I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/La pioggia di fuoco

La pioggia di fuoco

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Il naufragio dell'Hansa L'isola del Diavolo

LA PIOGGIA DI FUOCO


Di quando in quando avvengono straordinari fenomeni celesti che spargono immenso terrore fra le popolazioni, specialmente fra quelle meno civili ed istruite.

Oramai nessuno s'impensierisce delle eclissi, perché si sa da tutti da che cosa provengono, eccettuati i cinesi, i quali credono in buona fede che si tratti d'un drago immane, volante sugli sconfinati spazi del cielo, ghiotto delle stelle, del sole e della luna, e certi popoli selvaggi, che vedono in quel fenomeno un segno dell'ira celeste. Non s'impensieriscono nemmeno per la comparsa delle aurore boreali, perché nessuno è più tanto stupido da credere che siano apportatrici di guerre sanguinose al pari delle comete.

Tuttavia certi fenomeni spaventano ancora le popolazioni, anche le più colte, perché costituiscono un pericolo reale.

Fra questi vengono in prima linea i bolidi, quelle enormi masse incandescenti, che, di tratto in tratto, piombano sulla superficie della terra. Essi pesano parecchi quintali e qualche volta anche parecchie tonnellate. Si capisce che quelle bombe di nuovo genere se precipitano, facciano paura a tutti, quando si pensa che cadono da altezze spaventevoli.

Guai a chi tocca! Sfracellano uomini, case e talvolta perfino le navi che si trovano, disgraziatamente, in direzione della loro caduta.

Quando scendono dal cielo, si lasciano dietro un'immensa striscia di fuoco e una grande nuvola di fumo, la quale, per parecchio tempo, rimane illuminata da una luce o rossastra o azzurrognola, poco dissimile da quella che producono le lampade elettriche.

Quei globi, che non sono altro che frammenti di pianeti, disgregatisi in seguito a cause non ancora bene conosciute, si mostrano a varie altezze nell'atmosfera, muovendosi con celerità diverse.

Talvolta hanno un diametro apparentemente piccolo e talvolta, invece, grande come il diametro della luna piena e anche più!

La loro direzione, per lo più, è obliqua all'orizzonte, sovente, invece, è a salti ed a rimbalzi, e perciò i bolidi furono anche chiamati anticamente capre saltanti.

Dopo aver percorso un tratto più o meno lungo e aver brillato per qualche tempo, il globo igneo si dilegua talvolta, invece, in un rombo prolungato o dà uno scoppio, che si può paragonare all'esplosione d'una polveriera.

Per lo più segue una pioggia, una pioggia di pietre, dette aereoliti o metereoliti, che cessano bruscamente di mandare luce subito dopo l'esplosione del bolide e che raramente si sprofondano nel suolo.

Quelle pietre, più o meno numerose e più o meno grosse, giungono a terra ancora assai calde e spandono un odore di zolfo e di polvere da cannone.

Di solito sono di forma rotonda, coperte da una crosta nera, quasi sempre vetrificata, e l'interno è grigio, composto di sostanze ordinariamente metalliche e terrose, con piccole venature.

Fino dalla più remota antichità, si sa di cadute di bolidi o di frammenti di bolidi e anche recentemente ne avvengono e talvolta hanno prodotto disastri considerevoli. Nel 1833, per esempio, a Candahar, nell'Afganistan, cadde una tale pioggia di aereoliti prodotta dallo scoppio d'un bolide enorme, da sfondare i tetti delle case e da ferire e anche uccidere un gran numero di persone e, cosa ancora più strana, quel terribile fenomeno celeste fu seguito da un nebbia così intensa che il sole, che è ardentissimo in quelle regioni, impiegò ben tre giorni a dissiparla.

Il caso però più singolare toccò ad una nave, che navigava nel mar del Nord, e produsse un tale disastro che per poco tutte le persone che la montavano non perdettero la vita.

Ora ve lo racconto, come me lo narrò un vecchio marinaro scozzese, quasi ottantenne, che assistette a quel terribile fenomeno, e che in quell'epoca era mozzo a bordo di quel legno.

Quella nave si chiamava la Scotia e aveva lasciato Bergen, sul finir del gennaio, con un carico di tavole di pino norvegese e doveva recarsi in Irlanda.

Come tutti i legni costruiti in Inghilterra, i cui costruttori navali hanno pochi rivali al mondo, era un buonissimo veliero, splendidamente attrezzato, che a vento largo si mangiava i suoi undici e anche dodici nodi e lo montava un equipaggio composto di diciotto uomini, quasi tutti scozzesi, il che vuol dire valentissimi marinari.

Navigava da tre giorni e già si trovava in mezzo al mar del Nord, quando la sera del 28 gennaio gli uomini di guardia osservarono in cielo come una striscia di fuoco che scendeva con rapidità fulminea, facendosi sempre più larga e più lunga.

Spaventati per quel fenomeno per loro assolutamente inesplicabile, si slanciarono tutti verso la poppa, urlando con voce atterrita:

– Capitano! Capitano!

Il comandante non era ancora salito in coperta quando un immenso sprazzo di luce azzurrognola illuminò il mare, squarciando bruscamente le tenebre, seguito subito da un rombo spaventevole.

Pareva che in aria fosse scoppiata una polveriera od un obice mostruoso.

Quasi subito i marinari videro, con loro immenso spavento, piombare sul mare miriadi di strisce fiammeggianti, le quali s'immergevano con sibili stridenti, facendo gorgogliare e ribollire l'acqua.

Lo spettacolo era così spaventevole che perfino il capitano e gli ufficiali rimasero profondamente impressionati.

I marinari, che parevano impazziti, si erano gettati in ginocchio, gridando disperatamente:

– Siamo perduti!

– È la fine del mondo!

– San Patrick, salvateci!

Ad un tratto una di quelle strisce di fuoco cadde sulla prora della nave, sulla quale, per un caso miracoloso, non si trovava in quel momento nessun marinaro.

Si udì uno schianto terribile, il castello fu spaccato di colpo e tutto il tagliamare sfasciato, mentre l'albero di bompresso con tutti i fiocchi cadeva nell'acqua.

Quasi subito quella pioggia di fuoco cessò. I frammenti dell'enorme bolide – poiché si trattava veramente di uno di quei massi staccati da qualche stella in disorganizzazione – erano ormai tutti caduti e non vi era altro pericolo, ma la nave aveva ricevuto un colpo mortale, forse irreparabile.

Il capitano e gli ufficiali, passato il primo sgomento, corsero verso la prora per vedere se era possibile raccomodarla.

– Siamo perduti! – aveva subito esclamato il capitano. – Nessuno turerà questa falla e fra poco la stiva sarà piena d'acqua.

Ed infatti, lo squarcio prodotto da uno dei frammenti del bolide era così enorme da togliere all'equipaggio ogni speranza di poter riparare la prora.

Il masso doveva essere pesantissimo e dove aveva toccato, tutto aveva fracassato.

– Che cosa dobbiamo fare? – chiesero gli ufficiali esterrefatti.

– Date ordine di mettere in mare le due scialuppe e di provvederle di viveri. Cercheremo di raggiungere a remi le coste della Scozia – rispose il capitano, il quale aveva prontamente riacquistato il suo sangue freddo.

I marinai, che non chiedevano altro che di abbandonare quella nave, che ritenevano oramai irremissibilmente perduta, non indugiarono ad obbedire.

Il capitano era sceso intanto nella sua cabina per prendere le carte di bordo e la cassa. Stava per risalire quando udì i suoi uomini urlare:

– Vanno a fondo!

– Maledizione!

– Siamo finiti!

Credendo che la nave fosse lì per immergersi si precipitò in coperta, gridando:

– Lesti, saltate nelle scialuppe prima che il gorgo ci attiri.

– Non è la nave che affonda, signore, – disse uno degli ufficiali, correndogli incontro, – sono le scialuppe.

Che cosa era avvenuto? Una cosa semplicissima in apparenza, ma d'una gravità estrema per l'equipaggio.

Le due imbarcazioni da gran tempo non erano state messe in mare, così il legname si era a poco a poco ristretto, lasciando delle fessure tali che appena calate erano andate a fondo, spezzando i paranchi.

– Ecco la nostra fine – disse il capitano, scoraggiato. – Fra poco scenderemo tutti nel gran gorgo assieme alla nave, poiché ci mancherà il tempo di costruire una zattera.

Un fatto però, che dapprima parve strano, era nel frattempo avvenuto. La Scotia non aveva cessato d'immergersi, entrando l'acqua nella stiva a torrenti, tuttavia quando il mare toccò il ponte, allagando parte della tolda, si notò con stupore che l'immersione non progrediva.

La spiegazione di quel fenomeno non fu difficile a trovarsi. Essendo la stiva piena di tavole di pino, quella massa di legname manteneva a galla lo scafo.

Quell'informazione, data dal capitano, fu accolta – e si capirà facilmente – con grande gioia dai marinari. Se non sopravveniva qualche uragano che disperdesse il carico, i naufraghi avevano non poche probabilità di salvarsi tanto più che il mar del Nord è frequentato da navi inglesi, danesi, olandesi e norvegesi.

Dopo essersi bene accertati che la Scotia galleggiava benissimo e che nessun pericolo li minacciava, mantenendosi il mare abbastanza tranquillo, sebben soffiasse da ponente un vento freddissimo, i marinari ripresero le loro solite occupazioni in attesa dell'incontro di qualche veliero.

Sembrava, invece, che la sfortuna si fosse ostinata a perseguitarli. I giorni passavano e nessuna vela si mostrava all'orizzonte; per colmo di disgrazia la corrente ed i venti trascinavano la Scotia sempre più verso il nord e con una celerità da impensierire assai il capitano.

E questo non era tutto: anche i viveri cominciavano a mancare, trovandosi il magazzino delle provviste sott'acqua.

Si misero a razione per non morire di fame o vedersi costretti a mangiarsi uno con l'altro, come i naufraghi della Medusa.

Intanto il freddo aumentava sempre, risalendo la nave continuamente verso il settentrione ed al quindicesimo giorno i disgraziati videro con angoscia i primi banchi di ghiaccio.

Si trovavano già nelle acque dell'Oceano Artico e ben poca speranza avevano ormai d'incontrare qualche nave, non percorrendo i balenieri quei mari se non durante la primavera e l'estate.

Già gli uccelli polari si mostravano numerosi intorno alla nave. Passavano i grossi albatros bianchi, con le ali smisurate e che grugnivano come i maiali; poi bande di procellarie e di gabbiani, mentre sul mare di quando in quando appariva qualche mostruosa balena.

Poco dopo cominciarono a scatenarsi le prime tempeste. Ondate colossali, che scendevano dall'Oceano Artico, si rompevano di tratto in tratto contro la nave, minacciando di scombussolare il carico e di squarciare maggiormente la prora.

I disgraziati, mezzi affamati, tremanti di freddo poiché le loro casse contenenti i vestiti erano anche quelle sott'acqua, ormai scoraggiati, aspettavano la morte come un sollievo alle loro sventure e non si spaventavano più quando qualche banco di ghiaccio investiva la nave, minacciando di sventrarla.

Il capitano e gli ufficiali si sforzavano di rianimare il coraggio di quei miseri.

Avendo salvato un paio di fucili ed alcune libbre di munizioni, provvedevano alla meglio la colazione o la cena, uccidendo gli uccelli marini che passavano sopra alla nave.

Il ventesimo giorno la Scotia, che resisteva sempre maravigliosamente sia agli urti possenti delle ondate come alle scosse dei banchi di ghiaccio, toccò su un fondo. Essendovi in quel momento molta nebbia, il capitano non poté subito rendersi conto dove la nave si fosse arenata. Il fatto era però che non navigava più e che rimaneva perfettamente immobile, lasciandosi attraversare dai colpi di mare, senza alzarsi sotto quelle spinte.

– Quale terra credete che sia quella che ci ha fermati, comandante? – chiesero i marinari, circondando il capitano.

– Non certo la costa norvegese – disse un ufficiale.

– Non è possibile – rispose il capitano. – Non può essere che l'isola degli Orsi.

– È abitata da qualcuno? – chiese un marinaro.

– Sì, dagli orsi bianchi e dagli uccelli marini. È meglio però trovarsi a terra piuttosto che su questa nave che può, da un momento all'altro, mancarci sotto i piedi. Coraggio, ragazzi. I balenieri, al primo sciogliersi dei ghiacci, vengono qui a cacciare le foche e le morse e ci raccoglieranno.

– E come vivremo noi, comandante? – domandò un terzo.

– Di selvaggina e vedrete che quella abbonderà. Aspettiamo che la nebbia si alzi ed intanto sfasciate le cabine della coperta, essendo a noi il legname più necessario del pane.

Quantunque le onde si rompessero di frequente sulla coperta, lanciando nembi di ghiacciuoli ed inzuppando ogni cosa, i marinari, incoraggiati dalle parole rassicurati dal capitano, diedero mano alle scuri e cominciarono l'opera di demolizione, mettendo il legname in salvo sul cassero affinché il mare non lo portasse via.

Verso le dieci di mattina del giorno seguente un gabbiere, che era salito sulle crocette dell'albero di maestra, lanciò il grido tanto atteso dall'equipaggio:

– Terra! Terra!

– Dove? – chiese il capitano.

– Dinanzi la prora.

– A quale distanza?

– Ad una sola gomena.

– Che cosa vedi?

– Tre montagne, comandante.

– Non mi ero ingannato – disse il capitano, rivolgendosi verso i marinari. – L'isola degli Orsi ha appunto tre picchi. Fra qualche ora noi saremo al sicuro.

La nebbia, che si era tanto abbassata sul mare da permettere al gabbiere di discernere la terra, a poco a poco si disperdeva sotto i vigorosi soffi del vento polare.

Verso il mezzodì lasciò quei paraggi, ammassandosi verso sud, ed agli occhi dei marinari apparve un'isola dominata da tre montagne.

Non era certo una terra promessa, anzi si poteva chiamare terra di desolazione. Le sue coste, altissime e dirupate, e le sue vette erano tutte coperte di neve e di enormi massi di ghiaccio, e non si scorgevano altro che immense bande di uccelli marini, volteggianti al disopra delle rupi, ove avevano i loro nidi.

Una punta di quell'isola, che si protendeva sull'oceano per qualche chilometro, aveva fermata la nave nella sua corsa errabonda, permettendo così ai marinari di poter sbarcare senza prendere un bagno, da nessuno d'altronde desiderato, con quel freddo intenso che faceva battere i denti a tutti, non escluso il capitano.

Temendo che la nave venisse sfasciata dalle onde che rumoreggiavano sinistramente fra le scogliere, i marinari si affrettarono a sfasciare quanto rimaneva sulla coperta della nave, calarono le vele ed i pennoni e cominciarono a sbarcare tutto quel prezioso materiale che, come il capitano aveva giustamente detto, valeva meglio del pane.

Impiegarono tutta la giornata e buona parte della notte ad accumularlo sulla spiaggia e fu una vera fortuna perché nelle prime ore antimeridiane l'oceano cominciò ad ingrossare spaventosamente, sfasciando a poco a poco la povera nave.

Il domani la Scotia era scomparsa. Nondimeno la risacca aveva gettato sulla costa un numero immenso di tavole di pino e di abete, che i marinari non trascurarono di raccogliere.

Poiché il freddo era intensissimo, pensarono di costruirsi un buon ricovero sulla cima d'una rupe per poter dominare il mare, non sperando altra salvezza che da quella parte.

Col legname e con le vele che avevano a loro disposizione, rizzarono una comoda capanna, collocandovi nel mezzo una specie di focolare formato con pietre dissotterrate sotto la neve.

Così cominciarono la loro vita di Robinson. Il capitano e gli ufficiali, quando le giornate non erano troppo tempestose, uscivano a caccia, ammazzando ora una foca, ora un tricheco, ora una renna, essendovi nell'isola molta selvaggina, mentre i marinari facevano raccolta di uova d'uccelli marini, le quali fornivano dei pasti se non molto graditi, perché esse avevano un certo gusto di pesce, ma certo molto sostanziosi e che li mantenevano in ottima salute.

Così passarono il lungo inverno, bruciando a volta a volta gli avanzi della nave e grasso di foca e di morsa. Sovente delle terribili bufere di neve si scatenavano su quell'isola perduta in mezzo all'Oceano Artico, obbligando i naufraghi a starsene chiusi nella loro capanna parecchi giorni, eppure non si lamentavano.

Era meglio trovarsi su quella terra di desolazione, piuttosto che in fondo al mare rosicchiati dagli avidi crostacei, dai ragni marini o divorati dai pescicani.

Finalmente la primavera venne, le tenebre si dileguarono, le nevi cominciarono a fondersi e le foche a ricomparire in grossi banchi, assicurando ai naufraghi pranzi copiosi e cene non meno abbondanti.

Passò un mese senza che alcuna nave baleniera comparisse all'orizzonte.

Eppure il capitano era certo che nella buona stagione dei coraggiosi norvegesi si spingevano lassù a cercare le colossali balene, le morse e le foche.

Ne passò un altro e nulla ancora. S'avvicinò pure l'estate in una vana aspettativa.

Che cosa fare? Tutti erano inquieti e non si sentivano in grado di affrontare un secondo inverno, tanto più che il legname che li aveva riscaldati ormai era stato quasi tutto consumato.

Presero allora una risoluzione disperata.

– Fabbrichiamoci una zattera e cerchiamo di raggiungere la costa settentrionale della Norvegia – disse il capitano, che vedeva avanzarsi nuovamente la fredda stagione. – Abbiamo ancora un po' di legname e l'alberatura della Scotia e le vele e le corde non ci mancano e abbiamo anche viveri abbondanti. Partiamo!

Quella proposta, quantunque presentasse gravissimi pericoli, non fu nemmeno discussa, perché tutti desideravano ardentemente di rivedere il loro lontano paese, checché dovesse accadere.

E quel desiderio fece sì che subito i marinari si mettessero febbrilmente all'opera per non vedersi sbarrare la via dai banchi di ghiaccio che cominciavano già ad apparire verso il nord.

In quattro giorni la zattera fu pronta; v'imbarcarono gli ultimi avanzi delle loro cacce e si affidarono risolutamente ai venti e alle onde.

Avendo spiegato due vele, in poche ore perdettero di vista l'isola degli Orsi, e siccome dal settentrione soffiavano delle raffiche violente che imprimevano alla zattera una velocità notevole, puntarono verso le coste della Norvegia, nella speranza di raggiungere il capo Nord, che è il punto più alto del continente europeo.

Avevano percorso di già un centinaio di miglia, quando un marinaro si mise a urlare come se fosse improvvisamente impazzito:

– Siamo salvi! Una vela! Una vela!

Tutti erano balzati in piedi, guardando nella direzione che il marinaro indicava.

Era vero. Un punto bianco usciva in quel momento da una cortina di nebbia e si dirigeva verso la zattera.

Una mezz'ora dopo giungeva a poche gomene e si metteva in panna mentre i suoi marinari mettevano in mare le scialuppe per raccogliere i naufraghi.

Era una nave baleniera di Bergen, che si dirigeva verso l'isola degli Orsi a cacciare le foche ed i trichechi.

I naufraghi ebbero la più ospitale accoglienza da quei bravi norvegesi. Furono però costretti a rimanere a bordo della baleniera fino al termine della campagna, che durò quattro mesi e non fu che alla fine di settembre che poterono finalmente rivedere le tanto sospirate coste d'Europa.