I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Un dramma in aria
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UN DRAMMA IN ARIA
Daman, la graziosa cittadina, capitale del minuscolo possedimento portoghese dell'India occidentale, era in pieno subbuglio quel giorno, come se qualche grave avvenimento avesse improvvisamente turbato l'invidiabile tranquillità di quei fatalisti degli abitanti.
Ondate di persone si riversavano sulla spiaggia, spingendosi e urtandosi fra uno schiamazzo assordante, mentre le verande delle case si coprivano di curiosi ed i monelli, non meno lesti di quelli d'Europa, si arrampicavano sui palmizi, mettendosi a cavalcioni delle mostruose foglie.
Seikki con gli ampi mantelli ed i turbanti immensi e variopinti, le fisionomie barbute e gigantesche; parsi con gli alti cappelli conici di feltro nero e le ampie zimarre, i visi quasi bianchi e di una regolarità e bellezza straordinarie; maharatti seminudi, muscolosi, abbronzati e con gli occhi di fuoco e bombaiani magrissimi, esilissimi, più neri che bronzini, appena avvolti in un pezzo di tela di colore indefinibile, si pigiavano entro le strette viuzze, facendo a pugni per giungere primi sulla spiaggia.
Tutta quella marea umana finiva per schiacciarsi ed addensarsi intorno ad un recinto, costruito di grossi bambù, aperto solo dal lato del mare, dove alcuni uomini issavano su due altissimi pali, un ammasso di stoffa che, a prima vista, non si poteva capire che cosa fosse.
Degli avvisi multicolori, distribuiti in abbondanza tre giorni prima, avevano avvertito la popolazione europea ed indigena che il signor Olas Camarghaos, celebre aeronauta, avrebbe offerto il raro spettacolo d'una ascensione libera col suo Tago.
Quell'annunzio, come si può ben immaginare, aveva messo sottosopra la popolazione indiana che non aveva mai veduto innalzare un pallone e anche quella portoghese che la maggior parte dell'anno doveva contentarsi di guardare i tramonti del sole, spettacoli senza dubbio superbi, ma che non procurano commozioni.
Da dove fosse venuto quel celebre aeronauta, nessuno l'avrebbe potuto dire, anzi nessuno prima d'allora mai ne aveva udito parlare.
Poco importava d'altronde. Il signor Camarghaos, celebre o no, era giunto con un pallone, aveva costruito il recinto, aveva piantato tutti gli apparecchi necessari per la produzione del gas e per di più aveva anche promesso che avrebbe preso con sé qualche persona per tenergli compagnia nell'ardimentoso viaggio. Che cosa si poteva pretendere di più?
Fino allora nessuno si era presentato. Solo all'ultimo momento un giovane ufficiale della guarnigione, aveva offerto all'aeronauta di seguirlo.
Quella doppia attrattiva aveva quindi aumentato la curiosità della popolazione, la quale era accorsa tutta intorno al recinto, occupando l'immensa spiaggia che terminava ai due fortini di difesa del porto.
I preparativi erano stati fatti con sollecitudine. Il signor Camarghaos voleva approfittare del vento favorevole che soffiava da levante a ponente, con qualche quarto verso il nord, nella speranza di scendere a Diu, altro piccolo possedimento portoghese sulle coste meridionali della penisola di Kathiamar.
Si trattava di una traversata di quattro o cinquecento chilometri, che l'aeronauta calcolava di poter compiere in una diecina di ore.
Il Tago si presentava bene. Non era già un pallone nuovo; però era di dimensioni notevoli, di forme perfette, con rete solidissima e una navicella sufficiente per contenere comodamente l'aeronauta ed il suo compagno, oltre la zavorra e le provviste.
Si poteva quindi sperare che la traversata di quel tratto di mare, dovesse compiersi senza incidenti sgradevoli. D'altronde il signor Camarghaos assicurava che nulla di cattivo sarebbe avvenuto e che tutto sarebbe andato di bene in meglio.
Al grido lanciato dall'aeronauta: «Pronti alla partenza!» l'ufficiale si era slanciato nel recinto fra le acclamazioni entusiastiche della folla e del presidio, accorso tutto a salutare l'ardimentoso compagno, che era un bel giovane, bruno, ben piantato, ed aveva dato prove di valore e di audacia nell'ultima insurrezione indiana e per ciò amatissimo da tutta la piccola guarnigione.
L'idea di fare una corsa in aria lo aveva subito attratto e non gli era nemmeno passato pel capo il pensiero che quella corsa avrebbe anche potuto finire malamente.
Non aveva avuto alcuna difficoltà a mettersi d'accordo con l'aeronauta, il quale anzi si era stimato orgoglioso di avere per compagno un ufficiale anziché un portoghese di coraggio dubbio.
Il Tago, quasi interamente gonfio, ondeggiava maestosamente, pronto a prendere il volo. Gli uomini faticavano a trattenerlo, tanto era potente la sua forza d'ascensione.
Il signor Camarghaos, tronfio d'orgoglio, col viso acceso, si era messo sul dinanzi della navicella, guardando quasi con disprezzo il vile popolo che lo acclamava con battimani, che pareva non dovessero finire più.
Un bel tipo quel celebre aeronauta! Alto, magro come un'aringa affumicata, quasi calvo, con una barba da becco già brizzolata e due occhietti grigi che talvolta s'accendevano d'un fuoco improvviso.
Si sbracciava come un mulino a vento, impartendo gli ultimi ordini agli uomini che tenevano le corde, ricordando loro di lasciarle andare al suo comando.
Finalmente il grido: «Mollate tutto!» esce con voce tuonante dalle sue labbra.
Il Tago s'innalza, portando con sé i due audaci aeronauti. Ma ha appena lasciato il suolo che un grido, anzi un urlo d'orrore e di raccapriccio subentra agli applausi entusiastici della folla.
– Ferma! Ferma!
Quasi contemporaneamente una voce strozzata si fa udire sotto la navicella:
– Aiuto, signor Blancos! Aiuto, mio tenente!
L'ufficiale, sorpreso da quella chiamata disperata, si era curvato sul bordo della navicella, mentre ventimila braccia s'alzavano e diecimila voci ripetevano con maggior forza:
– Ferma! Ferma!
Fermare! Non era già un treno, né una macchina. Il Tago saliva, invece, rapidamente nello spazio, piegando verso il mare, spinto da una brezza di levante.
Non saliva, portando solamente l'aeronauta e l'ufficiale. Un altro uomo veniva portato contro sua volontà in alto ed in quali terribili condizioni!
Era uno dei soldati che erano stati incaricati di trattenere il pallone. Nel momento in cui il signor Camarghaos aveva lanciato il grido di: «Mollate» il disgraziato non aveva avuto il tempo di sciogliere la fune che s'era imprudentemente avvolta intorno ad un braccio per tenerla più stretta e si era sentito portare in alto.
In quel momento terribile gli era mancato il coraggio di lasciarsi subito cadere; d'altronde il Tago era salito così rapidamente, da fargli dubitare della buona riuscita di quel salto.
Il tenente aveva mandato un urlo d'orrore, giacché in quel soldato, che si teneva aggrappato alla fune con la forza che infonde la disperazione, aveva riconosciuto il proprio attendente.
– Signor Camarghaos! – gridò, slanciandosi verso l'aeronauta che guardava il mare e le bussole per accertarsi della direzione del pallone. – Siamo cresciuti di numero! Salviamolo o scendiamo!
L'aeronauta che pareva non si fosse accorto di nulla, tanto era occupato nelle sue osservazioni, a quelle parole si era rivolto con la fronte aggrottata.
– Scendere! – gridò. – Non sarà un Camarghaos che commetterà una simile sciocchezza. Se non vi sentivate l'animo di fare un viaggio col più celebre degli aeronauti, dovevate rimanere a terra. Io salirò sempre, sempre, fino alla luna.
– Abbiamo un uomo sotto di noi! – gridò il tenente.
L'aeronauta parve che facesse uno sforzo per comprendere le parole dell'ufficiale, poi, scrollando le spalle, rispose:
– È la paura che vi ha fatto impazzire. Già non si nasce aeronauti! In alto, ancora in alto. Gettiamo zavorra! Andiamo a fumare un sigaro nella luna.
Il signor Camarghaos non pareva più il medesimo uomo di prima. I suoi occhi avevano strani lampi, la sua fronte era increspata e le sue labbra sottili avevano un sorriso da far paura.
Era impazzito o era un originale più pericoloso di un alienato?
Il tenente, sorpreso ed anche spaventato da quell'improvviso cambiamento, aveva indietreggiato fino all'altra estremità della navicella, gridando:
– Signor Camarghaos, che cosa avete voi? Vi ho detto che abbiamo un uomo sotto la navicella, rimasto appeso alle corde e che quel disgraziato sta per abbandonarsi.
– Che cada in mare; – rispose l'aeronauta, freddamente, – doveva rimanere a terra. Quel triplice imbecille m'impedirà di raggiungere la luna.
– Scendiamo, ve ne prego!
– Io, scendere! – gridò l'aeronauta. – Non sapete dunque che ho speso tutto il mio avere per acquistare questo pallone e salire fino alla luna? Volete scendere? Provatevi!...
Poi, con un'agilità da quadrumane, il signor Camarghaos era balzato sull'orlo della navicella, a rischio di perdere l'equilibrio e di precipitare nel vuoto, e si era inerpicato fino al cerchio di legno, tenendo fra le labbra un coltello da manovra.
Prima che il tenente avesse potuto comprendere il motivo di quella salita, l'aeronauta aveva afferrato la corda corrispondente alla valvola di sicurezza e con un colpo rapido e sicuro l'aveva recisa, gettando il pezzo in mare.
– Discendete ora, se siete capace – disse, con un riso da ebete. – Camarghaos andrà nella luna e voi, anche se non vi piace, verrete a farmi compagnia. Su, su, sempre in alto!...
Il tenente, atterrito, era rimasto immobile, guardando con spavento quell'uomo che si lasciava oscillare sul cerchio, chiedendosi se per caso era in preda ad un incubo.
Un urlo straziante lo trasse dal suo stupore causato dalla condotta inesplicabile dell'aeronauta.
– Aiuto, signor tenente! Non mi reggo più! Mi lascio andare!...
– Aiutami, canaglia! – gridò l'ufficiale, tendendo i pugni verso il signor Camarghaos. – Vi è un uomo da salvare!
L'aeronauta non si era nemmeno degnato di rispondere. Guardava il mare che si stendeva sotto al pallone, misurandone la distanza e faceva con le braccia dei gesti come se eseguisse manovre inesplicabili.
Il tenente comprese che nulla avrebbe potuto ottenere da quell'uomo il cui cervello doveva essersi improvvisamente sconvolto.
Gettò all'intorno uno sguardo smarrito, cercando qualche oggetto che gli permettesse di trarre in salvo il disgraziato soldato.
I suoi occhi si erano fermati su una scala di corda. Afferrarla, saldare i due capi al margine della navicella e gettare gli altri due nel vuoto, fu l'affare di pochi secondi.
– Antonio, – gridò, – aggrappati!
Il soldato, un giovane di appena vent'anni, si dondolava all'estremità della fune, sette metri circa sotto la navicella. Era pallido come un cencio di bucato ed i suoi occhi neri e dilatati esprimevano un'angoscia inenarrabile.
Le sue dita, magre e nervose, stringevano la fune con suprema energia. Si vedeva però che le sue forze a poco a poco si esaurivano.
La scala, per fortuna, era sufficientemente lunga. Il soldato ebbe un momento di esitazione, temendo forse che non potesse sopportare il suo peso. L'istinto della conservazione fu più forte della paura.
Allungò una mano, poi l'altra e lasciò andare la fune, cacciando le gambe entro l'ultima traversa della scala.
– Sali, coraggio! – gridava il tenente.
Il disgraziato non osava muoversi. Guardava con terrore l'oceano che gli si apriva sotto, ad una distanza di ottocento metri e ansava affannosamente come se faticasse a respirare.
– Sali, coraggio! – ripeté l'ufficiale.
– Non posso, signor tenente, non oso – balbettò il poveraccio. – Non ho più forze.
– Non guardare l'abisso. Ti può cogliere una vertigine.
– Non riesco a staccare gli occhi.
– Signor Camarghaos! – gridò il tenente con voce minacciosa. – Venite ad aiutarmi.
– Vento dall'est – rispose l'aeronauta. – Andiamo bene.
– Mi avete inteso?
– Sì, bisogna gettare della zavorra, perché la luna è troppo alta. Ma questa sera noi giungeremo lassù. Gettate zavorra.
– Getterò in mare voi – urlò l'ufficiale, furibondo.
– Chi dirigerebbe allora il pallone?
Certo quell'uomo era impazzito. Il tenente si sentì bagnare d'un freddo sudore la radice dei capelli.
Come sarebbe finito quel viaggio con un pazzo che poteva da un momento all'altro sventrare il pallone e quel povero soldato che non osava salire la scala?
Era troppo tardi per pentirsi di aver accettato di far compagnia a quell'imbecille aeronauta.
Il signor Blancos fortunatamente era un uomo non facile a scoraggiarsi, né a perdere la testa.
Comprese che innanzi tutto era necessario mettere in salvo il soldato. Almeno in due avrebbero potuto tener a dovere il pazzo, nel caso che questi avesse tentato di guastare il pallone.
Prese da un canestro una bottiglia di vecchio Porto che aveva avuto la precauzione di portare con sé, la legò ad una funicella e la calò fino al soldato, dicendogli:
– Bevi, Antonio. Ti darà animo, e poi salirai.
Il giovanotto, che si sentiva stremato dalla profonda commozione provata e dallo spavento, non s'era fatto ripetere l'invito.
Con mano tremante afferrò la bottiglia e la vuotò più che mezza d'un sol fiato.
– Puoi salire ora? – chiese l'ufficiale.
– Mi proverò, signor tenente.
– Se l'abisso ti attrae chiudi gli occhi. Tieni bene strette le mani e non temere.
Il soldato, rinfrancato da quel vino generoso, aveva ritirato le gambe, poi aveva cominciato a salire. Pauroso non era, anzi prove di coraggio ne aveva già date e parecchie in diverse circostanze e poi aveva buoni muscoli.
Tenendo gli occhi chiusi per non subire l'attrazione del vuoto immenso che s'apriva sotto di lui, saliva, aiutandosi con le mani, coi piedi e perfino coi denti, mordendo le traverse, specialmente quando la scala subiva delle improvvise oscillazioni.
Ci vollero però parecchi minuti prima che salisse quei sei o sette metri che lo separavano dall'orlo della navicella, giacché si fermava di frequente.
Il tenente era pronto. Appena se lo vide vicino lo afferrò stretto fra le braccia e con uno sforzo prodigioso lo sollevò, deponendolo nella navicella.
Il povero ed involontario aeronauta aveva avuto il tempo di balbettare, con voce soffocata:
– Grazie, mio tenente.
Poi erasi rovesciato fra i sacchi di zavorra, svenuto.
Durante quel miracoloso salvataggio, il signor Camarghaos non aveva lasciato il cerchio di legno sospeso sotto l'estremità del pallone, anzi pareva che non si fosse nemmeno accorto della presenza di quel nuovo aeronauta.
Seduto a cavalcioni fra due corde, aveva continuato a guardare il mare, parlando fra sé. I suoi occhi brillavano d'una luce atona, il suo viso era alterato, le sue mani dilatate.
– Signor Camarghaos – disse l'ufficiale. – Aiutatemi almeno a far tornare in sé questo pover uomo.
L'aeronauta dapprima non rispose come se non lo avesse udito, poi abbassò gli occhi e, scorgendo il soldato, ebbe un'improvvisa esplosione di furore.
– Chi ha portato qui quell'imbecille? – urlò, digrignando i denti. – Egli impedirà ora al mio pallone di raggiungere la luna; gettatelo in acqua.
– Sarete voi che getteremo se non la finirete, – rispose il tenente; – all'inferno il vostro pallone, la vostra celebrità e anche la luna insieme.
– Gettate almeno della zavorra.
– Preferisco scendere anzi che salire.
– Ah! Ah! Volete scendere! – gridò il pazzo. – Guardate: là dentro troverete anche dei pescicani.
Occupato ad aiutare il soldato, il tenente non si era fino a quel momento occupato della direzione presa dal pallone, ma aveva creduto che avesse seguito la costa, tenendosi solamente un po' al largo.
Si può facilmente immaginare la sua commozione, quando s'avvide che il Tago in quella mezz'ora si era così enormemente allontanato dal suo punto di partenza, da non scorgere più la riva e tanto meno la cittadella.
Si trovava in pieno mare, spinto verso ponente da un vento fresco che anzi che scemare pareva che aumentasse di momento in momento.
Il signor Blancos ignorava l'estrema mobilità dei palloni. Vanno col vento e non è difficile che possano percorrere in sole poche ore perfino cinque o seicento chilometri.
Non vedendo più terra in alcuna direzione, provò un certo sgomento.
Guardò l'aeronauta che continuava a ripetere, ridendo stupidamente:
– Scendete! Scendete! Il mare è sotto a voi.
– Ma dove ci conducete? – chiese il tenente.
– Io, in nessun luogo! Seguiamo il vento.
– Dove andiamo a finire noi?
– Chi sa! Nella Persia, nell'Arabia, in Africa... che ne so io? Prima però saliremo fino alla luna.
Ciò detto si lasciò cadere nella navicella, afferrò un sacco di zavorra e lo gettò in mare.
– Che cosa fate? – gridò il tenente, fermandolo.
– M'innalzo – rispose l'aeronauta.
– Siamo già abbastanza alti!
– Non basta.
– La getterete più tardi, se il pallone scenderà.
– Come volete – rispose il pazzo.
E risaltò sul cerchio, incrociando le braccia sul petto, e tenendo gli occhi fissi verso l'ovest.
Il soldato in quel momento balbettò:
– Signor tenente, dove siamo noi? Non vedo più il mare sotto a me.
Il poveraccio credeva d'essere ancora sospeso alla corda e si stupiva di non vedere più sotto a sé la sconfinata superficie azzurra.
Si alzò, facendo uno sforzo, e guardò intorno con smarrimento.
– Non spaventarti – disse l'ufficiale. – Ormai non corri più alcun pericolo.
– Che cosa fa quell'uomo lassù, signor tenente?
– È l'aeronauta.
– Che il diavolo se lo porti via assieme al suo pallone. Che paura, signor tenente! Non so come non sia impazzito.
– È invece diventato pazzo l'aeronauta, mio buon Antonio – disse l'ufficiale. – Non possiamo più contare su di lui e se non pensiamo noi a sbrigarcela, non so dove andremo a finire.
– Scendiamo, signore.
– C'è il mare sotto e la terra è scomparsa.
– Che siamo destinati ad annegarci?
– Chi ne sa nulla! Vedremo.
Il Tago, spinto da quella brezza che non variava direzione, continuava la sua corsa verso il nord-ovest, tendendo sempre a salire.
Il calore solare dilatava il gas e l'aerostato s'innalzava senza che fosse necessario gettare zavorra. Aveva già toccato i mille e duecento metri e non accennava ad arrestarsi.
Il mare appariva come uno sconfinato velo azzurro. Nessuna vela, nessun bastimento a vapore si vedeva solcare l'orizzonte.
Alcune nuvolette erravano pel cielo, proiettando le loro ombre sul mare ed erano molto più basse del pallone.
Il tenente, seduto su un sacco di zavorra, taceva, guardando il pazzo. Tremava al pensiero che quell'uomo potesse commettere qualche sciocchezza.
Quello che soprattutto lo impensieriva era il coltello che l'aeronauta portava alla cintola e che non aveva posato. Se gli fosse saltato il ticchio di lacerare il pallone! Chi avrebbe potuto salvarli?
Fortunatamente il signor Camarghaos si manteneva tranquillo. Guardava sempre verso occidente e solo di quando in quando si lasciava sfuggire qualche frase sconclusionata.
Erano trascorse quattro ore senza che la situazione fosse cambiata. Alle undici il tenente s'accorse, con terrore, che il Tago cominciava a scendere.
Si era manifestata qualche lacerazione nel tessuto o il pallone era troppo vecchio per impedire la dispersione del gas?
– Antonio – disse l'ufficiale che guardava il pazzo. – Noi scendiamo.
– E la terra è almeno vicina, signore?
– Non vedo che acqua.
– Allora annegheremo.
– Signor Camarghaos! – gridò il tenente.
Anche il pazzo si era accorto che l'aerostato cominciava a cadere. Da qualche istante si agitava, guardando con inquietudine i barometri sospesi alle corde della navicella.
Udendo la voce del tenente, si volse verso di lui, dicendogli:
– Gettate in mare quel triplice imbecille. È per causa sua che il Tago comincia ad abbassarsi. Io non voglio finire in bocca ai pescicani; desidero raggiungere la luna.
– Butterò te in mare, triplice asino! – urlò il soldato. – Non è per capriccio mio che sono quassù.
L'aeronauta alzò le spalle, poi si rizzò in piedi sul cerchio, tenendosi aggrappato alle corde e guardò giù.
Il tenente ed il soldato credettero per un momento che volesse gettarsi a capofitto nell'oceano.
Invece, tornò a sedere, dicendo:
– Gettate della zavorra!
– Aiutami, Antonio – disse l'ufficiale. – Il signor Camarghaos non ci dà un cattivo consiglio.
– E quando l'avremo gettata tutta, signore? – chiese il soldato.
– Accadrà quello che Dio avrà deciso.
Vi erano dieci sacchi di sabbia accumulati nella navicella. Ne afferrarono due e li gettarono al di fuori.
Il pallone, scaricato improvvisamente da quel peso fece un balzo di trecento metri e così brusco che per poco il pazzo non fu scaraventato nel vuoto.
Lassù una nuova corrente d'aria spirava e questa dal sud al nord. Era la salvezza; se il pallone si manteneva in quella direzione, gli aeronauti avevano la probabilità di scendere su qualche spiaggia.
Il signor Camarghaos guardò le due bussole, poi, indirizzandosi al tenente, disse:
– Procurate di mantenere quest'altezza, se vi preme giungere a terra. La penisola di Kathiamar è a settentrione.
Aveva rinunziato al suo viaggio nella luna od aveva un momento di lucidità?
Il fatto sta che aveva indicato la buona direzione.
Poteva darsi che l'imminenza del pericolo avesse dato una buona scossa al suo cervello e che l'istinto dell'aeronauta si fosse risvegliato improvvisamente in lui. Ed infatti, il tenente, che lo guardava, si era accorto che negli occhi non gli brillava più quello strano lampo che lo aveva spaventato.
– Gettiamo ancora! – gridò il tenente.
Altri due sacchi scomparirono in mare.
Il pallone fece un altro salto nel momento in cui stava per tornare ad abbassarsi.
Il pazzo aveva lasciato il cerchio. La sua fronte era increspata e una viva preoccupazione si leggeva sul suo viso.
Guardò il tenente per parecchi istanti, poi gli disse:
– Se fra due ore non troveremo terra, andremo a bere in mare.
– Ma da dove fugge il gas? – chiese l'ufficiale.
L'aeronauta alzò il capo e fiutò l'aria più volte, scrollando il capo.
– È troppo vecchio il Tago – disse.
Poi si appoggiò all'orlo della navicella, si prese la testa fra le mani e non parlò più.
Il pallone si avanzava con rapidità straordinaria e ricadeva sempre. Già lunghe pieghe si formavano alla sua estremità inferiore e si sentiva l'odore del gas che sfuggiva attraverso i pori.
Altri due sacchi furono precipitati fuori, poi, una mezz'ora più tardi, i quattro ultimi.
Riguadagnò cinquecento metri, poi cominciò a ricadere, descrivendo delle larghe oscillazioni. S'abbassava bruscamente di quaranta o cinquanta metri, poi sostava qualche po', quindi tornava a ricadere con maggior rapidità.
Il tenente ed il soldato si guardavano con angoscia. La terra non compariva ancora e non vi era quasi più nulla da gettare.
Ancora mezz'ora ed i tre disgraziati dovevano ricevere il primo bacio delle onde.
– Signor Camarghaos – disse l'ufficiale, vedendo che la superficie del mare si avvicinava rapidamente. – Non vi è alcun mezzo per arrestare la discesa del Tago? Non abbiamo più zavorra.
– Gettate le ancore... tutto – rispose l'aeronauta.
L'ufficiale e Antonio lanciarono fuori le due ancore, poi i cordami, i panieri delle provvigioni e le armi.
La discesa si arrestò.
Il Tago si librava allora a soli quattrocento metri dalla superficie dell'oceano.
Si udiva distintamente il fragore delle onde.
Quella sosta durò dieci minuti, non di più.
Il pallone si vuotava a vista d'occhio e le pieghe si allungavano sempre più.
Per fortuna la corrente non era variata e gli aeronauti venivano trasportati verso il nord con una celerità di trentacinque a quaranta chilometri all'ora.
– Cadiamo ancora! – esclamò il soldato con terrore. – La distanza scema ad ogni istante; che cosa fare, signore?
– È a Camarghaos che lo chiedo – disse il tenente.
L'aeronauta si era voltato. Aveva il viso alterato, gli occhi fiammeggianti, i denti stretti.
Tese i pugni verso il soldato, urlando:
– È per causa tua, stupido, che noi cadiamo! Salta in acqua!
– Provati a toccarmi! – gridò Antonio, incrociando le braccia.
Il tenente si era gettato fra loro, respingendoli. In quel momento un'onda si rovesciò sulla navicella, riempiendola.
Il signor Camarghaos s'aggrappò al cerchio e s'issò fino alle maglie. Poi, estratto il coltello, cominciò a tagliare i sostegni.
– In alto, Antonio! – gridò il tenente. – Cerca di abbandonarci!
Ebbero appena il tempo di salire sul cerchio. Il pazzo, che non aveva cessato di maneggiare il coltello, aveva reciso tutte le corde.
Un'onda s'infranse sulla parte inferiore del pallone avvolgendo gli aeronauti e staccando la navicella, la quale scomparve fra la spuma.
Il Tago, alleggerito, correva e balzava sulle creste. Toccava, poi tornava ad alzarsi, quindi precipitava ancora con scosse convulse, senza cessare di correre.
Le sue pieghe, facendo vela, ricevevano il vento.
Rantolava vuoto per metà e stava per lasciarsi cadere per sempre.
Il tenente ed il soldato si tenevano aggrappati disperatamente alle maglie, ora metà sommersi, ora nascosti interamente tra i flutti.
Sopra di loro si agitava il pazzo e lo udivano ripetere:
– Mio povero Tago!...
Quella lotta fra le onde durava da alcuni minuti, quando videro Camarghaos impugnare il coltello che teneva ancora alla cintura e abbandonare le maglie.
– Che cosa fate, signor Camarghaos? – gridò l'ufficiale.
Il viso del pazzo era spaventevole. Aveva i lineamenti sconvolti come da una rabbia feroce e dalle sue labbra sfuggivano imprecazioni.
Era giunto sopra Antonio. Si lasciò bruscamente cadere addosso a lui, serrandoglisi contro e circondandolo con le gambe e col braccio sinistro.
Le sue pupille scintillavano come quelle d'un gatto, con uno splendore fosforescente.
– Sei tu, maledetto, che ci hai perduti! – ruggì.
– Fermatevi, Camarghaos! – gridò il tenente, che si preparava a correre in aiuto del povero giovanotto.
L'aeronauta lo guardò come sorpreso, poi rise d'un riso da belva, mostrando i suoi bianchi e acuti denti.
– Lo uccido! – urlò.
Nella sua destra brillava la lama azzurra del coltello.
Il soldato, pur tenendosi aggrappato con una mano alle maglie della rete, si difendeva con l'energia che infonde la disperazione, cercando di svincolarsi da quella stretta e di resistere alle onde, che correvano all'assalto del pallone.
L'ufficiale si era slanciato, tenendosi appeso all'ultima corda. Afferrò il pugno dell'aeronauta e glielo torse.
Il pazzo lasciò cadere l'arma, mandando un grido di dolore, poi si lasciò andare, lanciando un'ultima imprecazione.
Le onde si schiusero per riceverlo ed il disgraziato scomparve fra la spuma.
Il pallone, scaricato da quel peso, aveva fatto un salto improvviso, trascinando in alto il tenente ed Antonio, più morti che vivi.
Salì quasi verticalmente per tre o quattrocento piedi, poi riprese la corsa sfrenata verso il settentrione, girando vertiginosamente su se stesso.
In quell'istante un grido era sfuggito dalle labbra del tenente:
– Una nave! Una nave! Aiuto!
Un veliero si accostava, correndo delle lunghe bordate. Il suo equipaggio doveva avere scorto il pallone e cercava di raggiungerlo. Sulla sua tolda si vedevano degli uomini correre affannosamente e fare con le braccia dei gesti.
– Signore – disse Antonio. – Cerchiamo di fermare questo maledetto pallone.
– È impossibile! Il vento ci porta!
– Vuotiamolo!
– Sì, la corda della valvola! Meglio ricadere in acqua!
Al di sopra della sua testa aveva scorto la fune che il pazzo aveva in parte tagliata. Il coraggioso ufficiale a rischio di squilibrare l'aerostato, salì sulle maglie, la raggiunse e tirò fortemente.
Il gas sfuggiva rapidamente dalla superficie superiore. Il tenente non lasciava la corda.
– Scendiamo! – gridò Antonio.
– Non abbandonare le maglie! Reggiti.
Il Tago cadeva a precipizio. Era ormai interamente vuoto e solamente il vento lo sorreggeva un poco.
La nave si era fermata e aveva lanciato in acqua una scialuppa.
– Antonio! – gridò il tenente, vedendo le onde lambire l'orlo inferiore del pallone. – Lasciati andare!
Allargarono le mani quasi simultaneamente e s'immersero. Quando tornarono alla superficie scorsero il Tago ad una grande altezza, che fuggiva verso nord.
La scialuppa arrivava. Era montata da sei uomini, i quali maneggiavano i remi poderosamente.
I due aeronauti si sentirono strappare dalle onde e deporre nella scialuppa.
– Grazie – balbettò il tenente.
Poi svenne.
Quando tornò in sé, il veliero entrava nel piccolo porto di Diu.
In quanto al pallone, era scomparso verso nord, né più mai se ne poté conoscere la sorte.