I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Lo schiavo

Lo schiavo

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Perduti fra i ghiacci del Polo Sulla Costa d'Oro

LO SCHIAVO


In Africa, come già avrete saputo, i poveri negri dell'interno vengono anche oggi perseguitati da bande di briganti, che, dopo averli fatti prigionieri, li vendono schiavi a negozianti arabi.

Quelle bande sono composte di uomini ferocissimi, ai quali la pietà è affatto sconosciuta. Bene armati e anche disciplinati, s'avanzano nell'interno dell'Africa, circondano villaggi, incendiano le capanne, uccidono spietatamente tutti quelli che cercano a loro di resistere e s'impadroniscono dei superstiti, uomini, donne e fanciulli. Non abbandonano che i vecchi e gli infermi, destinati a morire più tardi di fame, fra le rovine dei loro villaggi ed a servire di pasto ai leoni ed ai leopardi.

I prigionieri vengono legati ed incatenati e per di più al collo devono portare una specie di forca di legno che impedisce loro di fuggire. Già, se quei disgraziati osano ribellarsi i loro feroci guardiani li battono a sangue con lunghe fruste di pelle d'ippopotamo e talvolta li uccidono con un colpo di scure per ispaventare gli altri.

Per mesi e mesi quei disgraziati sono costretti a camminare in mezzo alle foreste, a malapena nutriti, sotto un sole implacabile che li brucia vivi.

È molto se la metà di essi giunge agli stabilimenti arabi dove verranno venduti come merci al miglior offerente, ed in quale stato giungono! Magri da far spavento, pelle e ossa, e coperti da piaghe orribili prodotte dalle sferzate dei loro guardiani.

Ora che vi ho spiegato come vengono trattati quei poveri schiavi, voglio raccontarvi una drammatica avventura toccata ad uno di quei disgraziati, sfuggito alla schiavitù per un vero miracolo.

Alcuni anni or sono una banda di negrieri lasciava la costa della Guinea per fare una scorreria nel paese degli ascianti. Era composta di oltre duecento uomini, comandati da un vecchio arabo, chiamato Arussi, già famoso per le sue crudeltà e per le numerose spedizioni fatte nell'interno della Guinea.

Una sera, dopo parecchie settimane di marcia, la colonna giunge presso un villaggio di negri, composto di circa cento capanne di paglia mescolata a fango. Arussi comanda ai suoi uomini di circondarlo e di far fuoco su quanti abitanti cercano di fuggire; poi si avanza alla testa di una truppa scelta, facendo tuonare i fucili.

I poveri negri destati di soprassalto, afferrano le lance e gli archi e tentano una difesa disperata. Alla loro testa vi è un bellissimo negro, di vent'anni chiamato Sango, noto pel suo valore.

Quantunque pochi e male armati, incoraggiati da Sango, fanno impeto contro gli assalitori, combattendo col furore che infonde la disperazione. Sango, dinanzi a tutti, non risparmia i nemici. Dotato d'una forza straordinaria, uccide a colpi di scure quanti gli si parano dinanzi tentando di spargere il terrore fra le file nemiche.

Sono sforzi vani. I negrieri, tre volte superiori, circondano i difensori e dànno fuoco alle capanne costringendo le donne ed i fanciulli a uscire.

Quei banditi, resi feroci dalla difesa, si scagliano sui fuggiaschi, atterrano le donne, rovesciano i fanciulli, scannano i vecchi e finalmente disarmano i pochi difensori che ancora resistono, Sango compreso.

Il capo arabo aveva veduto il giovane negro e non aveva potuto fare a meno di ammirarlo.

Quando tutti i negri furono legati e colle forche al collo, si fece condurre dinanzi a sé Sango.

– Sei tu che hai guidato gli abitanti nella difesa? – gli chiese.

– Sì – rispose il giovane ercole.

– Tu mi hai ucciso sette uomini.

– E di più ne avrei fatti cadere se avessi avuto nelle mie mani un'arma migliore.

– Meriteresti la morte.

– Uccidimi, giacché io non saprei rassegnarmi a diventare un miserabile schiavo.

– Sei un garzone troppo robusto, mio caro, per ucciderti. Il mio amico Omar mi pagherà bene il tuo corpo.

– Allora ammazzerò te, vile brigante – gridò il negro.

– Olà, uomini! – urlò l'arabo furibondo. – Dategli venti colpi di frusta perché impari a rispettare il padrone e mettetegli doppie catene.

Il negro stava per essere trascinato via, quando una vecchia seminuda e coperta di lividure si gettò ai piedi dell'arabo, gridando:

– Grazia per mio figlio, padrone!

– Chi sei tu? – chiese Arussi respingendola col piede.

– Sono sua madre.

– E tu osi implorare il padrone?

– Egli è mio figlio, il solo che fosse sfuggito alla strage.

– Prendete questa vecchia pazza e ammazzatela a legnate – disse l'arabo, – è tanto maleducata che non vale la pena di condurla fino alla costa.

– Bada! – gridò Sango, minacciandolo col pugno. – Se tu tocchi mia madre ti ucciderò!

L'arabo si degnò di guardarlo ironicamente e gli volse le spalle.

L'indomani la carovana abbandonava il villaggio già quasi interamente arso e si cacciava sotto le immense foreste. Vi erano tutti gli schiavi, eccettuata la povera vecchia.

Il suo cadavere era stato gettato nella foresta a pasto delle fiere. Le fruste di pelle d'ippopotamo l'avevano uccisa.

Sango era stato collocato al centro della carovana per impedirgli di fuggire e sorvegliarlo meglio. Il giovane ercole aveva sopportato coraggiosamente il supplizio inflittogli, ma aveva la schiena coperta di piaghe e di sangue raggrumato, brulicanti di mosche maligne. Lo schiavo pareva si fosse rassegnato al suo triste destino. Non parlava con nessuno, ma quando vedeva passare l'arabo, gli lanciava tali sguardi da mettere paura.

Per due lunghe settimane la carovana marciò attraverso quelle immense foreste ricche di baobab di dimensioni colossali, di sicomori e di datteri selvaggi. Poi una sera si accampò sulle rive di un largo fiume che serviva di frontiera fra l'Ascianti ed il regno di Dahomey, un paese che Sango conosceva molto bene, avendo dei parenti in un grosso villaggio vicino.

Cenato con un po' di sorgo malamente macinato ed impastato, i negrieri disposero le sentinelle attorno al campo, poi s'addormentarono, sicuri che nessuno schiavo avrebbe tentato di fuggire.

Alla mezzanotte, eccettuate le sentinelle, tutti dormivano, compresi i due guardiani incaricati di vegliare su Sango.

Questi fingeva di dormire. Avendo conosciuto quel fiume, aveva prontamente deciso di evadere e di raggiungere i suoi parenti. Assicuratosi che i due guardiani, stanchi per la lunga marcia, russavano, con uno sforzo erculeo ruppe le corde che gli stringevano le braccia, poi strisciò lentamente in direzione della capanna abitata dal capo arabo.

Ad uno dei due guardiani aveva preso un coltellaccio, senza che l'addormentato se ne fosse accorto, e se l'era cacciato nella cintura.

Sango voleva fuggire e anche vendicare la povera vecchia, morta sotto la sferza di quei feroci negrieri.

Con infinite precauzioni attraversò il campo senza destare l'attenzione né degli schiavi, né dei negrieri e giunse inosservato dinanzi alla capannuccia del capo arabo, o meglio alla tettoia, non avendo alcuna parete all'intorno.

Il vecchio aveva l'udito molto fino. S'accorse che qualcuno cercava di entrare e avendo tutto da temere da parte degli schiavi, fu pronto ad alzarsi, impugnando una scure.

Un'ombra gli si parò subito dinanzi, mentre una voce terribile gli chiedeva:

– Mi conosci tu?

– Sango! – esclamò l'arabo indietreggiando vivamente.

Comprendendo di essere perduto, si scagliò sul negro coll'impeto di una fiera, sperando di prevenirlo. Sango si teneva in guardia. Con una mossa fulminea si trasse da un lato evitando il colpo di scure che doveva spaccargli il cranio; poi afferrò l'arabo e lo inchiodò al suolo con una tremenda coltellata.

– Mia madre è vendicata! – disse il negro.

S'impadronì delle due pistole del suo avversario e si slanciò fuori della tettoia.

A pochi passi giaceva un povero schiavo, un ragazzo di dodici anni che aveva perduto la madre ed il padre durante l'assalto del villaggio. Il ragazzo aveva udito il rantolo del moribondo arabo e s'era alzato. Vedendo Sango passargli accanto indovinò cos'era accaduto.

– Tu fuggi? – gli disse.

– Sì, Bani – rispose il negro.

– Prendimi con te: voglio dividere la tua sorte.

– Vieni – rispose Sango. – Tu sei orfano al pari di me.

Nessun guardiano s'era accorto dell'evasione di Sango. Nel campo tutti dormivano ancora.

Sango aveva afferrato il giovanetto e se lo era messo sulle spalle, per non lasciarlo indietro nel caso che fosse stato assalito.

– Ti raccomando di non parlare se non vuoi perdere la vita – gli aveva detto.

Non era facile attraversare il campo a causa delle numerose sentinelle che vegliavano all'intorno, però Sango confidava nella propria astuzia e nella propria fortuna. A passi di lupo attraversò il campo e vedendo nell'oscurità un'ombra umana appoggiata ad una lunga lancia, si gettò al suolo invitando il negretto ad imitarlo.

– Dobbiamo tornare? – chiese il ragazzo con voce tremante.

– No – rispose Sango risolutamente. – Noi andremo innanzi a dispetto delle sentinelle.

Guardò a destra ed a manca e, non vedendo alcun altro negriere da quel lato, si avanzò adagio adagio, strisciando come un serpente. Il negretto, rassicurato dalla calma del compagno, lo aveva seguito cercando di non fare alcun rumore.

Pochi minuti dopo i due fuggiaschi si trovavano sulle rive del fiume. L'acqua pareva assai profonda e correva velocemente. Non era però il momento di esitare.

– Sai nuotare? – chiese Sango al ragazzo.

– No – rispose questi.

– Ti porterò sulle mie spalle. Incaricati solamente delle pistole e bada che non si bagnino. Io rispondo del resto.

Stava per entrare nell'acqua quando giunse fino a lui un acuto odore di muschio. Arretrò sollecitamente guardando le canne che crescevano lungo la riva.

– Vi è qualche coccodrillo nascosto là dentro – disse al negretto che lo interrogava.

In quell'istesso momento verso il campo si udirono delle urla tremende accompagnate da spari.

– È fuggito Sango! – si urlava.

– Hanno ucciso Arussi!

Non vi era da esitare un solo momento. I compagni dell'arabo potevano giungere da un momento all'altro e far pagare cara al negro la sua sanguinosa vendetta.

Sango impugnò il coltellaccio col quale aveva ucciso il suo nemico, si mise sulle spalle il ragazzo e saltò risolutamente nel fiume. Si era appena immerso quando fra la semioscurità vide sorgere dalle acque una testa mostruosa con due mascelle lunghissime, armate di acuti denti.

Era un gigantesco coccodrillo in attesa della preda.

Sango era coraggioso, pure in quel momento provò un tremito. Trattandosi però della propria vita si fece animo e alzato il coltellaccio lo cacciò sotto la gola del rettile, producendogli uno squarcio orribile. Il mostro, quantunque colpito a morte, tentò di azzannare l'audace, poi le forze gli vennero meno e calò a fondo sollevando, colla potente coda, una grossa ondata.

– Essi vengono! – gridò in quel momento il ragazzo.

Sotto gli alberi della riva si vedevano correre degli uomini che portavano dei rami accesi. Erano gli arabi, i quali avevano scoperto le tracce dei fuggiaschi.

Sango si era messo a nuotare vigorosamente, fendendo l'acqua con forza suprema. La corrente, assai rapida, talvolta lo trascinava, però riusciva sempre a tagliarla superando felicemente i gorghi.

Gli arabi erano giunti sulla riva, che già Sango saliva quella opposta. Essendo coperta anche quella d'alberi assai fitti, non era difficile trovare là sotto un asilo sicuro.

Sango aveva deposto il ragazzo e si preparava ad aprirsi il passo fra i cespugli, quando in mezzo alle piante vide brillare due punti luminosi a riflessi verdastri.

– Vi è un animale che ci spia – disse indietreggiando. – Dammi le pistole, fanciullo.

– Se tu spari, i negrieri verranno qui e ci prenderanno – disse il negretto.

– È vero – rispose Sango, vedendo ancora, sulla riva opposta, scintillare i rami resinosi accesi dai negrieri.

– Che sia un animale feroce o qualche antilope?

– Temo sia un leopardo.

– Che ci assalga?

– Se non fosse affamato a quest'ora sarebbe fuggito. Egli ci aspetta per darci addosso.

– Che cosa fare, Sango?

Il negro non rispose. Guardava con ansietà quei due punti luminosi scintillanti fra le tenebre e che avevano una immobilità strana.

La belva, poiché doveva essere tale, non si muoveva. Non assaliva ancora e non cedeva il passo.

Sango alzò il braccio armato del coltellaccio e fece atto di slanciarsi. Tosto vide quei due occhi socchiudersi poi dilatarsi maggiormente.

– Si prepara ad assalirci – disse al ragazzo. – Riparati dietro a me.

– Scendiamo nel fiume, Sango – rispose il negretto con voce tremante. – I negrieri si sono allontanati.

– Non li vedi più? – chiese Sango, il quale non osava voltarsi.

– Sono ritornati al campo.

– O che si siano nascosti sotto gli alberi?

– No, Sango, sono tornati indietro.

– Allora il leopardo avrà da fare con me.

Strisciò lungo la riva del fiume, tenendosi il ragazzo a fianco e fissando sempre la belva, poi cominciò a salire, tenendo alto il coltellaccio.

Un urlo rauco lo avvertì che anche il leopardo stava per muoversi. Sango si gettò prontamente dietro il tronco di un sicomoro, poi passò dietro un secondo, quindi dietro ad un terzo. Già si credeva ormai al sicuro da un assalto quando udì i cespugli muoversi.

– Fermati, Sango – disse il ragazzo. – Il leopardo ci segue.

– Dammi una pistola e tu tieni l'altra. Sai sparare?

– Sì.

– Avanti adunque.

Si riposero in marcia, il negretto dinanzi e Sango di dietro per coprire la ritirata. Gli alberi erano così uniti da impedire di scorgere la fiera.

Questa però doveva avere cominciato l'inseguimento strisciando fra le radici delle piante e fra i cespugli. Si udivano le foglie secche scrosciare, ed i rami agitarsi.

Il negro affrettava il cammino, eppure pareva che non riuscisse a guadagnare via sulla belva. Un'angoscia indescrivibile lo prese, angoscia che si tramutò in vero spavento.

Per un momento ebbe l'idea di abbandonare alla fiera il negretto, ma si vergognò di commettere una simile vigliaccheria.

– No, piccino, non ti abbandonerò – disse. – Giacché ti ho condotto con me, ti difenderò fino all'estremo delle mie forze.

Si era fermato presso l'enorme tronco d'un baobab, deciso ad aspettare l'assalto della famelica fiera. Il leopardo si avvicinava sempre, mugolando sordamente. Spezzava rabbiosamente i rami senza prendere più alcuna precauzione.

Dopo pochi momenti comparve fra due cespugli. Era uno dei più grossi che Sango avesse veduto; rassomigliava un po' alle tigri dell'India, ma aveva il pelame macchiato anziché rigato.

Vedendo i due negri si era fermato raccogliendosi su se stesso come un gatto che sta per avventarsi. Guardò per qualche istante i due negri, fissandoli ferocemente, poi con un salto tremendo piombò addosso a loro.

Sango si era gettato bruscamente da una parte evitando l'urto; il negretto invece, terrorizzato, era rimasto al suo posto come fosse stato inchiodato.

La belva con un colpo d'artiglio lo atterrò lacerandogli il petto. Stava per vibrare un secondo colpo, quando Sango gli si precipitò addosso.

Col coltellaccio lo colpì alla gola squarciandogliela. Malgrado l'orrenda ferita, la belva ebbe ancora la forza di rivolgersi contro il negro tentando di azzannarlo, ma un colpo di pistola sparatogli a bruciapelo in un orecchio lo fece ricadere al suolo senza vita.

Sango si era precipitato verso il ragazzo sollevandolo premurosamente. Il povero piccino aveva il petto squarciato in così orribile modo da fare ribrezzo. Pure respirava ancora.

– Mio povero fanciullo! – esclamò il negro.

– Va', salvati... i negrieri... vengono... – ebbe il tempo di mormorare il negretto.

Poi gli occhi gli si chiusero, un tremito lo prese e cadde morto.

– Ti porterò al villaggio e ti seppellirò all'ombra di un sicomoro – disse Sango con voce rotta dai singhiozzi. – Credevo di salvarti e invece ti ho ucciso; ma meglio la morte che la schiavitù.

Se lo prese fra le braccia e fuggì attraverso la foresta.

Dieci ore dopo giungeva al villaggio abitato dai suoi parenti e, come aveva promesso, seppelliva il piccino all'ombra di un grande sicomoro.

Ora Sango, sfuggito miracolosamente alla schiavitù, è uno dei capi più influenti della costa della Guinea.