I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Negli abissi dell'oceano

Negli abissi dell'oceano

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Il negriero I pescatori di merluzzi

NEGLI ABISSI DELL'OCEANO


Nel 1896 una profonda commozione aveva invaso tutti i costieri della Cornovaglia, ripercuotendosi in tutta l'Inghilterra. I pescatori che fornivano settimanalmente il pesce sui mercati di Liverpool e di Dublino non osavano più lasciare le coste per spingersi al largo e nemmeno i piccoli piroscafi costieri facevano il loro solito servizio. Una notizia spaventosa, ben presto riconfermata, aveva sparso lo spavento fra quei bravi marinari.

Una sera di nebbia una barca da pesca montata da otto uomini tutti appartenenti al piccolo porto di Richon, era rientrata frettolosamente nella baia, suonando disperatamente la campana d'allarme e sparando il cannoncino da segnale, per svegliare la popolazione che già da parecchie ore si era ritirata nelle capanne.

A quel fracasso insolito tutti gli uomini validi si erano frettolosamente vestiti e si erano riversati sulla spiaggia con torce, lanterne e cinture di salvataggio, credendo che qualche nave, spinta dalle correnti o ingannata dalla nebbia, si fosse arenata sui banchi di sabbia o spaccata contro le scogliere.

Era, invece, la barca da pesca di Jean Baret che faceva il suo ingresso, mentre non avrebbe dovuto tornare che al mattino con un buon carico di pesce che era atteso sul mercato di Liverpool.

Quale motivo aveva indotto a quel precipitoso ritorno Jean Baret, che era ritenuto il pescatore più audace e anche il più fortunato delle coste della Cornovaglia? Ecco quello che si erano domandati con vivo stupore quei pescatori accorsi in buon numero sulla spiaggia.

Appena Jean Baret era disceso, tutti lo avevano circondato, chiedendogli ansiosamente:

– Che cosa v'è accaduto, Jean?

– Fa acqua la vostra barca?

– Avete urtato in qualche scoglio?

– Avete incontrato dei naufraghi?

Il pescatore aveva il viso scombussolato ed era così pallido da far credere che da un momento all'altro dovesse svenire, ed i suoi uomini non erano in miglior stato di lui. Sui loro visi si leggeva un terrore indescrivibile.

– Spiegatevi, Jean – disse il comandante del porto, che non sapeva raccapezzarsi come un pescatore così audace potesse essere in preda ad un siffatto terrore.

– Un mostro, signore! Un mostro enorme! – aveva risposto il pescatore, con voce spezzata. – Siamo sfuggiti, non so come, ai suoi tentacoli, quando già la mia barca stava per venire trascinata in fondo all'oceano.

Molte esclamazioni d'incredulità avevano accolto dapprima la risposta del pescatore.

– Avrai scambiato un ammasso di alghe per una balena, Jean!

– Tu hai veduto male!

– Hai voluto spaventarci, perché non hai trovato del pesce.

Il comandante del porto, vecchio uomo di mare, che dei mostri marini ne aveva veduti più d'uno nei suoi lunghi viaggi, con un gesto imperioso aveva intimato a tutti il silenzio, dicendo a Jean Baret:

– Racconta e non badare a questi sciocchi.

– Avevamo gettato le reti a sette miglia da qui, presso il banco di Rok, quando scorgemmo fra l'oscurità una massa enorme emergere dalle profondità del mare.

– Aveva la forma d'una balena?

– No, signore – rispose Baret. – Somigliava piuttosto ad un mostruoso calamaro ed aveva delle braccia lunghe molti metri.

«Urtò violentemente la mia barca, facendola quasi capovolgere, spezzò tutte le corde delle mie reti, poi allungò i suoi tentacoli che si aggrapparono alle murate e v'impresse una scossa tale, che per un istante credetti che la barca si sommergesse.

«Non so poi per quale causa, il mostro improvvisamente ritirò le sue braccia e si sommerse, sollevando un'onda enorme ed una colonna di schiuma.»

Tale era stato il racconto del pescatore, riconfermato pienamente da tutti i suoi uomini. Le prove erano evidenti: tutte le reti erano scomparse e nondimeno nessuno dapprima, eccettuato il comandante forse, aveva prestato fede a quella narrazione, che aveva molto del fantastico, a parere di tutti.

Più nessuno ci aveva pensato e le barche da pesca avevano continuato a portarsi al largo ed a frequentare il banco di Rok, che era ricco di pesce, ed ecco che otto giorni dopo, un nuovo fatto e più grave, aveva gettato una profonda costernazione fra i costieri. Il piccolo piroscafo che faceva il servizio settimanale fra Richon e Liverpool, una mattina era rientrato nel porto a tutto vapore, lanciando fischi di allarme.

Il suo comandante ed i passeggieri avevano a loro volta narrato, che, passando presso il banco, avevano incontrato un mostro che, dalla descrizione fattane, doveva essere lo stesso che aveva assalito la barca di Jean Baret.

Quel calamaro gigantesco non si era contentato di urtare violentemente il piroscafo. Uno dei suoi tentacoli si era avviticchiato all'albero di trinchetto e lo aveva spezzato come se fosse un semplice stecco, poi era scomparso, appestando l'aria d'un acuto odore di muschio.

E non era tutto. Tre giorni dopo una barca da pesca aveva incontrato lo stesso mostro e non si era sottratta all'assalto che con una pronta fuga. Come si può ben immaginare, quelle narrazioni avevano gettato un profondo sgomento fra i pescatori della Cornovaglia e si erano levate alte grida per chiedere l'aiuto delle autorità, affinché liberassero le acque da quel tremendo calamaro, uscito chi sa per quale capriccio, dalle profondità del mare.

Il governo inglese non era rimasto sordo all'appello dei pescatori. Una nave da guerra, potentemente armata, era stata mandata nelle acque del banco di Rok, e tutte le ricerche erano riuscite vane.

Evidentemente al mostro non garbava di troppo mostrarsi alla superficie e preferiva rimaner nascosto sott'acqua. Bisognava assalirlo nel suo elemento se si voleva tranquillizzare i pescatori e riprendere le interrotte comunicazioni fra Liverpool ed i porti della Cornovaglia.

Il difficile incarico di andarlo a scovare negli abissi dell'Atlantico fu quindi affidato al capitano Smitson, uno dei più intraprendenti e dei più valorosi ufficiali della flotta inglese, che aveva il comando del sottomarino Holland, il primo che allora fosse stato costruito.

L'Holland era un battello subacqueo che passava pel più perfetto, almeno in quell'epoca. Era un bel fuso in acciaio, lungo quindici metri, con macchine perfezionate, mosse dall'elettricità, inventate da un distinto ingegnere americano, munito di lenti a prora ed a poppa formate da cristalli dello spessore di parecchi pollici e con un tubo da lancio da cui si poteva proiettare a cento e più metri un siluro potente destinato a far saltare le navi nemiche.

Il capitano Smitson non aveva indugiato ad accettare il pericoloso incarico di purgare l'Atlantico da quel mostro che costituiva una continua minaccia per le navi pescherecce e costiere.

Rinchiuso nel suo guscio d'acciaio coi suoi quattro uomini ed il suo ufficiale, si sentiva sicuro di poterlo sfidare impunemente e di colpirlo a morte con una buona torpedine.

Un bel mattino l'Holland, dopo d'aver ricevuto tutte le istruzioni, lasciava il porto di Liverpool per recarsi a Richon. Navigando quasi sempre a fior d'acqua vi giungeva due giorni dopo, senza aver incontrato nella sua corsa il famoso mostro. Tutta la popolazione del piccolo porto si era radunata sulla spiaggia per accogliere degnamente quei valorosi che si erano assunti quella grave missione.

Il capitano Smitson, dopo essersi minutamente informato dai pescatori delle dimensioni del mostro e dei paraggi che frequentava, aveva preso risolutamente il largo, conducendo con sé, come pilota, Jean Baret, il quale aveva accettato di buon grado di dividere i pericoli di quell'audace escursione in fondo agli abissi dell'Atlantico, per vendicarsi dello spavento provato.

Il mare, che era tranquillissimo e assai trasparente, prometteva un esito felice.

L'Holland, che manovrava superbamente, si trovò ben presto nei paraggi del banco di Rok, dove gli esploratori supponevano che si nascondesse ancora il terribile calamaro.

Il comandante e Jean Baret si erano collocati nella gabbia centrale, una specie di lucernario assai sporgente, fornito tutto all'intorno di vetri di gran spessore e da cui si poteva distinguere nettamente tutto quanto avveniva all'esterno.

– Ora c'immergeremo e andremo ad esplorare gli abissi dell'oceano – disse il comandante al pescatore che teneva la ruota del timone.

Jean, che non aveva navigato che sopra all'acqua, a quelle parole non aveva potuto nascondere una certa apprensione.

– Signore, – disse, – io sono un povero pescatore che non ha mai fatto la conoscenza con questo genere di battelli.

– Che cosa vi spaventa?

– Se non tornassimo più alla superficie?

– Mio caro, – rispose il comandante, – oggi i battelli sottomarini si governano al pari di quelli che navigano sopra acqua, e gli uomini che li montano non corrono alcun pericolo.

«Volete immergervi? Dovete aprire i serbatoi che sono situati nella chiglia e quando sono pieni d'acqua il sottomarino s'immerge senza bisogno di difficili manovre.

«Volete rimontare alla superficie? L'elettricità mette in azione le pompe, ricaccia l'acqua del serbatoio ed il battello, alleggerito dal peso che lo tratteneva sommerso, torna a galla con uno slancio rapidissimo.»

– E l'aria, signore, non verrà a mancare?

– Ne abbiamo per sei ore senza ricorrere ai cilindri dove se ne trova dell'altra immagazzinata a forza. Quando comincia a diventare irrespirabile quella contenuta nel battello, si aprono le riserve, le quali possono fornircene per altre quattro ore. Ecco dunque evitato il pericolo che gli equipaggi dei sottomarini possano perire asfissiati. Che cosa volete di più, Jean Baret?

– E come fate voi, se vi tenete sommersi, a scorgere le navi nemiche?

– Possediamo un apparecchio di refrazione, formato da una serie di prismi, che riflettono buona parte dell'orizzonte. Se una nave comparisce si proietta subito sullo specchio che vedete dinanzi a noi e sappiamo subito se è un'amica od una nemica.

«Rassicuratevi, mio bravo pescatore, noi andremo a trovare il mostro e gli lanceremo contro una torpedine o meglio un siluro carico con venticinque chilogrammi di cotone fulminante e lo faremo saltare come fosse una corazzata.

«Attento! L'Holland comincia ad immergersi.»

Il sottomarino aveva riempito i suoi serbatoi e cominciava a scendere per esplorare gli abissi dell'Atlantico, dove sperava trovare il mostro marino e fulminarlo.

Tutte le aperture erano state chiuse e le eliche laterali, che dovevano facilitare la discesa per meglio vincere la resistenza dell'acqua, inventate dal costruttore del sottomarino, si erano messe in movimento, imprimendo al fuso d'acciaio delle leggere vibrazioni.

La luce cominciava a diventare meno vivida nella gabbia di vetri dove si trovavano il capitano ed il pescatore. Ad un tratto però l'Holland si trovò immerso in una fosforescenza vivissima.

Le lampade elettriche erano state accese e proiettavano all'intorno fasci di luce che le acque rinfrangevano maravigliosamente.

Il pescatore, che aveva appoggiato il viso alle grosse lenti di vetro, vedeva fuggire da tutte le parti un numero immenso di pesci d'ogni specie, che sarebbero bastati per formare la fortuna di tutti gli abitanti di Richon.

Vi erano delle superbe dorate di lunghezza e grossezza non mai viste; gronghi enormi, lunghi un metro, che si contorcevano come serpenti; merluzzi dalla pelle argentea; sogliole giganti e delfini magnifici.

In mezzo a quelle bande disordinate si vedevano pure fuggire numerosi pesci detti torpedini perché hanno la proprietà di fulminare i nemici a distanza, avendo nel loro corpo una batteria elettrica, e non pochi pescicani che mostravano le loro enormi bocche munite di file di denti formidabili.

Questi ultimi non fuggivano, però, anzi andavano a fregare il loro muso contro i vetri della gabbia e vi urtavano anche con violenza, sperando d'impadronirsi dei due uomini che dovevano scorgere distintamente fra quell'intensa luce sprigionata dalle lampade elettriche.

Intanto l'Holland continuava a scendere. Robustissimo come era, poteva sopportare delle pressioni straordinarie e toccare un fondo situato anche a cinquecento metri.

Le dorate, i merluzzi, le torpedini, i gronghi e anche i pescicani erano scomparsi, tenendosi quasi sempre quei pesci alla superficie del mare. Se ne scorgevano degli altri che il pescatore non aveva mai veduti: esseri strani forniti di becchi in forma di pappagallo e trasparenti, come se le loro carni fossero composte di materia gelatinosa; certi serpenti marini lunghissimi e sottili con delle teste enormi e le bocche armate di denti; degli enormi ricci, che si tenevano sospesi fra le acque ed una quantità immensa di meduse somiglianti a ombrelli aperti, trasparenti come se fossero di madreperla e che riflettevano vagamente tutte le tinte dell'iride; e calamari grossissimi agitanti forsennatamente i loro tentacoli e mostrando i loro grossi occhi nerissimi.

– Ecco la vita sottomarina – disse il comandante al pescatore, che guardava sempre più stupito gli abitanti degli abissi marini. – Il fondo non dev'essere lontano. Ecco le prime alghe.

Dei nastri enormi, d'una tinta oscura, si agitavano per la spinta che il battello imprimeva agli strati d'acqua, e si contorcevano come se fossero dotati di una vitalità eguale a quella dei rettili.

In mezzo a quelle piante si vedevano sorgere antenne di vecchie navi affondate a cui erano ancora appesi dei cordami, dei frammenti di tela e gli alti camini d'un grosso piroscafo affondatosi alcuni anni prima in quei paraggi.

L'Holland affondava lentamente, con precauzione, per non intralciare le sue eliche fra le alghe e per non urtare contro qualche rottame.

Tutti i pesci erano spariti, anche i calamari. Comparivano, invece, sui margini delle rocce sottomarine delle ostriche colossali che avevano i bivalvi aperti; delle enormi attinie giranti sopra un asse, ed altre differenti assai, curiosissime, col corpo diviso in due valve che di quando in quando si chiudevano per nascondere i tentacoli; delle oloturie che strisciavano sopra un largo piede e degli ammassi di spugne.

Il fondo compariva tutto cosparso di rottami. Vi erano delle barche da pesca capovolte che mostravano i loro fianchi sventrati, delle corvette antichissime perdutesi forse durante le battaglie, combattute in quei luoghi un secolo prima tra francesi ed inglesi, poi cannoni, ancore e casse disseminate fra le alghe ed in parte coperte da crostacei di tutte le forme e di tutte le dimensioni.

Il capitano Smitson ed il pescatore erano intenti ad osservare tutti quei tristi avanzi, quando udirono suonare il campanello d'allarme.

– Abbiamo qualche cosa di nuovo – disse il comandante, volgendosi verso Jean Baret. – Che i miei uomini che vigilano a prora abbiano scoperto il mostro?

In quel momento il comandante in seconda entrò nella gabbia.

– Capitano, – disse, – la nostra elica di destra non agisce più e l'Holland s'è sbandato.

– Che si sia guastata?

– Non abbiamo urtato contro nessun ostacolo.

Aveva pronunziato quelle parole, quando il sottomarino ricevette una scossa così forte che per poco i tre uomini non caddero, poi videro sollevarsi intorno una nuvola di fanghiglia che avvolse tutte le alghe, sottraendole ai loro sguardi.

Contemporaneamente si udirono quattro uomini dell'equipaggio gridare con voce spaventata:

– Il mostro! Il mostro!

Il capitano Smitson s'era accostato alle lenti della gabbia, ma la fanghiglia era diventata maggiormente densa, impedendo di vedere cosa alcuna. Il sottomarino tuttavia, dopo quella scossa si era raddrizzato e si udiva l'elica che poco prima era stata fermata per una causa ancora sconosciuta, girare liberamente.

Smitson fece chiamare il capo timoniere che era stato collocato dinanzi alla lente di prora.

Il pover'uomo era in preda ad un vero sgomento, eppure era uno dei più intrepidi marinari della flotta inglese e non facile a spaventarsi.

– L'hai veduto tu quel mostro? – gli chiese il capitano.

– Come vedo voi, signore – rispose il marinaro la cui voce tremava ancora.

– Che cos'era?

– Un calamaro di forme enormi, che aveva delle braccia lunghe almeno dodici metri. Che brutta bestia, signore! Egli mi ha fissato con due occhi che mi pareva dovessero affascinarmi!

– Da dove era sorto?

– Dal fondo, presso lo scafo di quel piroscafo. Uno delle sue otto braccia si era anzi attaccato alla nostra elica di destra, fermandone il movimento.

– Hai veduto dov'è fuggito?

– Si è nascosto in mezzo alle alghe, dinanzi a noi.

– Va benissimo – disse Smitson, con voce pacata. – Andiamo a preparare i siluri.

Fece cenno al pescatore di seguirlo e lo condusse a prora dove s'apriva un canale oscuro con certi meccanismi laterali che, a prima vista, Jean Baret non comprese a che cosa potessero servire.

Un momento dopo quattro marinari dell'equipaggio portavano con precauzione un fuso di rame, lungo tre metri, in forma di sigaro, munito sul di dietro di due alette in forma di elica.

– Che cos'è? – chiese il pescatore.

– La torpedine o meglio il siluro, che farà saltare il mostro – rispose il capitano. – È un terribile strumento di distruzione, inventato da pochi anni, che surroga vantaggiosamente l'antica torpedine, che era troppo pericolosa a maneggiare. S'introduce in questo canale, si fa scattare dopo d'aver chiuso il tubo onde l'acqua non entri nel battello e si lascia andare. Mediante un movimento d'orologeria le eliche si mettono in funzione, un timone automatico ne regola la direzione e quando tocca un corpo qualsiasi si fa scoppiare mediante la scintilla elettrica. Ora vedrete come faremo a pezzi quel calamaro, appena lo avremo scovato.

Fece introdurre il siluro nel tubo di lancio, poi si collocò dinanzi la lente di prora, invitando il pescatore a metterglisi a fianco onde non perdesse nulla di quel tremendo spettacolo.

L'Holland s'era messo in movimento, aprendosi il passo fra le alghe, che rivestivano il fondo del mare.

Mostri sconosciuti anche al comandante, spaventati da quei fasci di luce elettrica, fuggivano da tutte le parti, celandosi in mezzo alle piante. Erano granchi enormi che agitavano le loro branchie dure come tanaglie; erano pesci non mai prima d'allora veduti, che portavano sulla testa come delle piccole lampade elettriche, le quali mandavano bagliori azzurri e rossastri; erano certe specie di serpenti forniti di membrane che parevano ali e che nella fuga si lasciavano dietro delle strisce fosforescenti.

Vi era là tutto un mondo sconosciuto, che non doveva mai aver veduto la luce del sole.

Il sottomarino, che si trovava ad una profondità di quattrocento metri, profondità non mai raggiunta prima dall'audace capitano, penava assai ad avanzarsi.

Ad ogni istante l'acqua tendeva a spingerlo in alto e le eliche avevano ben da fare per mantenerlo così presso il fondo.

L'Holland aveva percorso due o trecento metri, sempre frugando le alghe, quando s'abbassò bruscamente verso poppa, poi la sua corsa venne improvvisamente fermata.

– È il mostro che ci ha sorpresi – disse il capitano, aggrappandosi ad una maniglia di ferro per non cadere. – Invece di assalirci a prora ci ha presi per la poppa.

– Che rovesci il battello? – chiese Jean Baret, che era diventato pallido.

– Non vi è pericolo. Lasciamolo fare. Si presenterà anche dinanzi a noi, non dubitate.

Il comandante dell'Holland era tranquillissimo come se si fosse trattato d'una cosa semplicissima. Non lo erano invece i suoi marinari, i quali credevano che il mostro sarebbe riuscito a squarciare il battello o che per lo meno a guastarlo per modo da impedirgli di tornare alla superficie.

Anche Jean Baret credeva che fosse giunta la sua ultima ora, non ostante le parole rassicuranti del signor Smitson.

Il formidabile calamaro, che doveva possedere una forza straordinaria, pareva che si baloccasse col battello da lui forse scambiato per qualche crostaceo enorme.

Lo aveva strettamente abbracciato coi suoi tentacoli immensi e lo scuoteva ruvidamente, tentando di capovolgerlo per costringere il supposto mollusco ad uscire e servirgli da colazione.

Il capitano Smitson, freddo, impassibile, lo lasciava fare, attendendo il momento propizio in cui, stanco di quegli sforzi inutili, si sarebbe mostrato dinanzi alla prora.

Col viso appoggiato ai vetri della gabbia cercava di distinguerlo senza riuscirvi. Di quando in quando, invece, vedeva qualche tentacolo sferzare l'acqua con violenza inaudita e poi appiccicarsi alle lastre di acciaio del battello, servendosi delle innumerevoli ventose che dovevano operare con succhiamento irresistibile.

Quelle braccia davano un'idea della mole enorme di quel mostro sottomarino. Erano grosse quanto il corpo d'un uomo di statura media e lunghe più di dieci metri.

– Dev'essere uno di quei kraken tramandatici dalle leggende scandinave, – mormorava il comandante. – Se ne sono incontrati ancora, ma di così grossi no di certo. Vedremo se saprà resistere a venticinque chilogrammi di cotone fulminante.

Le scosse continuavano, aumentando il terrore dei marinari. Il battello ora veniva spinto in alto, ora cacciato in mezzo alle alghe, ma resisteva maravigliosamente agli sforzi del mostro. Ci sarebbe voluto ben altro per sfondare le lastre d'acciaio che erano a prova di palla.

A poco a poco, però, quelle scosse diminuirono, finché cessarono interamente. L'Holland, liberato dalla stretta, era risalito di alcuni metri e siccome le eliche non avevano cessato di funzionare, si era spinto innanzi.

– Pronti pel lancio del siluro – gridò il capitano, con voce tuonante.

I marinari, un po' rassicurati dalla calma e dal sangue freddo del comandante, erano accorsi a prora per lanciare il terribile istrumento di distruzione.

Il capitano fece virare di bordo il battello per far fronte al mostro che forse si preparava a rinnovare l'attacco.

L'Holland aveva appena compiuto il giro, quando il calamaro apparve fra le alghe.

Era così spaventevole che il capitano stesso non poté trattenere un gesto d'orrore.

I pescatori di Richon non si erano ingannati. Si trattava d'un polpo di dimensioni non mai viste, d'una vera montagna di carne biancastra e gelatinosa, fornita di dodici braccia lunghe dieci o dodici metri.

Quell'orribile abitante degli abissi marini aveva una bocca enorme che terminava in un rostro osseo e due occhi glauchi, rotondi, grossi quanto la testa d'un uomo.

Scorgendo il battello, il mostro si era voltato, nuotandogli incontro a tutta velocità per rinnovare l'attacco. Si presentava proprio diritto da prora.

– Lanciate! – gridò in quel momento il comandante.

Jean Baret scorse vagamente il fuso di rame attraversare velocemente gli strati d'acqua, poi udì un rombo lontano.

Il battello si rovesciò su un fianco, poi sull'altro mentre tutto intorno l'acqua diventava torbidissima.

– Tenetevi fermi! – si udì gridare il comandante.

Ebbe appena il tempo di aggrapparsi ad un anello di ferro. Il sottomarino aveva vuotato i serbatoi d'acqua e saliva verso la superficie del mare con rapidità fulminea.

Jean Baret sentì un urto, poi udì un rombo sordo, quindi l'Holland riprese la sua posizione orizzontale.

– Venite – gli disse il comandante.

L'equipaggio aveva aperto gli sportelli e si era precipitato sulla piattaforma.

L'Holland era salito a galla a poche centinaia di passi dal banco di Rok.

Tutto intorno si vedevano galleggiare pezzi di materia biancastra e frammenti di tentacoli ridotti quasi in polpa dall'esplosione del siluro.

– Ecco quanto rimane del mostro – disse il capitano Smitson con voce giuliva. – I pescatori possono riprendere le loro corse sul mare, senza più temere di venire assaliti. Ed ora, forza alle macchine e andiamo a recare la buona nuova a tutti i costieri della Cornovaglia.