I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Sulla Costa d'Oro

Sulla Costa d'Oro

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Lo schiavo Un dramma nel deserto

SULLA COSTA D'ORO


Voglio raccontarvi oggi una storia emozionante che ho raccolta in uno dei miei viaggi sulle coste dell'Africa occidentale: storia verissima, intendiamoci, veh!...

Nel 1850 mi trovavo sulla Costa d'Oro, nella piccolissima città d'Oura; dico città per modo di dire, poiché eccettuate alcune poche fattorie, tenute da negozianti olandesi e tedeschi, non si vedono che delle misere capanne di paglia, di fango o di tronchi d'albero, coi tetti formati da gigantesche foglie di palmizi.

Quella cittadella è abitata da brutti negri, che hanno le labbra molto grosse, il naso schiacciato, la fronte bassa e la testa coperta da capelli radi, e ricciuti e sempre unti d'olio d'elais o di burro, che dànno a loro un aspetto ributtante e che li fa puzzare orrendamente specie poi sotto quel sole ardente.

In quell'epoca quella cittadella faceva parte del regno di Dahomey, che ora è stato occupato dai francesi. Quanti orrori non ci ricordano i monarchi di quel regno! Passavano pei più sanguinari di tutto il continente africano, ed a ragione.

Le crudeltà commesse da quei re erano inaudite. Ogni anno, colla scusa di propiziarsi gli dei che adoravano, sacrificavano migliaia e migliaia di schiavi. Si narra che, nelle grandi feste, facessero mettere su di una fila trecento buoi e trecento schiavi alternati e che ad un loro segnale le seicento teste cadessero al suolo, recise da altrettanti carnefici.

Alcuni anni or sono, un di quei monarchi, in una festa, fece uccidere mille schiavi per ornare, coi loro teschi, il padiglione reale. Nel 1877 Geletè, uno dei più sanguinari monarchi, fatti prigionieri alcuni inoffensivi portoghesi appartenenti ad una fattoria, prima li fece danzare per parecchie ore dinanzi a sé per scacciare la noia che lo assaliva, poi li fece impalare vivi!...

Mille altre nefandezze vi sarebbero da raccontare. Quando, per esempio, un re moriva, si decapitavano parecchie migliaia di schiavi perché i teschi lo accompagnassero, come scorta d'onore, nel gran viaggio all'altro mondo; se si doveva fabbricare un nuovo tempio, prima si innaffiava la terra con sangue umano; se moriva un membro della famiglia reale, si fabbricava l'urna mortuaria con sangue ed argilla; se un esercito veniva sconfitto, tutti i soldati venivano trucidati. Che più? Quando un disgraziato messo portava qualche brutta notizia, il monarca, a titolo di ringraziamento, lo faceva impalare dinanzi ai propri occhi.

Si poteva ben dire che sotto quei monarchi, il regno era stato convertito in un immenso cimitero. Ed infatti non si potevano fare due miglia verso l'interno, senza incontrare ammassi d'ossa umane.

Ciò premesso, tanto per darvi un'idea di quel barbaro regno, vi racconterò ora l'avventura promessavi.

Fra gl'indigeni che venivano a bordo della nostra nave, avevo notato un uomo di belle forme, giovane ancora e che, cosa strana per un negro, aveva i capelli completamente bianchi.

La sua statura era quasi gigantesca e possedeva una tale forza, da sollevare da solo un'àncora, che di solito tre uomini stentavano a muovere. Si chiamava Ongo ed era nato nel reame di Benin.

Molto stupito di vedere un negro così giovane coi capelli bianchi, un giorno, durante il riposo del mezzodì, gli chiesi il motivo di quella singolarità.

– È stata la paura – mi rispose in un francese abbastanza comprendibile.

Lo guardai con uno stupore facile a immaginare. Non avrei mai creduto che un uomo così forte e che dall'aspetto sembrava fierissimo, avesse potuto provare della paura. Egli comprese probabilmente la mia sorpresa, poiché si affrettò a dirmi:

– Eppure io ero uno dei più famosi cacciatori di leoni e di leopardi; ed ho anche ucciso un bel numero di quelle fiere e senza armi da fuoco.

– Ebbene, – gli dissi, – se tu mi racconti in seguito a quale avventura i tuoi capelli sono diventati bianchi, io ti regalerò una bella fascia rossa.

Il negro, lieto di quella promessa, mi invitò alla sera nella sua capanna, la quale si trovava presso la spiaggia, all'ombra di un foltissimo banano, dalle foglie smisurate, e vi assicuro che non mancai.

Ed ora, ecco l'istoria.


* * *


Dovete sapere che i negri del Dahomey, fra le loro tante bizzarrie, portano un rispetto grandissimo ai serpenti, credendoli amati dalle loro divinità. Immaginatevi che a Vidak trovasi un tempio dedicato esclusivamente a quegli schifosi rettili. Là dentro ve ne sono delle migliaia e vi sono appositi guardiani incaricati di nutrirli.

Tutti coloro che incontrano dei serpenti – e ve ne sono moltissimi nelle foreste dell'interno – invece di ucciderli li prendono con garbo e li portano in quel tempio coi dovuti riguardi.

Raccontasi, anzi, che una madre, alla quale un serpente divorò un bambino, invece di disperarsi e di uccidere l'ingordo rettile, lo portò divotamente a Vidak e lo adorò.

Anche il re rispettava i serpenti, anzi aveva decretate pene severissime per tutti coloro che avessero, in qualche modo, maltrattate od uccise quelle brutte bestie.

Come vi dissi, Ongo, prima di fare il facchino di porto, era stato cacciatore di leoni. Dotato d'una forza straordinaria e d'un coraggio a tutta prova, si cacciava nelle più fitte foreste del paese, affrontando, colla sua sola lancia, le fiere che incontrava.

Si era, in tal modo, creata una grande reputazione e perfino Geletè, il re del Dahomey regnante in quell'epoca, aveva voluto vederlo, obbligandolo di poi a regalargli la metà delle pelli, che ricavava da quelle pericolose cacce.

Ora avvenne che un giorno, Ongo, mentre inseguiva un leone, che si era mostrato nei dintorni di Abomey, capitale del regno, venisse improvvisamente assalito da un serpente pitone dei più grandi.

Questi rettili non sono velenosi, ma sono dotati di una forza così prodigiosa, da stritolare fra le loro spire perfino un bue. Quello che era piombato addosso al cacciatore di leoni era lungo sette metri e grosso quanto la coscia d'un uomo.

Il negro, che non si era accorto della presenza del pericoloso nemico, fu avvolto fra le spire del rettile prima ancora che avesse potuto afferrare il coltello che portava alla cintura.

Qualunque altro uomo sarebbe stato inevitabilmente ridotto in un ammasso di carni sanguinolenti, ma Ongo era fortissimo. Con ambe le mani afferrò la testa del mostruoso rettile e gliela torse in modo da spezzargli le vertebre del collo.

Il negro era salvo, o almeno lo credeva; disgraziatamente per lui, una donna della guardia del re era stata presente al terribile caso ed invece di rallegrarsi col bravo cacciatore, andò a denunziarlo.

Quel serpente era stato dichiarato sacro, quindi nessuno doveva ucciderlo.

Ongo avrebbe dovuto, invece di difendersi, lasciarsi stritolare per non disobbedire al feroce monarca.

Non se ne diede per inteso del pericolo che correva. Persuaso che nessuno lo avesse veduto, e anche convinto di aver agito per difesa personale, continuò la sua caccia. Uccise, dopo un lungo inseguimento, il leone; lo scuoiò; quindi si diresse verso Abomey.

La donna, come si disse, era subito corsa a denunziarlo, sicché appena il negro giunse nella vicinanza della città, si vide circondato da una trentina di soldati della guardia reale.

– Vieni dal re, – gli dissero, – egli desidera rivedere il cacciatore dei leoni.

Ongo, non ostante il suo coraggio, tremò, sapendo che Geletè non lo avrebbe risparmiato. Ebbe per un momento l'idea d'impugnare una lotta disperata con quei soldati, poi si trattenne vedendo comparire una compagnia di donne armate. Debbo dirvi che i re del Dahomey tenevano, ai loro servigi parecchi battaglioni di donne, scelte fra le più belle e le più robuste delle campagne.

Il loro numero superava il migliaio e godevano fama di essere più valorose degli uomini. Anzi, erano loro che dopo i combattimenti mostravano maggior ferocia, trucidando e decapitando tutti i feriti.

Ongo, vedendo comparire quelle donne, non osò ribellarsi e si lasciò condurre in una capanna costruita con grossi tronchi d'albero e circondata da numerose sentinelle.

Era ormai certo della sua sorte; però, essendo nato nel vicino reame di Benin, aveva la speranza di poter evitare la morte, invocando la sua ignoranza sulle leggi del paese.

L'indomani, sotto buona scorta, veniva condotto nel palazzo reale. Il re lo ricevette nel suo giardino, indolentemente sdraiato su d'un soffice tappeto all'ombra del suo ombrello decorato di un coccodrillo.

– Sai perché ti si conduce in mia presenza? – gli domandò Geletè.

– No – rispose Ongo senza spaventarsi.

– Che hai fatto ieri alla foresta?

– Ho ucciso un leone.

– E mi hai ucciso un pitone. Ora, la legge del paese esige che chi ammazza un serpente deve morire, e tu pure morrai.

– Ma sire!... Il serpente mi voleva divorare e poi sono suddito di Benin.

– Peggio per te, se ti sei recato alla foresta. In quanto al Re di Benin digli che reclami e mi vedrà battere le porte della sua capitale, giacché mi occorrono cinque o seicento schiavi da sacrificare nella festa dei costumi.

Non valsero le preghiere e le lagrime. Il negro fu strappato dai piedi del monarca, e condannato a servire da pasto alle fiere. Egli fu caricato su di un cavallo, solidamente legato, e scortato da trenta amazzoni del re, armate di enormi nyek-plo-hento, sorta di coltellacci e di fucili, fu tratto sulle rive del fiume Langos, importante corso d'acqua, che credesi abbia le sorgenti nei monti Saraga e che, dopo aver bagnato parecchie cittadelle, gettasi in mare all'est di Wau.

Le rive di questo fiume sono coperte da palme d'elais che i negri chiamano comunemente mava, bellissime piante, alte più di trenta metri, con foglie di quindici piedi che cadono a mo' d'ombrello, e le cui frutta, riunite a enormi grappoli, di un bel giallo dorato, dànno un olio assai ricercato sui mercati europei e che si ricava dal mallo estremamente oleoso e dalla mandorla.

Sotto quelle fitte ombre, leoni, leopardi, jene si trovano a centinaia, e al cader del sole, si recano a dissetarsi al fiume. Ongo lo sapeva, sicché, quando vollero legarlo a un albero per attendere che gli abitanti della foresta accorressero a cibarsi delle sue carni, oppose la più disperata resistenza rovesciando sei o sette di quelle sanguinarie donne.

Sopraffatto dal numero, dovette finalmente cedere. Malgrado i suoi morsi e i suoi pugni fu legato a un albero d'elais con mani e piedi e imbottito per così dire di corde, a segno da togliergli ogni idea di poterle spezzare. Auguratagli sardonicamente una buona sera, lo lasciarono solo a sbrigarsela cogli animali della foresta.

Il disgraziato Ongo non voleva rassegnarsi ad aspettare che i leoni venissero ad attaccarlo. Radunò tutte le sue forze fino a far quasi scoppiare la pelle sotto la tensione dei muscoli, si dimenò disperatamente cercando spezzar i legami, fece spicciar sangue dai polsi, morse con furore le corde più vicine, urlò, invocò aiuto, destando tutti gli echi delle foreste, ruggì come un leone, ma non riuscì a nulla.

La notte calava rapidamente. Il sole, a poco a poco, declinò all'occidente dopo di aver illuminato le più alte cime della foresta, e succedette il crepuscolo, vago, rossastro, che in breve andò oscurandosi, lasciando luogo alle tenebre che cominciarono ad addensarsi sotto gli alberi.

Gli uccelli in breve tacquero dopo di aver lanciato le ultime note; gl'insetti ronzanti si addormentarono, e in capo a un'ora la gran foresta diventò silenziosa, seppellendosi tra fitte tenebre. Il disgraziato negro, seguiva con ansia febbrile quel mutamento che per lui era la morte. Quando l'ultimo cicaleccio dei volatili cessò, si sentì rizzare i capelli ed il sudore bagnargli la fronte. Fra poco quel silenzio sarebbe stato rotto dagli scrosci di risa delle jene, dal ruggito dei leoni, dal fischiare dei serpenti, e lo spaventevole supplizio sarebbe incominciato.

Ongo, man mano che gli ultimi rumori cessavano e gli ultimi bagliori del crepuscolo sparivano, sentiva che lo spavento gli agghiacciava il cuore; egli, che non aveva mai avuto paura, tremava ora come un fanciullo. Si figurava la visita dei terribili leoni, di quelli che aveva con tanto accanimento cacciati in tutte le foreste; e di schifose jene e maggiormente spaventato ritentava gli sforzi per spezzar i legami e urlava colla speranza che qualcuno accorresse a liberarlo. Quanto avrebbe dato, per arrestare la notte che calava con spaventevole rapidità!

In breve, sotto la foresta, l'oscurità divenne perfetta. Non udiva che il lento e cupo gorgogliare del fiume vicino, le cui rive fra poco si sarebbero popolate di assetate fiere, e il sussurrìo delle gigantesche foglie lievemente agitate dal venticello notturno.

Ebbe doppiamente paura, e, frenando le sue ansie, s'irrigidì contro il tronco dell'albero, rattenendo persino il respiro onde non attirar l'attenzione delle fiere. Teneva gli occhi fissi sotto gli alberi e tendeva gli orecchi per raccogliere i menomi rumori.

Passò un'ora d'angosciosa aspettativa. D'improvviso, a tre o quattrocento passi lontano, ecco scoppiare un grande scroscio di risa che si sarebbe detto emesso da gola umana. Il negro rabbrividì fino alla punta dei capelli, riconoscendo il riso della jena macchiata.

Succedette un po' di silenzio, rotto dal continuo gorgogliar del fiume, poi un altro scoppio di risa scoppiò più lontano, un terzo a sinistra, un quarto a destra, poi un quinto e un sesto, formando tale concerto da mettere spavento anche all'uomo più coraggioso del mondo.

Ora, invece, giungevano agli orecchi del povero negro dei brontolìi soffocati; ora dei lunghi gemiti da credersi mandati da persone moribonde; ora urla lugubri e latrati di sciacalli; indi dei tuffi nel vicino fiume, come se degli animali si precipitassero nella corrente.

Ongo non ardiva fiatare e se ne stava immobile, confuso col tronco d'albero; d'un tratto si udì il riso avvicinarsi sensibilmente; poco dopo, ecco uscire da una macchia una gran jena macchiata, la quale si arrestò di fronte al povero negro, fissandolo co' suoi occhi verdastri, mostrando i bianchi denti. Non era un carnivoro capace di assalirlo, essendo nota la vigliaccheria delle jene: tuttavia Ongo, che non amava la presenza di un sì schifoso animale, che poteva chiamare i compagni, gettò un urlo acuto. La jena spaventata fuggì ed il concerto cessò per qualche istante.

Poco dopo un'altra jena e più tardi degli sciacalli s'avvicinarono all'albero, sghignazzando ed urlando, però non osarono assalire il negro. Doveva essere la mezzanotte quando si udì improvvisamente la potente voce di un leone; quel ruggito in un baleno fe' tacere tutti quei singolari clamori. Erasi udito a duecento passi, in direzione del fiume.

Non è a dire ciò che provasse il negro. Si sentì irrigidir dallo spavento e non fiatò più. Solo grosse gocce di freddo sudore gli cadevano dalla fronte.

Il ruggito andava avvicinandosi e così potente, così terribile da regnar sovrano sotto la gran foresta; era l'unica voce che si udisse a cinque miglia all'intorno.

Ongo, che ascoltava con inesprimibile angoscia, udì la fiera aprirsi il passo fra i cespugli muovendo verso le rive del Langos, e poco dopo, nel dissetarsi, ad intervalli faceva risuonare raucamente i suoi ruggiti. Lo udì poi ritornare prendendo la via che conduceva verso il folto della foresta e per conseguenza in direzione dell'albero.

Il negro, in quel terribile frangente, non seppe conservare il sangue freddo e si lasciò involontariamente sfuggire un grido di spavento. Il leone, che gli era passato accanto senza vederlo, a quel grido si arrestò guardando fissamente l'albero. Fece un salto indietro mandando un ruggito, e si accoccolò a venti passi in atto di chi si prepara a slanciarsi. Ongo comprese il pericolo e zittì stringendosi contro l'albero senza fare il minimo movimento.

Si sa che l'immobilità, in un incontro col leone, spesse volte è l'unico modo per sfuggire a un assalto. E infatti la belva, pur conservando quella posa minacciosa, non si mosse; dardeggiando solo l'infuocato sguardo sul negro.

Lo spaventevole supplizio durò due ore, più lunghe di due giorni. Immaginarsi l'angoscia che dovette provare il negro, di fronte al minaccioso leone, che poteva da un momento all'altro saltargli addosso e farlo a pezzi.

Chissà quanto sarebbe durato quel supplizio se, verso le due del mattino, lo sparo di un'arma da fuoco, non avesse spaventato il felino, costringendolo ad allontanarsi rapidamente ed a cacciarsi fra i cespugli. Il negro, udendo quella detonazione, si mise disperatamente a chiamare aiuto. Un secondo colpo di fucile risuonò più vicino, seguìto da voci umane.

Era una carovana di bianchi della costa, che venivano da Bobek, dove avevano fatto acquisto d'olio d'elais, e che costeggiavano il fiume. Essi si affrettarono a correre e lo liberarono in uno stato da far pietà; era mezzo morto dallo spavento.

Quando fu ritornato in sé, e che ebbero udito la sua storia, uno di quei bianchi gli disse:

– Siete molto vecchio, voi?

– No – rispose Ongo sorpreso di quell'interrogazione.

– Ma come è che avete i capelli bianchi?

Ongo portò la mano in testa. Il negro, che la sera innanzi aveva i capelli neri, ora li aveva perfettamente bianchi. In sei ore di supplizio era incanutito!

Non crediate però che tutto fosse finito lì. Geletè, informato da qualche spia che Ongo si era salvato, invece di lasciarlo andare, appena seppe che era stato liberato da quei negozianti, ebbe l'audacia di mandare un suo messo a reclamarlo per fargli riprovare l'orribile supplizio.

Fortunatamente quegli uomini bianchi erano francesi e, dinanzi alla città di Vidak, si trovava una nave da guerra della loro nazione.

Conoscendo la crudeltà di quel re, lo consegnarono al comandante di quel vascello, mettendolo sotto la protezione della bandiera francese o, meglio, dei cannoni francesi.

Geletè, quantunque avesse vivo desiderio di riaverlo in sua mano, dovette cedere dinanzi alla risolutezza del comandante.

Successo al trono Behansin, Ongo poté finalmente riprendere la sua libertà.

Fu però tanta la paura provata durante quella notte, che rinunciò per sempre alla caccia delle belve, diventando facchino del porto d'Oura.