coolies piuttosto che soffrire più oltre, incendiano le navi che li trasportano e si lasciano bruciare tutti.

Vendetta inutile perchè gli equipaggi erano riusciti a fuggire salvandosi sulle scialuppe.

Sulla Martha e sulla Teresa, i coolies, più fortunati dei precedenti, scannano parte degli equipaggi e riescono, dopo una lunga e perigliosa navigazione, a ritornare in Cina sbarcando sulle coste del Kwang-tun.

Su un’altra nave italiana invece, partita da Macao con cinquecento persone, i coolies tentano di guadagnare la coperta per vendicarsi dell’inumanità dell’equipaggio.

Ma il capitano per due ore li fucila nel frapponte, uccidendone trecento e facendo gettare ai pesci-cani i feriti ancora vivi!

E quante vittime fanno anche le tempeste ed i tremendi tifoni del mare della China e del Tonchino!

Si ricorda ancora la Dora Temple, partita dalle coste dell’Annam, inabissatasi cogli ottocentocinquanta arruolati che stipavano il suo frapponte!

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Il capitano Carvadho, comandante dell’Alcione, nave di millecinquecento tonnellate, attrezzata a barco, avuto sentore dei lauti guadagni che facevano i suoi colleghi dedicatisi al trasporto dei Coolies aveva creduto bene d’imitarli.

Un tempo era stato negriero. Per lunghi anni aveva visitati ogni sei mesi i piccoli porti della Costa d’Oro, trasportando nelle fazende brasiliane un gran numero di negri e sfuggendo sempre felicemente alla sorveglianza degl’incrociatori.

Crescendo il numero di quelle navi armate di buoni cannoni e di aggueriti equipaggi, il capitano Carvadho che ci teneva alla propria pelle e che aveva un immenso orrore per le corde a nodo sospese alle antenne, un bel giorno aveva dato un addio alle coste africane e se n’era andato nei mari della China. [p. 13 modifica]

— Bah! — si era detto. — Se non posso più imbarcare i negri, andrò a prendere dei musi gialli.

Invece di schiavi prenderò degli arruolati.

Non si tratta che di cambiare il colore delle pelli! —

Ed aveva cominciato a trasportare i coolies sulle coste del Perù, dove in quell’epoca vi era grande richiesta per impiegarli nel faticoso lavoro dei depositi di guano.

Tre viaggi compiti felicemente, gli avevano fatti incassare dollari a migliaia e migliaia. È ben vero che era giunto quasi sempre a destinazione con mezzo carico, ma che cosa importava?

Se i chinesi lungo la traversata morivano di fame, o di sete, o per malattie, tanto peggio per loro. I benefizi d’altronde erano sempre stati vistosi ed il buon capitano non aveva domandato di più.

L’Alcione era dunque al suo quarto viaggio.

Il 24 marzo del 1848 aveva lasciata l’isola di Macao con quattrocentoventi arruolati, destinati ai depositi di guano del Perù.

Il governo peruviano però, non aveva voluto questa volta, lasciare carta bianca all’ex-negriero.

Vedendolo giungere sempre con carichi così decimati e sapendo con che specie di brigante aveva da fare, anche sollecitato dai rappresentanti esteri, lo aveva obbligato ad imbarcare il signor Cyrillo de Ferreira in qualità di commissario governativo.

Minacciato di privarlo della patente, il capitano Carvadho aveva dovuto, contro voglia, imbarcare il rappresentante del governo, che aveva l’incarico di sorvegliare il trasporto degli arruolati e di mettere un freno alle inumane crudeltà dell’ex-negriero.

L’Alcione adunque era partito coi suoi quattrocento venti arruolati ed i suoi trenta marinai, racimolati fra le peggiori canaglie, parte portoghesi, parte americani, con alcuni malesi, certamente vecchi pirati dell’arcipelago sululano. La traversata era stata felicissima fino sulle coste settentrionali della nuova Guinea, ma quando l’Alcione stava per impegnarsi fra le isole del mare del Corallo, la peste era scoppiata improvvisamente a bordo, spargendo il terrore fra l’equipaggio e rendendo furiosi i chinesi.

Il signor de Ferreira che aveva assistito, impotente, ai maltrattamenti inflitti a quei quattrocento venti disgraziati, rinchiusi come belve feroci, nel frapponte, che invocavano da mane a sera, con urla terribili, aria, acqua e viveri, aveva cercato d’indurre il capitano a migliorare la sorte di quei miseri per combattere il male.

Il gigante aveva risposto semplicemente con questa frase brutale:

— Che muoiano! Me ne rimarrà sempre abbastanza per pagarmi delle spese. —

E l’Alcione aveva continuata la sua rotta verso il Sud-Est, pronto ad attraversare l’enorme distesa d’acqua che lo separava dalle coste dell’America meridionale, mentre i morti venivano gettati giornalmente in pasto ai pesci-cani, questi inseparabili compagni delle navi negriere e dei trasporti dei coolies.