I rossi e i neri/Secondo volume/VI
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VI.
Dove si legge
di tre naviganti che avevano perduta la bussola
Per tutto ciò che vi abbiamo raccontato, Enrico Pietrasanta non potè consegnare all’amico la lettera di Lorenzo Salvani se non a notte alta, quando finalmente rimasero soli nel quartierino serbato dal marchese Antoniotto a’ suoi ospiti. Ora, a mala pena l’ebbe scorsa da capo a fondo, il giovine Montalto rimase come trasognato. Lo scritto del Salvani diceva troppe cose e troppo poche ad un tempo, svegliando nell’anima di Aloise, insieme coll’ansietà dell’amico, la curiosità dell’uomo, la sollecitudine del cavaliere, la pietà del congiunto.
Però, lasciamo argomentare al lettore con che impazienza Aloise aspettasse il mattino. E sebbene molti altri pensieri, frutto delle prime cortesie usategli dalla donna amata, gli stessero in mente, dobbiamo pur confessare, ad onor suo, ch’egli era assai più sollecito di correre in città che non di rimanere lassù, a sperimentare, nella sua continuazione, la dolcezza di questi scherzi e guerricciuole di donna, che mostra per la prima volta di accorgersi dello amore di un uomo.
Al primo romper dell’alba, egli era già in piedi e raccomandava ad Enrico Pietrasanta, di non metter due ore a vestirsi, come soleva. Ma Enrico, fin dal giorno innanzi, col Salvani, aveva mostrato di sapere alla occorrenza far presto: quella mattina, poi, non era meno impaziente dell’amico Aloise. Per tal modo egli avvenne che le sei non erano anche suonate, e già i due amici passeggiavano davanti al vestibolo, aspettando che il landau fosse pronto per la partenza.
Il palazzo Torre Vivaldi non aveva ancora schiusi gli occhi alla tiepida luce del mattino; la qual cosa, ridotta in istile volgare, significa che le persiane erano tutte chiuse, sulla facciata, e che i signori del luogo dormivano, o ne facevano le viste.
Nel salire in carrozza, gli occhi di Aloise si volsero furtivamente a una persiana del secondo piano, e il suo fazzoletto bianco, cavato di tasca, con atto che voleva parer naturale, andò a stropicciargli la fronte, dove non c’erano sudori da tergere, ma donde per avventura si sprigionavano saluti, giaculatorie, alla diva del luogo. Era dessa in piedi, la diva, dietro le stecche di quella persiana? Il cuore gli diceva di sì; gli veniva persuadendo che la bellissima donna, svegliata dallo scalpitar dei cavalli innanzi al vestibolo, fosse discesa dalle molli piume e, ravvolta nel suo peplo mattutino, stesse dal vano della finestra a vederlo partire. S’ingannava egli, forse; noi non diremo ne sì, nè no; lasciamolo nel suo dolce inganno, o nella sua dolcissima certezza, secondo i casi.
I rovàni del Pietrasanta fornirono rapidamente la corsa da Quinto a Genova. Colà, presso l’entrata di porta Pila, un insolito moto, un affollarsi di gente curiosa, svegliò l’attenzione di Enrico.
— Che è ciò? — domandò egli, senza por mente che Aloise non gli avrebbe potuto rispondere. — Perchè tutti quei capannelli affaccendati, che guardano verso la porta? — Passato il ponte levatoio e l’androne, la curiosità del Pietrasanta si mutò in maraviglia. Drappelli di soldati, coi fucili al piede, vigilavano l’entrata, e visitavano, frugavano, quanti dessero loro nell’occhio, dei viandanti che venivano di fuori. Un carrozzone, di quelli che son chiamati latinamente omnibus, e che onestamente non avrebbe dovuto servire a nessuno, tanto era sgangherato, sudicio e polveroso, stava per l’appunto lì fermo, e i viaggiatori malcapitati avevano a sbottarsi la giubba e rivoltare le tasche al cospetto dei vigili.
I due amici si ricambiarono le loro considerazioni, in quella che un sergente, più a modo di formalità che di precauzione, dava una sbirciata in quel cocchio, la cui fresca vernice, la fodera di seta, lo stemma dipinto sugli sportelli e il cocchiere gallonato a cassetta, non davano certamente aria, nè odore, di rivoluzione. E il frutto di quelle loro considerazioni si fu, che, in cambio di andar prima a casa loro, smontarono in piazza Carlo Felice, e, scesi da’ Luccoli, si recarono tosto all’uscio di Lorenzo Salvani.
Ma qui, suonarono inutilmente due volte; l’uscio rimase chiuso, la casa muta come una tomba. Aloise ed Enrico si guardarono in volto, senza far motto; poi suonarono una terza volta, una quarta, e, a farvela breve, scampanellarono a riprese per forse dieci minuti. In quella casa, di sicuro, non c’era anima nata. E la sorella adottiva di Lorenzo, fuori anche lei? E Michele, dov’era egli andato a far capo?
Turbati, senza un concetto in mente, uscirono per le vie, dove seppero del tentativo fallito la sera innanzi e dei pericoli che aveva corso la cosa pubblica; pericoli ingranditi nell’universale dalla paura del caso recente e dalla ignoranza de’ particolari. Certo il Salvani era imprigionato, o nascosto; ma la fanciulla? ma il servo? E i due amici di Lorenzo, in queste indagini al buio, si andavano stillando inutilmente il cervello.
Due ore dopo, sperando che qualcuno ci sarebbe finalmente tornato, andarono di bel nuovo a casa Salvani. Ma, in quella che facevano le scale, ebbero a persuadersi che era un altro viaggio inutile, il loro; poichè qualcuno stava martellando e scampanellando disperatamente all’uscio, in quella medesima guisa che essi avevano fatto dapprima.
— Basta; vediamo intanto chi sarà quest’altro; — disse Aloise.
E, seguendo la buona ispirazione, continuarono a salire le scale. Alla loro comparsa sul pianerottolo, quegli che stava all’uscio si volse, e il Pietrasanta e il Montalto lo ravvisarono1; era l’Assereto, l’Assereto, che, com’essi, veniva a cercar di Maria e di Michele per la seconda volta in quella mattina.
— Oh, alla perfine troviamo un amico! — esclamò Aloise. — Orbene, non c’è alcuno?
— Che volete? Suono, sto per dire, da un’ora, e nessuno mi apre.
— Noi siamo già stati.... — disse il Pietrasanta.
— E anch’io, — rispose l’Assereto, — ma, come stavolta, ho trovato faccia di legno.
— E il Salvani, quando lo avete veduto? — dimandò Aloise.
— Stanotte, nel tornare a casa, dov’egli era ad aspettarmi. Saprete del tentativo di iersera?....
— Sì, e appunto per ciò temevamo.
— Oh, quanto a lui, gli è in salvo, sebbene siano venuti i carabinieri a rovistargli la casa.
— Quando?
— Iersera, sulle dieci. Venne appunto il Michele, in fretta in furia, ad avvisarmene, ed io corsi dalla signorina, la quale era in uno stato da far compassione. I messeri del pennacchio, entrati nella camera di Lorenzo, avevano frugato dappertutto, ed erano usciti portando con sè una cassettina....
— D’ebano? — chiese, interrompendolo, con aria di grave ansietà, il marchese di Montalto.
— Sì, d’ebano; ne sapevate qualcosa? — dimandò stupefatto l’Assereto; ma tosto, col piglio di un uomo che si ricordi, proseguì: — ah! è vero; Lorenzo mi ha detto, per l’appunto, questa notte, della lettera che aveva mandata a voi. Sapete dunque il segreto, come ho dovuto saperlo anch’io. Ora notate; quella cassettina è l’unica cosa che i carabinieri hanno portata via di casa Salvani.
— Strano! — esclamò il Pietrasanta.
— Stranissimo! — rincalzò l’Assereto. — Il nostro amico, a dir vero, non aveva, rispetto a politica, nessuna carta di rilievo; che anzi aveva bruciato, o fatto a pezzettini, ogni cosa. Ma, se nulla c’era di ghiotto pel Fisco, essi certamente non lo avevano da sapere, e, secondo ogni più ragionevole presunzione, dovevano frugar dappertutto per trovare, se potevano, il fatto loro. Dico bene?
— Ottimamente! Proseguite! — rispose Aloise, che teneva dietro alle argomentazioni dell’Assereto con molta attenzione.
— Orbene, Michele mi ha detto, e la signorina mi ha ripetuto, che quei tutori dell’ordine pubblico, entrati deliberatamente nella camera di Lorenzo, andarono difilati al canterano, e, dopo aver posto sossopra tutto quanto era nelle cassette, sparpagliate le carte senza leggerle, buttate a rinfusa sul pavimento le camicie, i fazzoletti, e quanto poteva riuscire d’impedimento alle loro ricerche, adunghiarono la cassettina d’ebano, e senza pure fermarsi ad aprirla, se ne andarono via. Michele, vecchio soldato e punto rispettoso verso i rappresentanti dell’ordine, s’era provato a far loro qualche rimostranza; ma il brigadiere gli aveva risposto: «in nome della legge! noi facciamo il nostro dovere» e s’era allontanato, insieme cogli altri, che ridevano a crepapelle.
— E la signorina Maria, chiese il Montalto, — non sapeva nulla di ciò che conteneva la cassettina?
— Sì, lo sapeva; Lorenzo gliene aveva fatto cenno, innanzi di andare al suo posto di combattimento.
— E perchè allora non farsi innanzi, e dire a quei signori: badate, in quella cassettina non son carte per voi, ma cose di famiglia, le quali non hanno alcuna attinenza con ciò che cercate?
— Che volete? La signorina era fortemente commossa; e turbata dalla assenza del fratello, di cui conosceva le cagioni, sto per dire che non pensava nemmeno ai segreti della cassettina d’ebano. La prima e l’unica cosa che mi domandò, a mala pena mi ebbe veduto, fu questa: «e Lorenzo? dov’è Lorenzo?» Io non potei dirle nulla, poichè, come vi ho raccontato, io lo vidi soltanto a notte alta, quando ebbi fatto ritorno a casa. Ella era in un’ansia mortale, la poverina, ed io non venni a capo di racconsolarla. Partii promettendole di cercar Lorenzo, di metterlo in salvo, e di tornare stamane, a ragguagliarla d’ogni cosa che avessi potuto fare per lui. E difatti, Lorenzo è in salvo, a quest’ora. I soldati, carabinieri e sergenti di pubblica sicurezza che vegliano alle porte, per visitare chi entra, non badano ancora molto attentamente a chi esce; e Lorenzo, travestito da contadino, è andato ad uscire tranquillamente dalla porta degli Angeli.
— Questo è già tanto di guadagnato; — notò Aloise di Montalto; ma la signorina.... E si trovasse almeno il servitore!...
— Voi lo vedete! Scomparsi! — soggiunse l’Assereto; — scomparsi, mentre io venivo a portar novelle di ciò che avevo fatto, non senza fatica, tra le quattro e le sei di questa mattina.
— C’è un grave mistero, qui sotto! — disse, crollando il capo, Enrico Pietrasanta.
— È quello che penso anch’io; — ripigliò l’Assereto; — ma come scoprirlo? Darei, ve lo giuro, metà del mio sangue. —
In quella che così ragionavano, senza conchiuder nulla, si udì il rumore di un catenaccio che scorreva negli anelli, e di un uscio che rimessamente, timidamente, si apriva, alla svolta del pianerottolo.
All’Assereto, che era pratico di quelle scale, venne come un raggio di speranza, nello udire lo strepito di quell’uscio che si apriva. Fu in due salti all’altro capo dell’andito; scese uno scalino, e si parò innanzi a quell’uscio, dalla cui breve apertura compariva, in atto tra curioso e guardingo, una donna attempata, come dimostravano i suoi capegli grigi e un cuffione bianco, ornato di cannoncini, alla foggia delle nostre vecchie massaie.
— Scusi, — disse l’Assereto, mettendo una mano al cappello, e accennando rispettosamente coll’altra alla vecchia signora, che volesse ascoltarlo; — eravamo venuti a chiedere del nostro amico signor Salvani, e nessuno ci risponde.
— Li ho uditi già parecchie volte suonare, in questa mattina; — risponde la vecchia; — e adesso, parendomi di udire un certo bisbiglio sul pianerottolo, era venuta a vedere chi fosse. Ma Lei, mi par di conoscerla....
— Sì sono un amico di casa Salvani, e ci sono stato ancora iersera. Dovevo tornare questa mattina per certi ragguagli dalla signorina Maria.
— Oh, poverina! — interruppe la vecchia signora, che, ravvisando un volto amico, aveva spalancato l’uscio e messa in moto la lingua; — se Ella sapesse che notte ha passata, aspettando suo fratello! Veda, quantunque io fossi sola in casa, perchè mio figlio è partito ieri mattina alla volta di Torino donde tornerà posdimani, quando ho sentito tutto quel viavai di carabinieri, non mi sono potuta trattenere dallo andare a chiedere alla povera ragazza se avesse bisogno di qualcosa. Mi ringraziò, dicendomi che non voleva nulla; ma più tardi, verso la mezzanotte, venne il suo servitore da me per dirmi che egli andava in cerca del padrone, e che io volessi tener compagnia alla signorina, che rimaneva sola. Andai, e rimasi presso di lei fino alle due, cercando di consolarla, perchè la era come disperata. Oh, questi giovanotti non ne hanno mai abbastanza, colla loro politica! Se pensassero che hanno una famiglia, a cui non lasciano che gli occhi da piangere....
— Scusi; — interruppe l’Assereto, — ma il servitore, a che ora tornò in casa?
— Oh, così fosse tornato! Ma si perdette anche lui, e la poverina volle ad ogni costo che me ne tornassi in casa, per dormire un pochino. Ma come si fa a dormire, dopo tanto rimescolo? Io non ho potuto chiuder occhio fino all’Avemaria. Ma che crede, che la fosse finita? Appunto allora, odo bussare all’uscio. Che è, che non è? Una donna, che, a quell’ora, in compagnia d’un vecchio, viene a cercare della signorina Salvani. Avevano fatto errore da un uscio all’altro. E difatti, per chi sale quassù al buio, e non vede la svolta del corridoio, sembra che questo sia l’ultimo uscio della casa.
— Chi poteva essere questa donna? — esclamò l’Assereto. — Ella, non è venuta a capo di conoscer chi fosse?
— Io l’ho a mala pena intravveduta dall’uscio che avevo aperto a mezzo, senza levar la catena. Risposi che i Salvani stavano all’altra porta, in fondo al corridoio, e richiusi l’uscio. Tuttavia, rimasi qualche minuto ad origliare, per sincerarmi se entravano dalla signorina Maria. E diffatti, poco dopo, suonavano all’uscio dei Salvani, e la poverina, udendo una voce di donna, aperse e fece entrare quelle due persone in casa. Mezz’ora dopo, udito uno stropiccìo di piedi nell’andito, io, che come lor signori potranno immaginarsi, non avevo più potuto pigliar sonno, venni nell’anticamera, e mi accorsi che scendevano le scale, insieme colla signorina, della quale intesi la voce.
— Chi sa? Forse erano congiunti della famiglia; — disse l’Assereto, tanto per dir qualche cosa. — Ma non abusiamo più oltre della sua cortesia. La prego, se torneranno in casa, a dir loro che Giorgio Assereto, con altri amici del signor Lorenzo, sono venuti due volte, stamane, a chieder notizie.
— Non dubiti; sarà fatta la commissione, appena udrò giungere qualcheduno della famiglia a metter la chiave nella toppa. —
E qui, ricambiate poche altre parole di commiato, i tre amici infilarono le scale per uscire.
— E adesso?... — chiese il Montalto, quando furono sulla strada.
— Adesso, — rispose il Pietrasanta, — ne sappiamo come prima.
— Adagio! — entrò a dire l’Assereto. — Sappiamo che qualcosa di grave è accaduto, e la polizia, che ha avuto mano nella perquisizione, avrà il bandolo del rimanente.
— Lo credete? — dimandò, con aria dubbiosa, il Montalto.
— Credo, — rispose l’Assereto, — che sia questo l’unico partito a cui possiamo appigliarci. Che cosa vedete voi di più efficace?
— Nulla, in fede mia! Andiamo dunque al palazzo Ducale. —
Si era in gran faccende, quella mattina, nel palazzo Ducale. L’intendente (oggi si direbbe il prefetto) non intendeva niente; e strepitava perchè dovessero intendere gli altri. L’assessore capo pigliava il ranno, e lo rovesciava in capo alla turba minore de’ suoi satelliti. Il generale del presidio mandava ordini e contr’ordini. L’avvocato fiscale sguinzagliava tutta la falange dei giudici istruttori. E tutti i campanelli, di qua e di là, di su e di giù, erano in moto, come le gambe dei sergenti, degli uscieri, e, a farla breve, di chiunque avesse qualchedun altro sopra di sè, nella gerarchia degli uffizi. Gran lavoro, troppo lavoro, per un ultimo giorno di trimestre!
Quella mattina, di sicuro, l’assessore capo non dava udienza ad ogni sorta di gente. E già alla dimanda dei tre amici, l’usciere aveva risposto, con breviloquenza spartana: «occupato.» Ma essi, tenaci, cavarono fuori i loro biglietti di visita, e dissero all’usciere che avrebbero aspettato risposta. E l’usciere, veduti tre nomi accompagnati da tre stemmi (perchè l’Assereto, quantunque non la pretendesse a marchese, conosceva le prerogative del suo casato), si persuase che quei signori francassero la spesa dell’ambasciata. Nè s’ingannava. Un minuto dopo, tornava frettoloso in anticamera, per sollevare rispettosamente la portiera, e dire ai tre visitatori: «Il signor Cavaliere li prega di entrare.»
Il signor Cavaliere era un uomo di quarantacinque anni, o in quel torno, da’ capegli brizzolati, che portava sempre tagliati alla radice, e dal volto affatto ignudo, il quale lasciava scorgere in tutta la loro bellezza le cento grinze di un sorriso, che vi era come stereotipato, ed aiutava alla sua nominanza d’uomo piacevole e di belle maniere. Aveva fama altresì d’uomo avveduto; ma in quei giorni era stato ad un pelo di perderla, e quella mattina ancora egli non era ben certo di non aversela guastata davvero. Però il sorriso stereotipo del suo volto arieggiava la smorfia, e il saluto ch’egli fece ai tre signori era a mala pena quel tanto che occorreva, per istare alle buone creanze. Gli atti, poi, volevano dire assai chiaramente: «Signori, è proprio per le vostre pergamene che vi ho fatto entrare; sbrigatevi!»
— Signor cavaliere, — incominciò Aloise, — la cagione che ci conduce da Lei è molto grave, e forse Ella, ne’ momenti in cui siamo, non crederà opportuno di darci le informazioni che siamo venuti per chiederle.
— Dica, ad ogni modo, signor marchese, e dove io possa.... senza nocumento....
— Una perquisizione, — proseguì Aloise, — è stata fatta iersera in casa di Lorenzo Salvani....
— Salvani! La scusi, — interruppe l’assessore, — conosco questo nome. Non sarebbe, per avventura quello di un signore che ebbe un duello con Lei?
— Per l’appunto, e di presente amicissimo mio. Ora, nella perquisizione fatta iersera in sua casa....
— Perquisizione! — esclamò il magistrato, stringendosi nelle spalle. — Aspettino, dò un’occhiata ai rapporti, per sincerarmene; ma, se ben ricordo, nessuna perquisizione è stata fatta in casa Salvani.
— È stata fatta dai carabinieri; — entrò a dire l’Assereto; — e forse Ella non ne avrà avuto ragguaglio.
— Oh, in questi negozi si procede d’accordo, — rispose l’assessore capo, in quella che andava scartabellando alcuni fogli che aveva sulla tavola, di costa allo scannello, — ed io, se la perquisizione è stata fatta, avrei pure a saperne qualcosa. E infatti, qui non trovo nulla di ciò.
— Diamine! — borbottò l’Assereto. — O come va, questa faccenda? —
E guardò in viso agli amici, stupefatti al pari di lui. Quindi, richiesto dall’assessore, raccontò per filo e per segno quello che egli aveva udito da Michele e dalla signorina Maria, non ommettendo neppure la conversazione fatta pur dianzi colla vicina di casa.
— Non ne capisco un ette! — disse l’uffiziale di pubblica sicurezza, quando l’Assereto ebbe finito la sua narrazione.
— L’Autorità non ha ordinato nulla di tutto quanto Ella mi dice.
— Ma, in tal caso, — soggiunse Aloise, — qui si chiarirebbe una bricconata, anzi due, di privati.... —
Il signor cavaliere si strinse nelle spalle, giusta il suo costume, quasi volesse dirgli: che ci ho da far io?
— E l’Autorità, — fu pronto a seguitare il Pietrasanta, — certamente si farà debito di scoprire....
— Signori miei, — interruppe il magistrato, increspando la faccia alla solita smorfia, — molte cose abbiamo da scoprire quest’oggi. Lor signori intenderanno che le questioni d’ordine pubblico hanno la precedenza. Del resto, se vogliono, possono raccontare il fatto all’avvocato generale.... non oggi, s’intende, poichè ci avrà molto da fare pur egli, ma domani, o poi.... —
Così dicendo, il signor cavaliere si alzò; maniera pulita di dir loro: andatevene, signori, che non ho tempo da perdere.
E i tre amici, intesa la mimica, e veduto come il degno tutore dell’ordine pubblico avesse quel giorno altro in capo che quella bagattella di una perquisizione apocrifa e della scomparsa di una fanciulla, si accomiatarono da lui.
— E adesso, indovinala, grillo! — esclamò il Pietrasanta, come furono nell’atrio del palazzo Ducale.
— In questo imbroglio, — disse Aloise, — c’è sicuramente la mano di qualche matricolato furfante. Ma giuro, per l’anima di mia madre, che ne verrò in chiaro, e guai a lui!
— Ci avrete compagni, Aloise, — soggiunse l’Assereto porgendogli la mano, — compagni nel giuramento e nelle opere. Ora leviamoci di qua, e chiamiamo senza indugio i pensieri a capitolo.
- ↑ Nell’originale "ravravvisarono".