I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Il negriero
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IL NEGRIERO
Da quando la schiavitù è stata abolita in tutte le antiche colonie spagnole e portoghesi dell'America del Sud, i negrieri marittimi sono diventati rarissimi, ma ancora cent'anni or sono erano numerosi e ogni mese parecchie navi, svelte come uccelli, bene armate e montate da equipaggi formati per la maggior parte di bricconi della peggior risma, salpavano dalle coste occidentali dell'Africa, per riversare i loro carichi d'ebano vivente nei porti d'oltre Atlantico.
Erano quei negrieri, gente senza legge e senza fede, d'un coraggio a prova di bomba, che altro non pensavano che accumulare ricchezze sopra ricchezze, non badando alle infamie che commettevano.
Caricavano nei porti europei od americani chincaglierie d'ogni specie, perle di vetro, carratelli di liquori composti per la maggior parte con droghe infernali, pezze di cotonina, armi vecchie che acquistavano per un nonnulla, poi se ne andavano sulle coste del Gabon, o dell'Avorio, nella Guinea, al Senegal, al Congo, dovunque insomma vi erano negri da comperare.
Se la intendevano facilmente coi piccoli sultani o coi capi di quelle regioni, i quali ordinariamente non mancavano mai di ebano vivente – così chiamavano gli schiavi – raccolto nelle loro incessanti guerre.
Versavano nelle mani dei proprietari buona parte del carico, imbarcavano sette od ottocento negri fra uomini, donne e fanciulli, qualche volta perfino mille, stivandoli come acciughe e se ne andavano a venderli ai piantatori di caffè o di canne da zucchero di Cuba, di Portorico, del Brasile o del Nicaragua, guadagnando enormemente.
Pagavano in media cento lire per capo e ne intascavano duemila a viaggio compiuto: veri affari d'oro. La sorte non sempre sorrideva a quegli infami trafficanti di carne umana. Le nazioni europee tenevano gli occhi ben aperti sui negrieri e buone navi, formidabilmente armate, disseminate nei luoghi frequentati da quei bricconi.
Quando, dopo un sanguinoso combattimento – giacché i negrieri non si arrendevano senza aver lottato disperatamente – s'impossessavano di una di quelle navi, appiccavano senza misericordia i superstiti, fossero ufficiali o semplici marinai, e mettevano tosto in libertà i poveri schiavi, riconducendoli in Africa.
E non erano i soli pericoli che correvano quei trafficanti. Sovente, i negri, resi furiosi dai maltrattamenti, dalla lunga clausura, dalla scarsità dei viveri e soprattutto dell'acqua, si ribellavano furiosamente e guai se riuscivano a salire sul ponte! Allora era un esterminio quello che succedeva e l'equipaggio veniva fatto a brani da quei disgraziati che non volevano allontanarsi dal suolo natìo.
Talvolta invece scoppiavano delle terribili epidemie fra tutte quelle persone accumulate nella stiva e rinchiuse come belve feroci, e non era rado incontrare delle navi, in pieno oceano, cariche di morti. Vittime e aguzzini erano caduti insieme uno ad uno, senza che alcuno avesse potuto salvarsi.
Fra i tanti drammi successi ai trafficanti di carne umana è rimasto celebre quello toccato alla nave cubana chiamata l'Habana.
Era una delle più rapide costiere, che esercitavano il commercio degli schiavi e anche era stata, almeno fino allora, una delle più fortunate.
Salda a prova di scoglio, stretta di carena, montata da un numeroso equipaggio raccolto fra tutti i colli rotti delle Grandi Antille e armata come un legno da guerra, aveva fatto più di venti volte la traversata dell'Atlantico, sbarcando a Cuba più di quindicimila negri strappati al suolo natìo.
Una fortuna strana aveva protetto fino allora il capitano Noel, un americano di New Orleans, valente fra i valenti, marinaio esperimentato e anche uomo di guerra.
Tre volte inseguito dagli incrociatori inglesi e francesi, se l'era cavata con una bravura che aveva meravigliato i suoi stessi nemici. Alla prima nave aveva spaccato, con un colpo di cannone, l'albero maestro, fermandola nel bel mezzo della sua corsa; alla seconda, una francese, aveva rasato il ponte con una bordata disastrosa; alla terza con una granata aveva fatto saltare la santabarbara e mandato a picco la nave assieme a tutti quelli che la montavano.
Già abbastanza ricco, il capitano Noel aveva deciso d'intraprendere un ultimo viaggio sulle coste della Guinea e poi di ritirarsi definitivamente dagli affari. Temeva che la fortuna si stancasse di proteggerlo e che lo attendesse, una volta o l'altra, una buona corda appesa sull'antenna più alta di qualche incrociatore.
Completato il carico, l'Habana era andata a gettare l'àncora a Kotonoo, dentro una di quelle lagune che sono così numerose su quelle spiagge e dove era certo di poter sfuggire alle indagini degli incrociatori inglesi e francesi.
Il capitano Noel aveva già fatto altre visite in quella regione, ricca di negri e soprattutto di schiavi che potevansi allora acquistare ancora a buon mercato e vi aveva fatta la conoscenza d'un sultanello assai bellicoso ed intraprendente, che due o tre volte all'anno devastava gli staterelli vicini per procurarsi gran copia d'ebano vivente.
Era un gran consumatore di rhum a base di vetriolo Sua Maestà Ranako e anche di profumi, che beveva con un'avidità di scimmia anziché usarli per la sua biancheria, che d'altronde era ben poca e tutt'altro che pulita.
Il capitano Noel, che era certo di completare il suo carico, appena gettate le ancore, s'era recato a trovare il suo amico, non senza portare con sé alcuni presenti: delle bottiglie di ratafià e alcuni vecchi fucili, regali indispensabili per aprire le trattative che ordinariamente sono molto lunghe e anche difficili. Il tempo non è oro, pei negri, tutt'altro! Che un affare si compisca oggi o fra tre settimane, poco interessa a loro. Anzi è un pretesto per chiacchierare di più e anche per bere di più.
Sua Maestà Ranako, già avvertito dell'arrivo del negriero, s'era affrettato a lasciare la sua residenza regale, una vastissima capanna di tronchi d'alberi adorna di serpentelli di terra rossa, sfoggiando il costume delle grandi occasioni: un elmo da pompiere tutto ammaccato e più rugginoso d'una alabarda del Milletrecento; una vecchia camicia sbrindellata d'un colore impossibile a definirsi ed un paio di calzoni da ammiraglio inglese a cui mancavano i fondi.
Era seguito dalle sue ventiquattro mogli, povere creature che avevano sulla pelle più cicatrici che vesti, e dai suoi maghi, adorni di campanelli che facevano risuonare disperatamente, di collane di denti di caimano e di vertebre di serpenti.
Il potentato dalla pelle color del carbone, come il solito, era mezzo ubriaco e si reggeva a fatica sul suo bastone di tamburo maggiore col pomo d'argento, che sovente adoperava per accarezzare le spalle dei suoi stessi ministri, facendoli sgambettare e urlare come gorilla.
Voleva cominciare il lungo cerimoniale delle presentazioni, ma il capitano Noel che non amava andare per le lunghe, tagliò corto. E poi aveva premura di andarsene, giacché la sera prima, mentre stava per imboccare il canale che menava nella laguna, aveva scorto sull'orizzonte un punto luminoso che sospettava fosse il fanale bianco di qualche incrociatore inglese o francese.
Offrì una bottiglia all'incorreggibile ubriacone che la vuotò in due sorsate, un'altra ai ministri, dispensò delle perle e dei fazzoletti alle mogli e aprì senz'altro le trattative, minacciando di andarsene al Gabon se il sultanello non si sbrigava presto.
Sua Maestà Ranako era ben fornito, come sempre, di schiavi. Nella sua ultima razzìa aveva distrutti quindici villaggi, massacrando un migliaio di abitanti e conducendone prigionieri altri settecento, fra cui un capo che fino allora era stato reputato invincibile per la sua forza prodigiosa.
– Un uomo che vale per dieci – disse al capitano, che lo interrogava su quel formidabile guerriero. – Mi ha ucciso quindici uomini, prima di poterlo vincere, quindi tu dovrai pagarmelo ben caro. Sui mercati dell'America farà colpo e guadagnerai oro a palate.
– È dunque un gigante? – chiese Noel, sorridendo ironicamente, giacché non credeva affatto all'ubriacone, abituato a esagerare il valore dei suoi schiavi.
– Che lavorerà un campo intero da lui solo, in una giornata.
– Mostrami questa rarità.
– Quando avremo pattuito il prezzo di settecento schiavi.
Non fu cosa facile mettersi d'accordo per quel grosso acquisto d'ebano vivente.
I sultanelli amavano tirare in lungo per bere di più e non cedevano se non dopo una ostinata resistenza.
Tuttavia, dopo sei lunghe ore, dopo molte bottiglie vuotate e dopo interminabili discussioni, il sultanello ed il capitano avevano finito col mettersi d'accordo.
Non rimaneva che stabilire il prezzo del famoso capo pel quale Sua Maestà Ranako chiedeva quattro fucili, un barilotto di polvere, sei pezze di cotone, dieci fazzoletti e una cassa di perle di vetro.
– Conducimi prima questo negro – disse il capitano, la cui curiosità era stata abilmente solleticata dal sultanello.
Dieci guerrieri, armati fino ai denti si recarono a prenderlo nel capannone degli schiavi e lo tradussero, legato ed incatenato, dinanzi a lui.
Ranako non aveva esagerato. Il disgraziato capo era davvero un negro superbo, un gigante di quella robusta razza, alto quasi due metri, con una muscolatura che nulla aveva da invidiare a quella formidabile dei terribili gorilla delle foreste africane.
Quell'uomo si poteva pagarlo diecimila lire sui mercati di Cuba ed il prezzo chiesto da Ranako non aveva nulla di straordinario. Oltre essere un ercole era anche bellissimo, d'un nero lucente, con una testa ammirabile e due occhi pieni d'intelligenza.
Appena il capo si trovò dinanzi al capitano, alzò verso di lui un braccio, dicendogli:
– Sei tu che dovrai condurmi lontano dalla mia terra natìa?
– Sì, se mi metterò d'accordo sul prezzo che Ranako chiede – rispose Noel.
– Se tu mi rimetti in libertà, io ti offrirò cento volte quello che chiede questo miserabile ubriacone – disse il negro, gettando su Ranako uno sguardo tale che lo fece rabbrividire. – Io sono nato sulla terra d'Africa e voglio morire dove riposano i miei avi. Se tu mi porti sull'oceano, ti accadrà una sventura.
Noel alzò le spalle.
– Un vecchio stregone del mio paese l'ha predetto, – riprese lo schiavo – e quell'uomo leggeva nel futuro senza mai ingannarsi. Uomo bianco, lasciami morire sulla terra dei miei avi e vendicarmi di questo miserabile che ha distrutto a tradimento tutta la mia famiglia, e la mia tribù.
– Lo farai un'altra volta – rispose il capitano.
– Allora sventura a te! – gridò il negro, con voce minacciosa, mentre lo riconducevano via.
Il capitano Noel era un uomo tutt'altro che impressionabile, nondimeno ebbe come un presentimento. Era però troppo buon affarista per lasciarsi sfuggire l'occasione di guadagnare una diecina di biglietti da mille e, senz'altro, fece consegnare a Ranako il prezzo pattuito. E poi ci teneva di condurre con sé ed esporre sul mercato di Cuba quel superbo campione della razza negra, mentre il sultanello da parte sua, ci teneva invece a sbarazzarsi di quel nemico che non gli permetteva di fare i suoi sonni tranquilli. Alla sera tutti i settecento schiavi, per la maggior parte uomini robusti, antichi guerrieri, si trovavano ammassati nella stiva dell'Habana.
Notika – il capo negro – era stato il primo a essere imbarcato, fortemente incatenato, per paura che si ribellasse. Invece non aveva opposto alcuna resistenza, solamente passando dinanzi al capitano ed a Ranako che stavano vuotando sulla tolda l'ultima bottiglia, aveva detto all'uno:
– Ti pentirai, uomo bianco.
E all'altro che lo guardava con spavento:
– E un giorno avrò il tuo cuore.
Poi si era lasciato condurre nella stiva ed incatenare ad un grosso anello infisso nella parete, senza aver nulla aggiunto a quelle due minacce.
Alle undici di sera, appena tramontata la luna, l'Habana ben carica e ben provvista di viveri e d'acqua, lasciava silenziosamente la laguna, dirigendosi verso il mare.
Tutti i fanali ed i lumi erano stati spenti ed i quattro cannoni caricati parte a palla e parte a mitraglia, per non farsi sorprendere dalle navi incaricate di sopprimere la tratta dei negri e di sterminare i trafficanti di carne umana.
Noel, un po' impressionato dalla profezia del negro e anche da quel punto luminoso che le vedette avevano scorto la sera precedente, non si sentiva molto tranquillo. Gli pareva che la fortuna, che fino allora lo aveva protetto, dovesse mancargli in quell'ultimo viaggio.
Aveva già l'Habana superato il canale e stava per slanciarsi sulle onde dell'Atlantico, quando un gabbiere che era appena disceso dall'albero maestro, si accostò al capitano dicendogli:
– Signore, noi siamo inseguiti.
– Da chi?
– Forse dalla nave che abbiamo scorta l'altra sera. Ho veduto una grande ombra veleggiare lungo la spiaggia.
– Ordina a tutti gli uomini di prepararsi al combattimento.
Si recò a poppa, salì sul bastingaggio ed estratto un cannocchiale da notte, guardò nella direzione indicata dal gabbiere.
Un'ombra di forme massicce, radeva la spiaggia e cercava di giungere inosservata addosso all'Habana.
Doveva essere l'incrociatore segnalato. Per meglio riuscire nella sua manovra, aveva imitato i negrieri, spegnendo i suoi fanali.
– Che quel maledetto negro mi abbia lanciato addosso la jettatura! – mormorò il capitano Noel. – Oh! La vedremo! L'Habana è sempre una buona nave e può tener testa ad un incrociatore.
Chiamò i suoi ufficiali, diede loro alcuni comandi, poi si mise a fianco del pilota.
I trentasei uomini che formavano l'equipaggio della nave negriera, erano già sotto le armi e gli artiglieri avevano accese le micce. Tutti erano pronti a sostenere la battaglia.
La nave nemica aveva già scorta l'Habana e non dubitando d'aver da fare con una negriera, faceva forza di vele per darle dentro e abbordarla.
Il capitano Noel, dopo aver seguito per qualche miglio la costa, si era slanciato al largo, sperando, con una buona bordata, di sfuggire a quel pericoloso vicino.
Stava per dare il comando di piegare verso il sud-ovest, quando l'incrociatore vedendola passare a buon tiro, le scaricò addosso i suoi cannoni della tolda, prendendola d'infilata da un fianco all'altro.
Quattro uomini erano caduti assieme a due pennoni, che erano stati spaccati dalle palle. Il capitano Noel non si era perduto d'animo.
Fece gettare i cadaveri in mare e comandò di rispondere vigorosamente, volendo far comprendere al nemico che aveva mezzi sufficienti per disputargli lungamente la vittoria.
Ed ecco il combattimento impegnato gagliardamente fra le due navi, con un rimbombo assordante.
L'Habana si difendeva valorosamente senza cessare di fuggire e mirava a disalberare la nave avversaria; l'oscurità invece rendeva difficile l'esattezza del tiro.
D'altronde l'incrociatore non intendeva lasciare la preda e la perseguitava con accanimento, cannoneggiandola senza posa.
Doveva essere un veliero ben rapido per conservare la distanza e anche potentemente armato. I suoi tiri erano doppi e le sue palle gravi danni producevano ai negrieri assottigliandone le file.
Noel, per la prima volta in vita sua, cominciava a perdersi d'animo ed a dubitare dell'esito finale.
I suoi uomini avevano sparato più di quaranta cannonate senza riuscire ad arrestare l'incrociatore, il quale anzi pareva che guadagnasse sempre più via.
Conoscendosi valente artigliere, volle tentare un colpo disperato. Fece caricare il pezzo più grosso, lo puntò mirando attentamente l'alberatura del nemico e fece fuoco.
Un urlo di trionfo lo avvertì che la sua palla aveva colto nel segno.
L'albero maestro dell'incrociatore era stato spaccato un po' sotto la coffa ed era caduto attraverso la nave, arrestandola nel bel mezzo della sua corsa.
I negrieri avevano gridato però troppo presto vittoria! Nel medesimo istante che il capitano faceva fuoco, la nave nemica aveva scaricato una tale bordata da squarciare la poppa dell'Habana e spezzarle l'artimone.
Una nave ormai valeva l'altra; entrambe erano rovinate e si erano arrestate a quaranta miglia dalla costa africana.
Chi però aveva avuto la peggio era stato l'incrociatore, che si era spostato su un fianco in causa del peso dell'albero, lasciando il suo equipaggio esposto ai tiri del negriero.
Il capitano Noel, furioso, aveva comandato di continuare il fuoco deciso a sterminare i suoi nemici.
La battaglia si era riaccesa più tremenda che mai fra le due navi. Entrambe erano a buon tiro e si scaricavano addosso tremende fiancate, fracassandosi reciprocamente le alberature ed i bastingaggi.
Già la vittoria cominciava ad arridere ai negrieri che avevano ormai quasi sterminati gli avversari, quando urla terribili scoppiarono nella stiva.
Ecco che cosa era accaduto.
Notika, accortosi che i negrieri erano stati assaliti, aveva formato l'audace progetto d'approfittarne per prenderli fra due fuochi.
Aveva udito parlare sovente di navi incaricate d'arrestare gl'infami trafficanti di carne umana e immaginandosi che fosse una di quelle che cannoneggiasse i negrieri, si era messo all'opera senza perdere tempo.
Dotato d'una forza più che erculea, non aveva provata molta difficoltà a spezzare le catene, senza che alcuno glielo avesse impedito, giacché tutte le sentinelle erano state richiamate sul ponte per surrogare i marinai caduti nel combattimento.
Appena libero, si era rivolto agli schiavi che erano stati per la maggior parte suoi sudditi, gridando:
– Insorgete, e giacché i negrieri sono assaliti, approfittiamo per vendicarci. Io vi guiderò alla vittoria!
Poi si era messo a spezzare le catene dei suoi guerrieri, servendosi d'una scure abbandonata per caso o smarrita da una delle sentinelle.
Di mano in mano che liberava uomini, anche questi lo aiutavano come meglio potevano, strappando gli anelli infissi sul tavolato.
Quel lavoro accanito, veniva di quando in quando disturbato dalle palle dell'incrociatore. Dei proiettili entravano attraverso le pareti della stiva mutilando uomini, donne e fanciulli ma invece di atterrire quei disgraziati, li rendevano maggiormente furiosi.
Nel momento in cui i negrieri vomitavano sull'incrociatore le ultime fiancate, un centinaio e più di negri, i primi liberati, armati di pezzi di catena, di pulegge, di remi e di tronconi d'albero rinvenuti nella cala, fracassati i boccaporti, si rovesciarono sulla tolda come una torma di tigri affamate, decisi a vincere od a morire.
Notika era alla testa degli schiavi, armato della scure.
I marinai che stavano calando a fondo l'incrociatore, non si erano subito accorti di quel nuovo nemico ben più terribile e più spietato dell'altro.
Un urlo formidabile del capo, li avvertì che dovevano sostenere un'altra battaglia.
– Uccidete! Sterminate! – aveva gridato Notika, con voce tuonante.
L'equipaggio, che era già stato ridotto alla metà dai tiri dell'incrociatore, era rimasto talmente sorpreso, da non pensare subito di far uso delle armi.
Quel momento di esitazione, doveva avere incalcolabili conseguenze, perché un altro centinaio di negri aveva avuto tempo di salire e di rinforzare i primi giunti sulla tolda.
Il capitano s'accorse subito della gravità della situazione. Con un coraggio disperato, tentò d'imporsi a quella massa di selvaggi.
Impugnò la sciabola e mosse risolutamente verso Notika, gridando:
– Che cosa vuoi tu? Scendi nella stiva o faccio mitragliare i tuoi uomini.
– Che cosa voglio? – rispose il negro, alzando la scure. – La tua vita e poi la testa di Ranako. Ti avevo detto che io t'avrei portato sventura.
– Vedi quella nave che sta affondando? Siamo stati noi a cacciarla sott'acqua ed era montata da uomini bianchi e armati di cannoni e di fucili. Se tu non fai ritirare i tuoi uomini, vi faremo cacciare tutti in acqua, uomini, donne e fanciulli.
– Noi siamo settecento e voi in venti – rispose Notika. – Arrendetevi o vi stermineremo.
– Allora prendi!
Il capitano con un rapido gesto aveva levata la pistola che portava alla cintura e aveva fatto fuoco sul negro.
Uno schiavo, pronto come un lampo, si era gettato dinanzi al capo, facendogli scudo col proprio corpo e aveva ricevuto in pieno petto la palla destinata a Notika.
Un urlo feroce aveva accolto l'atto del capitano:
– A morte! A morte gli uomini bianchi!
Notika si era scagliato colla scure alzata.
L'arma scese sul cranio di Noel e glielo spaccò in due.
I marinai avevano intanto approfittato per raccogliersi a poppa, dietro i due cannoni da caccia che avevano frettolosamente caricati a mitraglia.
Vedendo cadere il comandante, avevano dato fuoco ai due pezzi colla speranza di sgominare quell'orda furiosa.
Le prime file degli schiavi caddero, spazzate da quella tremenda scarica, ma Notika era rimasto in piedi.
– Uccidete! Sterminate! – gridò ancora.
Tutti si erano scagliati all'assalto, per nulla atterriti da quei due colpi di cannone. Erano cinque o seicento, e anche delle donne si erano mescolate ai combattenti, incitandoli con grida orribili.
I marinai accolsero quell'orda a colpi di fucile, poi a colpi di baionetta, di sciabola e di scure. Si difendevano col coraggio che infonde la disperazione, non ignorando che i negri non li avrebbero risparmiati se cedevano le armi.
Allora avvenne un atroce massacro. I negri quasi inermi cadevano in gran numero sotto i colpi dei marinai, nondimeno non lasciavano la tolda.
Venti volte respinti, altrettante volte erano tornati alla carica, risoluti a finirla con quel gruppo di bianchi.
Alcuni si erano arrampicati sull'albero di mezzana e scagliavano sull'equipaggio le pulegge delle manovre, mentre altri facevano cadere i pennoni.
Notika incoraggiava tutti. La sua scure aveva già spaccato più di una testa ed era insanguinata fino al manico.
Quella lotta spaventevole non poteva durare a lungo. I marinai, già stanchi dal primo combattimento e scoraggiati per la morte del loro capo, non potevano più resistere.
Notika, accortosene, trascinò i suoi uomini ad un ultimo assalto.
Tutti si scagliarono coll'impeto di un torrente che rovescia le dighe e piombarono da tutte le parti addosso agli ultimi difensori i quali sparvero sotto quella massa di corpi neri.
Essi furono letteralmente fatti a brani, nessuno eccettuato, giusta punizione di tante infamie.
Allora cominciò il saccheggio della nave. Viveri e liquori furono portati in coperta e un'orgia spaventevole regnò per due giorni sull'Habana.
Al terzo, Notika, che aveva conservato il suo ascendente sui suoi antichi sudditi, fece cessare la festa, minacciando di far gettare in mare chi non lo avesse ubbidito.
Le correnti avevano portata la nave a più di cento miglia dalla costa e voleva ritornare per vendicarsi di Ranako.
Fece raddobbare alla meglio l'Habana, sbarazzare la tolda dai morti che la ingombravano, e spiegare le vele sui due alberi rimasti intatti.
Non era cosa facile ricondurre la nave alla costa, tuttavia non disperò. Dotato d'una intelligenza straordinaria, aveva subito compreso l'uso del timone e anche la manovra delle vele, quantunque non avesse mai guidato altro che delle scialuppe.
Ci vollero due giorni prima che l'Habana potesse giungere all'imboccatura del canale che conduceva nella laguna. Per di più, quando vi arrivò, cadde in mezzo ai banchi di sabbia, incagliandosi profondamente.
E che cosa importava a Notika? Era tornato sulla terra natìa e ciò gli bastava.
Ranako non era lontano e sorprenderlo non era cosa difficile.
Fece distribuire agli schiavi tutte le armi trovate, li divise in parecchie schiere e appena calava la notte abbandonavano la costa, marciando lungo le rive della laguna.
Voleva giungere al villaggio di Ranako prima dell'alba per sorprendere i suoi abitanti ancora addormentati.
Della vittoria non dubitava; il suo nemico non poteva disporre che d'un numero limitato di fucili, pressoché inservibili, avendo cura i negrieri di vendere i peggiori onde i negri non se ne possano poi servire contro di loro.
Notika aveva preso così bene le sue misure, che un'ora prima che il sole spuntasse, si trovava ai pressi della capitale del suo nemico.
Era quello un grosso villaggio, situato presso la riva settentrionale della laguna e, come tutti gli altri, cinto da una solida palizzata, con due sole porte che si chiudevano subito dopo il tramonto.
Notika, dopo aver ispezionate le cinte, fece avanzare gli schiavi i quali in quel frattempo avevano atterrati alcuni alberi per servirsene dei tronchi come d'arieti.
Bastarono pochi colpi per sfondare le due porte. Quando l'allarme si sparse nel villaggio, le bande di Notika si erano già rovesciate in mezzo alle capanne, sparando fucilate e pistolettate per spargere maggior terrore.
Nessuno osava opporre resistenza credendo di essere stati sorpresi da qualche grossa banda di negrieri, ciò che era facile supporre dato il numero considerevole d'armi da fuoco che possedevano gli assalitori.
Solamente sulla piazza del mercato, intorno alla dimora reale, i più valorosi guerrieri si erano frettolosamente radunati, per difendere il loro sultano.
Ranako non era d'altronde un poltrone, anzi aveva dato numerose prove di valore personale e per un caso straordinario la sera prima non si era ubriacato.
Impugnato il suo scudo e la sua mazza di guerra si era slanciato fra i primi in difesa della piazza, chiamando a raccolta la sua guardia ed un breve e sanguinosissimo combattimento si era impegnato fra assalitori e assaliti, mentre le capanne intorno a loro venivano incendiate.
Ad un tratto Ranako s'era lasciato sfuggire la mazza di guerra, mandando un urlo di spavento.
Alla luce dell'incendio che divorava la sua capitale, aveva veduto fra le prime file dei combattenti l'erculea figura di Notika.
Preso da un irresistibile terrore superstizioso, il miserabile si era subito dato alla fuga, sperando di sottrarsi alla vendetta del suo nemico.
Invano! Ormai le orde di Notika avevano circondata la piazza impedendo ogni scampo ai combattenti.
L'ex-schiavo anche da parte sua lo aveva scorto. Vedendolo fuggire, con un ultimo sforzo rovesciò le schiere degli ultimi difensori e gli fu sopra, afferrandolo strettamente pel collo.
– Grazia! – balbettò lo sciagurato, battendo i denti.
– Sì, la grazia che ho accordata ai negrieri, tuoi infami complici – rispose Notika, con un riso da tigre, e afferrandolo pei capelli, con un solo colpo della sua scure gli troncò la testa.
La battaglia era finita. I guerrieri del villaggio, vedendo cadere il loro capo, avevano deposto le armi per non farsi massacrare inutilmente.
Conquistata la capitale, anche le altre borgate che formavano parte della sultanìa di Ranako si arresero alle orde di Notika, senza alcuna resistenza.
Riconosciuto re dell'intera regione che si estendeva intorno alla laguna, primo atto di Notika fu la proclamazione dell'abolizione della schiavitù.
Oggi, dopo trent'anni, lo stato di Aka è riconosciuto come uno dei più inciviliti della costa degli schiavi, e le sue borgate sono diventate vere cittadelle, mercé la saggia amministrazione di quel negro intelligente.
Una cosa però sussiste ancora e produce un sinistro effetto sugli europei che si recano nella capitale: è una lunga antenna, piantata di fronte alla dimora del sultano e sulla cui punta si vede un cranio umano calcinato dal sole: è la testa di Ranako, del fornitore di schiavi alle navi negriere.