I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/La pantera nera

La pantera nera

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Il cimitero galleggiante Il naufragio dell'Hansa

LA PANTERA NERA


Da soli otto giorni avevamo gettato l'àncora a Sourakarta, una delle più isolate città della grande isola di Giava, la colonia più opulenta che possegga l'Olanda, eppure ne eravamo arcistufi e tutti sospiravamo il momento di sciogliere le vele, quantunque avessimo prima compiuto una navigazione di quattro mesi, senza toccare mai terra alcuna.

Mattina e sera era una nebbia pestilenziale carica di germi che mettono la febbre addosso anche ad un elefante, se non è acclimatato, e durante il giorno un sole equatoriale ci bruciava, impedendoci di lasciare la nave, per evitare una di quelle tremende insolazioni, che mandano l'uomo più robusto all'altro mondo in meno di sei ore.

A terra, poi, nessun divertimento e nessuna buona accoglienza, giacché i giavanesi non vedono mai di troppo buon occhio gli stranieri. Anzi, erano zuffe continue e più d'un marinaro era tornato alla nave con la testa rotta e anche con qualche coltellata, avendo quegli abitanti l'abitudine di certi pugnali a lama fiammeggiante, che adoprano con una lestezza maravigliosa.

Morivamo, dunque, dalla noia e aspettavamo con impazienza il momento di tornarcene sulle azzurre onde dell'Oceano Indiano, quando un avvenimento inaspettato venne a turbare la calma perfin troppo... calma che regnava a bordo.

Avevamo già quasi compiuto il carico e stavamo completando le nostre provvigioni, allorché salì sulla nostra nave un signore, a tutti sconosciuto e che dall'accento sembrava un americano, chiedendo di parlare al nostro comandante per un affare urgente. Credendo che quello straniero desiderasse d'imbarcarsi con noi, avvertimmo il capitano, il quale in quel momento stava riordinando la sua cabina semisconquassata dall'ultima tempesta.

– Comandante – disse lo sconosciuto appena lo vide. – Vi assumereste l'incarico d'imbarcare una belva? Io so che voi dovete recarvi al capo di Buona Speranza e non fareste un cattivo affare.

Il capitano dinanzi a quella proposta inaspettata era rimasto silenzioso. Aveva imbarcato durante la sua lunga carriera marinaresca un po' di tutto, ma non aveva mai trasportato belve.

– Vi offro cento dollari, purché la mia bestia giunga a destinazione in buona salute.

Cinquecento lire erano una bella sommetta che nemmeno un passeggiero avrebbe pagata, trattandosi d'un viaggio d'un paio di mesi.

– Ditemi almeno che razza d'animale sarà – rispose il capitano.

– È una pantera nera.

– E la gabbia?

– Solidissima.

Tentato da quelle cinquecento lire, il capitano concluse il contratto, quantunque non ignorasse la ferocia di quel genere di belve.

Se le tigri ed i leoni incutono terrore e hanno pessima fama, le pantere nere di Giava superano une e gli altri per ferocia e per audacia.

Sono veri mostri, sempre assetati di sangue e affamati soprattutto di carne umana. Affrontano risolutamente il cacciatore che osano assalire e non vi è fuoco che le atterrisca.

Avendo però l'americano assicurato che l'avrebbe fatta condurre a bordo in una gabbia solidissima ed essendovi molto spazio ancora vuoto nella stiva, come dissi, il capitano aveva accettato la proposta.

Il domani la pantera nera era a bordo. Era una bestia superba grande quanto una tigre reale, solamente aveva le zampe un po' più corte ed il pelame nerissimo e lucentissimo con macchie e rosette ancora più nere e queste un po' più opache.

La nuova viaggiatrice mostrò subito di non trovarsi soddisfatta e manifestò il proprio malumore con una serie di rauchi ruggiti che ci facevano accapponare la pelle. Forse era l'ondulazione che subiva la nostra nave che la seccava.

Si trattava ora di darle un guardiano che s'incaricasse del nutrimento e della pulizia, ma tutti, un po' spaventati dall'aspetto feroce della fiera, si erano recisamente rifiutati per paura di perdere un braccio o per lo meno una mano.

Solo uno aveva accettato. Era costui un marinaro indiano, una specie di misantropo che viveva quasi sempre appartato, che non parlava mai; ma che aveva una passione deplorevole, che il comandante aveva già più volte punita con qualche settimana di ferri: si ubriacava sconciamente appena poteva avere qualche sterlina per provvedere la sua cassa di arak o di rhum.

Gl'indiani, più o meno, sono tutti famigliarizzati con le belve, essendo il loro paese infestato di tigri, di pantere nere, di coccodrilli e di serpenti smisurati ed il capitano non aveva avuto alcuna difficoltà ad accettare l'offerta di Zurak – così chiamavasi il marinaro – dimenticando la fatale passione che aveva ormai invaso quel bruto.

Zurak, che era d'altronde un pessimo marinaro, rifuggente da ogni fatica, si mise subito all'opera, affermando che prima di giungere al capo la terribile fiera sarebbe addomesticata.

Due giorni dopo, con un sospiro di vera soddisfazione, lasciavamo l'isola diretti al sud dell'Oceano Indiano.

La pantera nera, però, pareva che non gradisse troppo le onde che, volta a volta, scuotevano bruscamente la nostra nave.

Ruggiva e urlava sempre e si mostrava di pessimo umore. Ogni volta che uno di noi cercava di accostarsi alla sua gabbia, si scagliava rabbiosamente contro le sbarre, mordendole furiosamente, e allungava le zampe per ghermirci.

Solamente l'indiano pareva che godesse le sue simpatie. Lo lasciava accostarsi senza andare in collera e subiva pazientemente i suoi lunghi discorsi, contentandosi talvolta di ringhiare come un cane e di scuotere la testa.

Devo però dire che Zurak molto di frequente, specialmente quando aveva alzato il gomito, dormiva presso la gabbia e che la trattava bene, fornendola abbondantemente di cibo.

Viceversa, la pantera non poteva tollerare la nostra presenza e ci guardava ferocemente, con una certa espressione da farci venire i brividi. Pareva che volesse dirci:

– Se fossi libera, come gusterei le vostre bistecche!

Navigavamo da un paio di settimane, quando un giorno, essendo sceso nella stiva per vedere se la pantera deperiva, Zurak mi disse:

– Io scommetterei che questa pantera, anche messa in libertà, non farebbe male a nessuno.

Guardai l'indiano con inquietudine e m'accorsi che quel disgraziato aveva bevuto più del solito.

– Zurak! – gli dissi con tono minaccioso. – Guardati dall'aprire la gabbia della pantera! Succedono abbastanza disgrazie sul mare per cercarne altre.

– È addomesticata, ve lo assicuro e passeggerebbe sulla tolda senza toccare i marinari. Io me ne intendo, io che sono nato nel paese preferito dalle tigri.

– Guardati! Se ripeti ancora queste parole ti farò mettere ai ferri.

Zurak mi guardò con due occhi inebetiti, poi mi disse:

– Voi credete che questa pantera non sia proprio addomesticata?

– Non fidarti, né commettere imprudenze. Questi animali sono traditori e quando meno uno se l'aspetta i loro istinti sanguinari si risvegliano.

Zurak sorrise, poi mi disse:

– Ebbene, guardate.

S'accostò alla gabbia, introdusse il braccio nudo attraverso le sbarre e accarezzò il muso della pantera. Non avevo avuto il tempo di fermarlo, tanto era stata rapida ed improvvisa la sua mossa.

D'altronde i miei timori apparvero subito infondati. La sanguinaria belva, invece di afferrare quel braccio e di stritolarlo, cosa appena credibile, si lasciò accarezzare dall'indiano con visibile soddisfazione e si sarebbe detto che sotto quelle carezze facesse le fusa come i gatti domestici.

– Credete che sia ancora cattiva? – mi chiese Zurak.

– Sei pazzo per tentare una simile prova! – gli risposi. – Un giorno o l'altro ti mangerà il braccio.

– No! E vedrete che prima di giungere al capo di Buona Speranza, Simla – l'aveva chiamata così la belva nera – passeggerà sulla coperta senza offendere nessuno e che sarà più docile d'un cagnolino.

– Non provarti, Zurak! – gridai. – Non voglio che succedano disgrazie. Sta meglio nella gabbia che fuori, ricordatelo se non vuoi provare i ferri.

– Come volete – mi rispose l'indiano con un certo accento però che non mi rassicurava gran fatto.

Da quel giorno una profonda inquietudine si era impossessata di me. Temevo che quel pazzo, in un momento di ubriachezza, si provasse a liberare la pantera e anche la notte mi svegliavo sovente, credendo di udire presso la mia cabina i rauchi urli della belva.

Perciò lo sorvegliavo attentamente e scendevo di frequente nella stiva per rassicurarmi coi miei propri occhi che Simla era sempre rinchiusa nella gabbia.

Che l'indiano e la pantera vivessero in perfetto accordo, era vero. Sorprendevo sovente Zurak seduto dinanzi alla gabbia, occupato a raccontare alla belva non so quali storie del suo paese, e, cosa ancora più strana, pareva che la pantera ci provasse gusto ad udirle.

Un po' rassicurato dei miei timori avevo cominciato a rallentare la sorveglianza; d'altronde mi mancava sovente il tempo.

La buona stagione era finita ed i monsoni, quei venti violentissimi che dominano nell'Oceano Indiano, si facevano sentire sovente, scatenando improvvise bufere, che ci procuravano fatiche immense e anche molte preoccupazioni.

Avevamo già scorto le cime montuose della grande isola del Madagascar e ci preparavamo a far rotta per l'Africa del Sud, quando una sera fummo assaliti da una bufera così terribile da mettere in serio pericolo la nostra nave.

Le raffiche si succedevano senza posa, costringendoci a manovre faticosissime che fiaccavano l'equipaggio, e le onde erano così alte che superavano facilmente le bordature, allagando ogni momento tutta la coperta.

Ciò che temevamo erano i banchi di sabbia che sono numerosissimi verso la punta meridionale del Madagascar, e che costituiscono un grave pericolo per le navi, anche quando il tempo non è molto cattivo.

La notte era trascorsa fra continue ansie e cominciava a far giorno, quando un grido terribile giunse ai miei orecchi:

– La pantera! La pantera!

Un istante dopo un marinaro, che era sceso nella stiva per prendere un canapo, compariva sulla coperta, pallido come un morto e con gli occhi smarriti.

– Dov'è Zurak? – gridai, correndogli incontro.

– È giù!... Ubriaco... e la pantera è fuori... fuggite tutti!

– Il miserabile! – esclamai. – Me l'aspettavo.

Un pazzo terrore si era impadronito di tutto l'equipaggio. Udendo che la pantera era fuggita dalla gabbia, tutti si erano precipitati sulle scale di corda per mettersi in salvo sugli alberi.

E, dopo tutto, non avevano torto, giacché sulla coperta non vi era alcun fucile. Affrontare la belva con le asce e con le scuri di manovra sarebbe stato una pazzia, e nessuno avrebbe avuto il coraggio d'impegnare la lotta con simile animale.

Vedendo i marinari fuggire, anche noi l'imitammo, mettendoci in salvo sulla coffa dell'albero di poppa, abbandonando la nave al suo destino.

Quel furfante d'ubriacone poteva bene scegliere un altro momento per fare il suo pericoloso esperimento. La nave, senza timoniere e senza marinari alla manovra, poteva venire spinta verso la costa senza che noi nulla avessimo potuto tentare per salvarla.

Il capitano era furioso.

– Lo farò appiccare quella canaglia! – gridava. – Ci manda tutti a naufragare, quel miserabile!

– Io credo che Zurak riuscirà a farla rinchiudere – gli dissi. – La pantera è sua amica.

– Ma lo farò mettere ai ferri per un mese e anche fustigare ben bene.

Tutti spiavano ansiosamente la comparsa della belva, la quale non veniva ancora. I muggiti delle onde ed i sibili del vento erano d'altronde così forti da non permetterci di raccogliere i rumori della stiva.

Che cosa faceva intanto Zurak?

Mi provai a chiamarlo:

– Zurak! Zurak!

Una voce mi rispose:

– Eccomi!

L'indiano era comparso sulla coperta, uscendo non già dal boccaporto, bensì dalla camera dell'equipaggio.

M'accorsi subito che quel disgraziato era ubriaco fradicio. Aveva gli occhi inebetiti, rideva come un pazzo ed era costretto a tenersi aggrappato al bastingaggio per non essere scaraventato contro gli alberi dai soprassalti che subiva la nave.

Quando il capitano lo vide, gli tese il pugno, gridandogli:

– Miserabile!

Zurak rispose con una risata da ebete.

– Rinchiudi la pantera, canaglia!

– La pantera?... – borbottò l'indiano, sempre ridendo. – È un cagnolino... non farà male a nessuno... voglio farle prendere aria.

– Rinchiudila! – urlò il capitano. – La nave corre pericolo e nessuno osa discendere.

– Simla è dolce – disse l'indiano, ruzzolando a terra.

– Chiudi almeno il boccaporto, sciagurato... – gridai.

Zurak alzò le spalle, ripetendo:

– Simla è dolce.

Né preghiere, né minacce smossero l'ubriaco. Ad ogni nostra invettiva o ad ogni nostro ordine, rispondeva testardamente:

– Simla è dolce.

Ed il disgraziato rideva, rideva...

Intanto la nostra situazione diventava criticissima. La nave, sbattuta dalla tempesta, senza alcuna direzione, veniva spinta verso i banchi di sabbia e s'accostava di momento in momento alla punta meridionale di Madagascar.

– Zurak! – gridò il capitano, vedendo che era inutile tentare di persuadere l'ubriaco. – Ti prometto cento dollari se rinchiudi la pantera e non ti farò mettere ai ferri. La nave corre sulle scogliere.

L'indiano guardò il mare che era procelloso e l'istinto del marinaro, per un momento, si ridestò in lui.

Lo vedevamo attraversare la coperta, aggrappandosi ora alle scialuppe, ora ai cordami ed ora agli argani per dirigersi a poppa.

Con un colpo di timone orientò la nave verso il sud, poi legò la barra e ridiscese sulla tolda, accostandosi al boccaporto.

La nave pel momento era salva, ma non potevamo discendere e le onde ed il vento erano sempre violentissimi.

Il pericolo non era dunque ancora cessato.

Vedendo l'indiano mostrarsi al boccaporto, intuimmo un nuovo pericolo.

Quel pazzo si era cacciata nel cervello l'idea di far prendere aria alla pantera e voleva di certo condurla sulla tolda.

Il capitano recise con un colpo di coltello una carrucola e gliela scagliò contro, con la speranza di abbatterlo; invece lo mancò a causa della troppa distanza e delle sartie.

Zurak aveva cominciato a gridare:

– Simla! Simla! Qui!

Ad un certo momento vedemmo la belva slanciarsi fuori dal boccaporto, passando sopra la testa dell'indiano e ricadere presso l'albero di maestra.

Un grido di terrore si era alzato fra l'equipaggio.

La belva rimase un momento immobile, guardandosi intorno, forse stupita di non trovare alcuna preda e fors'anche un po' impressionata dai colpi di mare che si frangevano, muggendo contro i fianchi della nave e sui bastingaggi.

Poi si mise a guardare gli alberi, osservandoci attentamente. Sapendo che le pantere sono abilissime nell'arrampicarsi, ci prese non poca paura, e gridammo nuovamente all'indiano di finirla una buona volta e che noi non avevamo alcun desiderio di farci divorare.

L'ubriaco pareva fosse diventato sordo. Guardava con compiacenza la pantera, contento di vederla in libertà!

Quando però la vide accostarsi alla scala di corda dell'albero di maestra su cui si erano rifugiati sei o sette marinari e guardare in alto, come se cercasse un punto d'appoggio per spiccare il salto, si alzò di scatto e si fece innanzi.

Aveva finalmente compreso che la pantera non era tanto addomesticata da rinunziare ai suoi istinti sanguinari e che era il momento di ricondurla al sicuro nella sua gabbia?

Lo supponemmo.

Il fatto sta che l'indiano si preparava ad impedire alla feroce belva di tentare quel salto che, se riusciva, poteva avere terribili conseguenze pei disgraziati che si trovavano sulla coffa dell'albero.

– Simla! – gridò. – Nella stiva e subito!

La pantera, udendo la sua voce, si volse e lo fissò con due occhi che non mi parevano affatto dolci. Anzi, vedemmo il suo pelame nero arruffarsi, segno certo d'un imminente scoppio di rabbia.

L'indiano, con un'audacia che ci spaventò, continuava ad avanzarsi, minacciando la belva col pugno e gridando sempre:

– Obbedisci, Simla!

La pantera indietreggiò su se stessa come se si preparasse a scagliarsi sull'indiano.

– Zurak! – gridammo. – Guardati! La pantera si getta su di te.

Il disgraziato, convinto che la sua dolce amica non osasse assalirlo, si avanzava sempre col pugno alzato.

Si trovava già a tre soli passi dalla pantera quando questa scattò violentemente, precipitandosi su Zurak, il quale non poté reggere a quell'urto.

Udimmo un urlo seguìto da un ruggito spaventevole. La belva aveva piantato gli artigli nel collo del povero indù e straziava orrendamente quel povero corpo, succhiando avidamente il sangue che ne usciva.

Quando vide che non si muoveva più, la terribile belva quasi si fosse pentita di quell'assassinio fuggì verso poppa, accovacciandosi presso la barra del timone.

Noi eravamo impietriti dallo spavento. D'altra parte nulla avremmo potuto tentare per impedire alla fiera di fare strazio del suo guardiano. A che cosa ci sarebbero giovati i coltelli di manovra che ordinariamente non sono più lunghi di trenta centimetri e per di più quasi sempre smussati?

La morte dell'indiano, per di più, non aveva migliorato affatto la nostra situazione. La belva pareva che non avesse alcuna intenzione di lasciare la tolda, ed intanto la nave subiva dei soprassalti sempre più violenti e le onde, invece di calmarsi, diventavano sempre più tremende.

Ci provammo a scagliare addosso alla pantera qualche carrucola con la speranza di spaventarla e costringerla a tornare nella stiva, ma la maligna bestia si sottraeva facilmente ai nostri proiettili, balzando ora da una parte ed ora da un'altra.

La nostra posizione si faceva gravissima ed imbarazzante. Non potevamo rimanere eternamente sugli alberi e cominciavamo ad essere stanchissimi con quelle scosse continue. Per di più la nave aveva bisogno di essere governata per poter far fronte all'uragano, che non accennava a cessare.

Già le onde salivano fino ai bastingaggi e si rompevano sulla tolda, allagandola tutta.

Il cadavere di Zurak veniva continuamente sbalzato ora da una parte ed ora dall'altra, e pareva che da un momento all'altro dovesse venire portato via.

La pantera, vedendo tutta quell'acqua entrare, pareva impressionata. Fuggiva ora verso prora ed ora verso poppa, col pelame irto e la coda alzata.

Ad un tratto, un'onda più colossale delle altre balzò sopra i bastingaggi ed irruppe sulla tolda con violenza inaudita, spazzando tutto.

Quando quel torrente d'acqua fuggì dalle aperture di prora, un grido sfuggì a tutti:

– La pantera è stata portata via!

Era vero. La belva e anche Zurak erano stati trascinati fuori dalla nave da quell'ondata.

Volgemmo gli sguardi verso il largo e vedemmo la fiera dibattersi furiosamente sulla cresta di un'onda, poi scomparire in un avvallamento.

Era sommersa.

Scendemmo più che in fretta, correndo chi al timone e chi alle manovre ed era proprio tempo che la tolda fosse sgombra.

Ancora qualche mezz'ora e la nostra nave, che era tornata al nord, andava a investire nei banchi di sabbia del Madagascar.

Con una pronta manovra rimettemmo la nave sulla buona via e proseguimmo la nostra rotta verso l'Africa.

Cinque giorni dopo gettavamo l'àncora nella spaziosa e splendida baia di Capetown.