I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/L'isola del Diavolo

L'isola del Diavolo

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La pioggia di fuoco Un dramma in aria

L'ISOLA DEL DIAVOLO


A circa cinquanta miglia dalla Guaiana francese, colonia grande per estensione, ma non per popolazione, che è situata nell'America meridionale, ed è bagnata dalle tiepide acque del golfo del Messico, sorge un'isola che godette per parecchi anni di una triste celebrità, essendovi stato relegato il capitano Dreyfus che il grande scrittore Emilio Zola difese strenuamente, ottenendo alla fine la liberazione di quel disgraziato innocente.

Quell'isola o meglio quell'isolotto, fu chiamato del Diavolo, e la Francia se ne serve come luogo di relegazione dei condannati politici e anche degli assassini più pericolosi, per togliere loro ogni mezzo di evadere.

Nessuno scoglio è più triste di quello del Diavolo, e l'impressione che ne riportano i forzati quando vi vengono sbarcati, è così desolante che anche i più incalliti nel delitto non possono trattenere le lagrime.

Quel brano di terra, perduto nell'ampio golfo del Messico, che ha soltanto la lunghezza d'un miglio, la larghezza di quattrocento metri, è tutto coperto di nude rocce, non avendo alcuna verzura per rallegrare la vista; vi si vede solo qualche vecchio albero dai rami secchi e le foglie bruciate dal sole implacabile, che versa su quel luogo una vera pioggia di fuoco.

Un nome più adatto non si poteva imporre a quell'isolotto, e questa è l'opinione non solo dei forzati e dei loro sorveglianti, bensì anche dei naviganti americani, i quali, anzi, si guardano bene di accostarvisi per non urtare contro le scogliere che insidiano le navi, essendo sott'acqua.

Le abitazioni consistono in miserabili capanne e alcune poche costruzioni massicce, che in lontananza somigliano a caserme in rovina, e che dànno a quel luogo un aspetto di miseria e di desolazione che stringe il cuore.

Perfino il suolo è arido, quasi improduttivo; sulla linea netta dei colli che lo percorrono non allignano nemmeno le graminacee. Solamente pochi tratti, dopo sforzi immensi, sono riusciti coltivabili e sono quelli che si affidano ai forzati; ma quanto sudore costa un'umile carota od un magrissimo e punto succoso cavolo!

Gli è perciò che i forzati, ai quali l'amministrazione del penitenziario assegna ad ognuno un centinaio di metri quadrati per formarsi un orticello, preferiscono accontentarsi del cibo grossolano che viene loro fornito dal governo, piuttosto che rompere le zappe contro quel terreno che nulla rende e che non potrà mai variare i loro pranzi, né le loro cene.

I forzati, che vengono condannati alla deportazione all'isola del Diavolo, sono obbligati, innanzi tutto, a costruirsi una capanna per ripararsi dai raggi del sole, che sono sovente micidialissimi dalle undici alle quattro pomeridiane, e anche dai raggi lunari, che non sono meno pericolosi in quelle regioni tropicali, accecando molto spesso coloro che commettono l'imprudenza di addormentarsi all'aperto durante la notte.

Chiedono l'aiuto dei compagni, ordinariamente, i quali si prestano quasi sempre volentieri alla richiesta del nuovo deportato; d'altronde quei ricoveri che sono lunghi venti piedi, ad un solo piano, con un semplice tetto di paglia, il pavimento di terra battuta e le pareti di fango, con una sola finestra, non sono difficili a costruirsi.

La mobilia, si capisce, è primitiva e anche quella dev'essere fatta dall'inquilino e consiste in una rozza tavola, e in due grosse pietre che servono da sedie.

L'amministrazione non passa ai forzati che un letto da campo, senza materassa, né pagliericcio, un capezzale di paglia ed il vitto, il quale consiste in una libbra e mezzo di pane, di qualità scadentissima, in un pezzo di carne di bue salata o di lardo, in un po' di fagiuoli o di riso, in un po' d'olio, che deve servire di condimento ed in sei centilitri di tafià, che è una specie di acquavite pessima.

Ben di rado i deportati hanno qualche pezzo di carne fresca. Tutte le derrate alimentari sono di pessima qualità, vecchie e guastate per lo più dai vermi, nondimeno cercano sempre di migliorare il vitto giornaliero poiché, cosa davvero strana, fra quei bricconi vi è uno spirito di solidarietà ammirabile.

Chi aggiunge qualche legume raccolto, dopo stenti infiniti, nel suo magro giardino; chi qualche pesce preso sulle rive del mare; oppure qualche uccello acquatico che si è lasciato accalappiare dai lacci tesi in gran numero sulle scogliere.

Quelli che sono provvisti di danaro – e non sono pochi – acquistano dalla dispensa della amministrazione candele, zucchero, caffè, formaggio, tabacco e zolfanelli pagati a caro prezzo.

Alla domenica soltanto è concesso ai deportati l'acquisto di venticinque decilitri di vino a testa.

Però, anche quelli che possono disporre di un po' di danaro – di cui è obbligatorio il deposito – non possono spendere più di cinque lire al mese e la dispensa dell'isola del Diavolo traffica indegnamente sulla miseria e sulla sciagura, vendendo ogni cosa a carissimo prezzo.

I deportati, ed anche i forzati, si può facilmente capire, male si adattano a quel sistema di vita e, appena possono, tentano di evadere, mettendo in serio pericolo la loro vita, pur di lasciare per sempre l'isola diabolica.

Dei colpi audacissimi sono stati fatti a più riprese da quei disgraziati. Si ricorda l'ardito tentativo fatto da undici di quei bricconi, dotati d'un fegato straordinario, i quali assalirono un piccolo veliero, che si era ancorato presso l'isola per sbarcare le provviste necessarie all'amministrazione.

Mentre la maggior parte dell'equipaggio era sceso a terra per passare la serata coi sorveglianti e vuotare insieme coi marinari alcune bottiglie di Bordeaux, i forzati, approfittando dell'oscurità, salirono cautamente sul legno, legarono ed imbavagliarono i due marinari di guardia, che sonnecchiavano sul ponte e, conoscendo la manovra delle vele, senz'altro si spinsero al largo.

Disgrazia volle che scoppiasse fra di loro un disaccordo, che terminò a colpi di coltello. Tre giorni dopo il piccolo veliero veniva raggiunto da una cannoniera francese, che si era slanciata sulle loro tracce, e i superstiti venivano ricondotti all'isola del Diavolo e condannati a cinque anni di catena corta.

Di undici non ne erano sopravvissuti che quattro e i due marinari che si erano ben guardati di prendere parte alla rissa.

Un'altra volta sette forzati, per la maggior parte arabi dell'Algeria, avendo notato che la sera un solo uomo rimaneva a guardia della scialuppa a vapore, di cui si serviva il comandante del penitenziario per recarsi di quando in quando alla Guaiana, o meglio a Cajenna, decisero di approfittarne per lasciare quell'isola maledetta.

Ed infatti, una notte molto tempestosa i furfanti sorpresero il guardiano, lo ridussero facilmente all'impotenza, lo imbavagliarono, lo portarono a terra ed essendovi fra di loro un antico fochista, accesero la macchina, dirigendosi a tutto vapore verso la Guaiana inglese, i cui abitanti accordano facilmente ospitalità ai fuggiaschi dei penitenziari francesi delle isole della Salute, di Cajenna e di San Lorenzo.

Avevano però fatto male i loro calcoli. Dopo sette ore il carbone, consumato con pazza prodigalità, era sparito ed a bordo non avevano né remi, né vele.

Una tempesta li sorprese e li scaraventò verso la foce del Maronì, dove trovasi il penitenziario di San Lorenzo.

Volendo ad ogni costo sfuggire alla galera, si gettarono nei grandi boschi, sperando di potersi ancora rifugiare sul territorio olandese, che è contiguo con quello della Guaiana francese.

Mal pratici dei luoghi, si smarrirono in quelle immense boscaglie e qualche settimana dopo vennero trovati i loro scheletri spolpati dalle formiche bianche e dalle termiti.

I disgraziati erano morti di sfinimento ed i terribili insetti, che sono avidissimi di carne umana, li avevano ripuliti meglio di un preparatore anatomico.

Tuttavia alcune evasioni riescono, non ostante l'attiva sorveglianza dei guardiani, ed è rimasta celebre quella dei fratelli Panard, due disgraziati la cui innocenza venne più tardi ampiamente riconosciuta.

Erano costoro due pescatori bretoni, due galantuomini, che non avevano mai fatto male ad alcuno, e che godevano fama buonissima fra i marinari della costa bagnata dalle acque della Manica.

Un giorno venne trovato sulla spiaggia un ricco possidente assassinato con ben undici colpi di coltello.

Non si sa il perché, nacque il sospetto che gli autori di quell'efferato delitto fossero Henry e Jean Panard.

Il fatto si è che i due disgraziati, non ostante le loro proteste ed i pianti della loro vecchia madre, che non aveva altro sostegno che le braccia vigorose di quei bravi figliuoli, vennero arrestati e condannati a vent'anni di deportazione nei penitenziari della Guaiana.

Si trattava d'uno spaventevole errore giudiziario, tuttavia le autorità francesi, convinte che fossero realmente colpevoli, l'imbarcarono su un trasporto dello Stato che li condusse all'isola del Diavolo.

I fratelli Panard, che si sapevano innocenti del delitto, non si erano affatto rassegnati e loro primo pensiero fu quello di tentar di fuggire per rivedere la loro povera vecchia, che amavano svisceratamente e che forse moriva lentamente di dolore.

Giovani, vigorosi entrambi, decisi a tutto, anche a sfidare la morte, pur di riuscire, studiarono attentamente il modo di evadere, ma gravi difficoltà si opponevano. Passarono così un anno, cercando sempre l'occasione di andarsene, quando il caso li favorì.

Era morto uno dei sorveglianti ed il becchino del penitenziario erasi ammalato in seguito ad una febbre perniciosa.

Henry fu incaricato di mettere il morto nella cassa e di scavargli una fossa.

Il bretone obbedì, ma quando vide la bara, gli nacque l'idea di usarla per fuggire.

Era non già sottile come quelle che si usano comunemente, anzi assai spessa, ed era fatta di grosse tavole di quercia e molto vasta, essendo il morto un uomo corpulento e di statura altissima.

– Perché non potrebbe, bene impeciata, servire da scialuppa? – si disse il povero pescatore. – Può contenere benissimo me e anche mio fratello. Non ci occorrono che un paio di remi, che noi potremo facilmente procurarci nel cantiere.

Seppellì il cadavere, ma quando calò la notte, scavò nuovamente la fossa e trasse il feretro che poteva servirgli d'imbarcazione, poi andò a trovare il fratello, che abitava una capannuccia situata poco lontana dal piccolo cimitero.

– Jean, – gli disse, – è giunto, finalmente, il momento di abbandonare quest'inferno. Sei sempre deciso a tutto?

– Sempre, pur di rivedere nostra madre e di mostrare ai giurati ed ai giudici che ci condannarono, la nostra innocenza – rispose il fratello.

– Domani, se vuoi, possiamo essere ben lontani da qui.

– Dimmi che cosa devo fare e non preoccuparti d'altro.

– Recarti di soppiatto al cantiere, prendere un paio di remi, qualche po' di pece o di resina e venirmi a raggiungere alla punta Gallifet.

Jean, che aveva piena fiducia nel fratello, più vecchio di lui d'un paio d'anni e che lo sapeva coraggiosissimo, non chiese maggiori spiegazioni e, appena le tenebre calarono, si recò di nascosto al piccolo cantiere dell'isola per non farsi scorgere dai sorveglianti, e s'impossessò di quanto aveva bisogno Henry.

Verso la mezzanotte si avviò alla punta Gallifet e trovò Henry con la bara, che gli disse senza preamboli:

– Ti senti l'animo di affrontare il mare in questa funebre scialuppa?

– Siamo figli di pescatori – gli rispose semplicemente Jean. – Sono pronto a fare tutto quello che vorrai purché usciamo da questa bolgia infernale.

– Aiutami dunque ad impeciarla onde l'acqua non v'entri.

– Potremo giungere fino alla costa su un galleggiante così fragile?

– Siamo entrambi due abili nuotatori, – rispose Henry, – d'altronde bisogna correre qualche rischio ed i marinari ne affrontano tutti i giorni.

– Ed i pescicani ci lasceranno tranquilli? Tu sai che abbondano intorno all'isola.

– Ci difenderemo a colpi di remo – concluse Henry freddamente. – E poi morire qui o in bocca agli squali, è tutt'una, fratello.

Riparati sotto un alto scoglio, impeciarono per bene la barca, o meglio la bara, e, quando furono certi di non correre il pericolo di vederla andare a fondo, s'imbarcarono, portando con sé le poche provviste che Henry aveva economizzate.

Il mare quella notte era calmissimo, una vera fortuna pei due poveri pescatori. Diversamente non sarebbero potuti andare molto lontano con quel fragile galleggiante che non avrebbe potuto reggere a nessun colpo di cavallone.

Si tennero dapprima a riparo delle scogliere per non farsi scorgere dalle sentinelle scaglionate lungo le rive, poi, quando ebbero raggiunto la punta meridionale dell'isola, presero risolutamente il largo per tentare di approdare alla Guaiana olandese, che era la più vicina, e che si trovava a centoquaranta miglia.

Si erano allontanati dal penitenziario d'una mezza dozzina di chilometri, quando Jean, che remava dietro al fratello, osservò alla superficie del mare dei ribollimenti che gli fecero gelare il sangue nelle vene.

– Henry, – disse con angoscia, – siamo seguiti dai pescicani.

– Dove sono? – chiese il fratello con ansietà.

– Ci vengono dietro.

– Molti?

– Non so.

Henry s'interruppe dal remare e s'alzò in piedi con precauzione, onde la strana barca non si rovesciasse.

S'accorse subito che Jean non si era ingannato. A quindici passi da loro emergevano di quando in quando delle pinne, che subito si rituffavano.

– Sì, i pescicani – disse. – Ecco il pericolo maggiore. Se ci urtano, rovesceranno la barca e allora sarà finita per noi.

– Che cosa facciamo?

– Sediamo onde la barca sia meglio equilibrata ed il primo squalo che cerca di mostrarci i denti, riceviamolo a colpi di remo. Guai se non riusciamo a spaventarli ed a tenerli a distanza.

Sedettero e ripresero la corsa, perché, oltre quei terribili predoni del mare, correvano anch'essi pericolo, se non guadagnavano via, di venire ripresi dalle scialuppe del penitenziario e ricondotti nell'isola maledetta.

Gli squali pareva che pel momento non avessero intenzioni bellicose. Forse avevano trovato un pasto abbondante nelle acque dell'isola, che sono ordinariamente ricche di pesci, e si riserbavano ad assaggiar più tardi la carne dei due disgraziati bretoni, almeno, giudicando dall'ostinazione con cui seguivano la bara.

Jean ed Henry continuarono a remare tutta la notte, allontanandosi sempre verso sud, e quando il sole comparve con loro grande gioia non videro più, sulla linea dell'orizzonte, le colline dell'isola del Diavolo.

– Siamo salvi – disse Jean. – Prima che i sorveglianti s'accorgano della nostra assenza, trascorreranno parecchie ore e guadagneremo nel frattempo diverse miglia ancora.

– Hum! Salvi! – rispose Henry, che appariva assai preoccupato. – Ecco, invece, il grande pericolo. Li vedi venire?

Jean si volse e non poté frenare un brivido di spavento.

Quattro enormi pescicani erano comparsi a galla, mostrando le loro bocche armate d'una triplice fila di denti triangolari e mobili, ed i loro musi aguzzi. I loro piccoli occhi, dal lampo azzurro, fissavano insistentemente i due bretoni.

– Preparati a percuoterli, fratello, – disse Henry, – e bada di non rovesciare la bara.

Il più grosso dei quattro pescicani, che era probabilmente il più affamato, ad un certo momento si precipitò sulla leggera imbarcazione e tentò di volgersi per vibrarle un poderoso colpo di coda.

Henry, che lo aveva veduto a tempo, raccolse le proprie forze e gli assestò un terribile colpo di remo, proprio sul muso, producendogli una ferita assai profonda, essendo la pala sottilissima.

Il mostro, che non si aspettava certo quell'accoglienza, mandò un profondo sospiro che parve un tuono udito in lontananza, e s'inabissò, lasciando alla superficie un cerchio di sangue.

– Va' all'ospedale, se ve n'è uno pe' pescicani! – gridò Jean. – Sorte a chi tocca!

Un secondo squalo, credendosi più fortunato del primo, si precipitò a sua volta all'assalto e ricevette da Jean un colpo così poderoso da obbligarlo a tornare indietro più che in fretta.

– Che ne abbiano abbastanza, fratello? – chiese il giovane.

– Vedrai che torneranno alla riscossa – rispose Henry. – Sei pronto a ricominciare?

– Il remo è solido e non si romperà – rispose Jean.

I tre pescicani per un po' di tempo si contentarono di seguire la bara, poi tornarono all'attacco, cercando di rovesciare i due bretoni in acqua a gran colpi di coda.

Allora s'impegnò una lotta assolutamente spaventevole.

I due fratelli picchiavano furiosamente a destra ed a manca urlando per cercare di spaventare i mostri del mare; ma questi, quantunque fossero feriti in più parti e perdessero sangue in abbondanza, certi della vittoria finale, non lasciavano le prede.

Già i due evasi s'aspettavano ormai di vedersi in acqua, fra i denti formidabili di quei mostri, quando Henry, nel voltarsi, scorse un piccolo veliero, che correva verso di loro.

– Fratello! – gridò. – Ci vengono in aiuto! Percuoti sodo!

Occupati come erano a difendersi non si erano accorti della presenza di quel legno.

L'equipaggio doveva essersi accorto della loro critica posizione e, supponendo forse che fossero naufraghi, aveva messo la prora verso la bara. Non era ormai che a quattro gomene e si vedevano i marinari affaccendati a mettere in acqua una grossa scialuppa.

– Aiuto! – gridò Jean, che non sapeva più come fare a tenere lontani gli squali.

Una voce partita dalla nave rispose subito nell'egual lingua:

– Coraggio! Veniamo in vostro soccorso!

Un momento dopo la scialuppa lasciava il piccolo naviglio e correva a gran colpi di remo verso la bara. Era montata da sei uomini armati di carabine e di ramponi.

Con una scarica fecero fuggire i pescicani più o meno feriti, e presero a bordo i due evasi, conducendoli sulla loro nave, dove furono ricevuti cordialmente dal comandante. Quel veliero era montato da inglesi, i quali si prestano sovente ad aiutare i forzati ad evadere dai penitenziari. Jean ed Henry, miracolosamente salvati, furono condotti alla Giamaica, dove poterono finalmente scrivere alla loro povera madre.

Quell'evasione audacissima fece impressione anche in Francia, e, siccome era in quel frattempo sorto il dubbio che fosse stato commesso un errore giudiziario, fu riaperto il processo e i due disgraziati vennero assolti completamente.

L'assassino fu arrestato quattro mesi dopo e ghigliottinato.