I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Il cimitero galleggiante

Il cimitero galleggiante

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Gli schiavi gialli La pantera nera

IL CIMITERO GALLEGGIANTE


Jam Paddy era decisamente nato sotto una cattiva stella.

Emigrato giovanissimo in America, dalla natìa e affamata Irlanda, non aveva mai avuto un lampo di fortuna, a malgrado la sua buona volontà.

Aveva fatto il cerinaro a New-York, sbarcando assai magramente il lunario; l'imbianchino a Chicago, dando più colore alle case che mandando giù pane; il carrettiere a Nuova Orleans, ed aveva finito il suo giro a San Francisco di California, impiegandosi come sguattero in uno di quegli immensi alberghi!

Là almeno aveva di che riempire il ventre quattro volte al giorno e la possibilità di mettere da parte qualche soldo.

Credeva di aver finalmente trovato il suo paradiso, quand'ecco, un giorno, riceve una lettera da Canton, che gli dà il tristissimo annunzio che suo padre, gravemente ammalatosi, disperando di guarire, desiderava ardentemente di vederlo prima di lasciare questo mondo.

Jam Paddy aveva sempre nutrito un profondo affetto pel vecchio genitore, emigrato anche lui all'estero per cercare un po' di fortuna, che la terra natìa, troppo povera, gli negava.

Invece dell'America aveva scelto la Cina, dove aveva potuto finalmente aprire un modesto negozio, guadagnandosi da vivere.

Jam, che desiderava anche lui rivedere il povero vecchio da cui era separato da sei anni, decise di partire, con la speranza di giungere ancora in tempo di vederlo vivo.

Vi era però una difficoltà enorme: il povero Jam non era riuscito a mettere da parte nemmanco la decima parte della spesa pel viaggio, e per di più non aveva alcun amico su cui contare.

Provò di rivolgersi al proprietario; ma questi lo mandò a lavare i piatti in cucina, dicendogli che non voleva occuparsi d'infermi; provò da qualche altro con esito identico. Di genitori ammalati nessuno voleva nemmeno udirne parlare. Avevano ben altro da fare quegli americani!

Il povero Jam, disperato, andò ad offrirsi a diversi capitani, risoluto ad imbarcarsi come carboniere, come servo, magari come mozzo.

Uno sguattero! Non era un marinaio e lo mandavano senz'altro a quel paese, ridendogli sul muso.

Erano già trascorsi parecchi giorni e Jam cominciava a disperare di poter vedere le cupole azzurre dei templi buddisti di Canton, la regina del fiume delle Perle, quando si sparse nel porto la notizia dell'arrivo d'una nave-feretro.

Dovete sapere che tutti i cinesi, che emigrano all'estero, fanno prima un contratto con certe compagnie per assicurarsi il ritorno in patria anche dopo morti.

Lo spirito di famiglia è così profondamente radicato nell'animo dei sudditi del Celeste Impero – così essi chiamano la Cina – che essi vogliono a qualunque costo tornare presso i loro parenti, se sono vivi, o presso le loro tombe, se sono morti.

Se muoiono quindi lontani dal loro paese, sono così certi di andare a riposare presso le tombe dei loro avi; perché prima di partire concludono speciali contratti con apposite compagnie, che s'incaricano di trasportare in Cina i cadaveri.

Si sono perciò costituite parecchie compagnie di emigrazione, così bene organizzate, che vegliano su tutti gli emigranti cinesi, assistendoli e procurando loro lavoro, e che favoriscono il ritorno dell'emigrato se la morte lo ha colto in terra straniera.

Così non è raro veder giungere e ripartire da San Francisco, dove la colonia cinese è numerosissima, una nave carica di feretri, contenenti i cadaveri dei cinesi morti durante il mese e conservati con ispeciali processi chimici, noti solo ai figli del Celeste Impero.

Vedendo approdare quella nave, già annunziata dai giornali cinesi di San Francisco, un'idea era venuta al povero Paddy.

Già parecchie volte aveva udito narrare che degli spiantati al pari di lui, che non possedevano i mezzi necessari per pagare il viaggio, si erano nascostamente imbarcati su quelle navi funebri, prendendo il posto d'un morto.

Risoluto di vedere a qualunque costo il padre prima che morisse, si decise tentare a sua volta quella prova pericolosa.

In un luogo appartato della baia sorgeva un vasto fabbricato dove venivano trasportati i feretri dei cinesi, in attesa dell'arrivo della nave che doveva riportare i defunti in patria.

Andò dunque a girare da quelle parti dopo essersi provveduto di parecchi chilogrammi di biscotti, di alcune scatole di carne conservata e d'un fiasco d'acqua per non esporsi al pericolo di morire di fame almeno durante i primi giorni del viaggio.

– In un modo o nell'altro, rivedrò quel povero vecchio – si era detto. – Infine, anche scoprendomi, non mi getteranno giù in mare, né interromperanno il viaggio per andarmi a sbarcare su qualche isola.

Saputo che i feretri si dovevano imbarcare nella notte, verso il tramonto, si trovava presso il fabbricato in attesa della buona occasione per cacciarsi dentro una di quelle bare e prendere il posto del morto.

Ronzava già da qualche po', tenendo d'occhio il cinese incaricato della sorveglianza del fabbricato. Costui, già mezzo inebetito dall'oppio che fumava, stava per sonnecchiare, quando s'accorse della presenza d'un giovanetto di venti a ventidue anni, dai capelli rossi come li hanno quasi tutti gl'indiani e che, al pari di lui, portava un fardello e un grosso fiasco.

– Che sia un altro che cerca di viaggiare senza spendere un soldo? – si domandò Paddy. – Mi sembra un buon diavolo e per di più un compatriota.

Forse anche quel giovanetto si faceva le stesse domande.

Si guardarono per parecchi minuti un po' sospettosamente, poi, mossi dal medesimo impulso, s'accostarono sorridendosi.

– Un irlandese? – chiese il giovane.

– Di Cork – rispose Paddy.

– Allora siamo compatrioti.

– E forse abbiamo anche le stesse intenzioni.

– Di andare in Cina coi cadaveri – rispose il giovanetto ridendo.

– Almeno lo spero.

– Ed anch'io. Non ho mezzi sufficienti per pagare il biglietto e ne ho abbastanza della fame patita qui. Mi si promette del lavoro a Canton e approfitto della presenza della nave-feretro. Già è la seconda volta che attraverso l'Oceano Pacifico assieme ai morti. Lasciatevi guidare da me. Vi prometto di farvi sbarcare a Canton. Avete portato con voi dei viveri?

– Dei biscotti e della carne conservata.

– Ed io due prosciutti e delle gallette – disse il giovane. – Ne avremo abbastanza per qualche settimana. Vedrete che Joe Burnet saprà farvi buona compagnia anche fra i morti. Aspettiamo che il guardiano si sia addormentato e scivoleremo entro il fabbricato. Già non verranno a prendere le bare prima della mezzanotte.

Sedettero dietro il fabbricato, facendosi le loro confidenze, in attesa che il cinese, già ubriaco, chiudesse gli occhi.

Verso le undici, vedendo la nave-feretro mettersi a rimorchio d'una scialuppa a vapore per accostarsi alla riva, Joe e Jam scivolarono nel fabbricato per una delle numerose porte che erano state lasciate aperte.

In un immenso stanzone, appena illuminato da una fumosa lampada ad olio, scorsero duecento e più bare di dimensioni varie, disposte simmetricamente le une accanto alle altre e ornate di sculture e di disegni stravaganti secondo l'uso dei cinesi, ed abbellite da pezzi di carta dorata rintagliati ad uccelli ed a pesci.

In ognuna v'era una placca di metallo su cui, in caratteri cinesi, era scritto il nome del defunto e la sua destinazione.

– Non abbiamo che da scegliere – disse Joe che non manifestava alcun timore, trovandosi in mezzo a tutti quei morti. – Vuoteremo due delle più grosse, per poter respirare meglio.

– Ed i cadaveri che dovremo togliere dove li metteremo? – chiese Jam Paddy, con una certa emozione.

– Andremo a portarli sulla riva del mare. Torneranno in Cina un'altra volta. Sono morti e non ci daranno noia. D'altronde se volete vedere vostro padre, non avete a vostra disposizione nessun altro mezzo.

Adocchiò due casse ben larghe, che erano collocate l'una presso l'altra, e svitò destramente il coperchio della più vicina.

Vi era dentro una specie di mummia che puzzava di resina, tutta avvolta con strisce di tela ed in uno stato perfetto di conservazione.

Joe la prese, la trasportò presso la riva del mare, nascondendola fra le scogliere, poi svitò l'altra cassa.

Vi era nella seconda un uomo di età indecisa, che pareva morto da poco tempo e anche questo benissimo conservato.

Joe lo portò a tenere compagnia all'altro.

Aveva appena terminato quelle sinistre operazioni, quando udì verso la spiaggia il fragor delle catene calanti i pontili della nave.

– Presto, Jam – disse il giovane. – Animo: non è questo il momento di esitare. I marinai fra pochi minuti saranno qui.

Paddy, pensando che senza quella fortunata combinazione, avrebbe dovuto rassegnarsi all'idea di non poter rivedere quel povero vecchio che lo aspettava, chi sa con quanta ansia, prese il suo partito senz'altre esitazioni.

Si coricò nella bara, dopo d'aver steso uno di quei grossi tappeti di feltro di cui si servono i cinesi per coricarsi, e, seguendo le istruzioni di Joe, invitò il coperchio per di dentro, lasciando una fessura sufficiente perché l'aria vi potesse penetrare liberamente.

– Ci siete? – chiese Joe, che si trovava a un passo di distanza.

– Sì – rispose Jam con voce soffocata.

– Come vi trovate?

– Non saprei dirvelo.

– Vi abituerete presto. Eccoli che vengono. Lasciatevi portar via.

Degli uomini che camminavano pesantemente, come tutti i marinai, e che chiacchieravano forte, entravano nello stanzone.

Ridevano e anche bestemmiavano. Jam, rannicchiato in fondo alla cassa, semiasfissiato dall'acuto odore di resina ond'erano impregnate le tavole, udì per parecchio tempo un fracasso indiavolato, poi si sentì alzare e scuotere ruvidamente.

Comprese che lo portavano a bordo della nave-feretro.

– Comincio ad aver paura – mormorò il povero irlandese.

Un pensiero lo aveva assalito, agghiacciandogli il sangue. Era l'orribile paura di venir calato in fondo alla stiva e di venire ricoperto da tante casse da non poterle poi più sollevare per uscire fuori alla luce.

Non ebbe però il coraggio di gridare ai marinai che lo portavano:

– Aprite, ché io non sono un cadavere!

Si sentì gettare entro qualche cosa che risuonò cupamente, poi ebbe come la sensazione che lo sollevassero.

Udiva stridere delle catene, delle pulegge e grida, comandi ed imprecazioni.

Poi provò una scossa che gli fece battere il capo contro le pareti della cassa. Doveva essere stato deposto sulla tolda della nave.

Si sentì però quasi subito innalzare e rigirare in tutti i sensi, poi gli parve di scendere nuovamente.

Dovevano calarlo nella stiva.

– Ecco il momento terribile! – pensò il poveretto. – Se mi coprono con altri feretri, sono perduto. E Joe, dove sarà? Lo collocassero almeno accanto a me...

Provò un urto abbastanza violento, poi la cassa rimase immobile. Era stata collocata a posto.

I rumori e le grida si seguirono per qualche ora ancora, poi udì un lungo e rauco fischio e una viva trepidazione scuotere i fianchi della nave.

Le macchine si erano messe in moto e la nave-feretro, col suo lugubre carico di cadaveri, lasciava la baia di San Francisco per intraprendere la traversata del grand'Oceano Pacifico.

Già un cupo rimbombo aveva avvertito Jam che il boccaporto era stato chiuso sopra quelle centinaia di bare.

– Aspettiamo un po', poi mi metterò in cerca di Joe – disse Jam.

Attese circa un'ora, temendo che qualche marinaio scendesse e che lo scoprisse, poi, quando suppose che la nave fosse ormai lontana dalle coste ed il pericolo di venire ricondotto a terra fosse scomparso, svitò il coperchio.

Non ne poteva più e gli pareva di non aver abbastanza aria. E poi la incomoda posizione in cui aveva dovuto fino allora rimanere e le continue scosse lo avevano slombato.

Si provò ad alzare il coperchio e, con suo orrore, s'accorse che aveva sopra di sé qualche altra cassa e forse anche parecchie.

Si sentì rizzare i capelli. Avrebbe dovuto dunque rimanere là dentro fino alla fine del viaggio? Era bensì provvisto di viveri e anche d'un fiasco d'acqua; ma non avrebbero potuto bastare, specialmente l'acqua.

Deciso a tutto, pur di sottrarsi a quell'orribile prigionia, anche a farsi scoprire dall'equipaggio, puntò i piedi contro il coperchio e spinse a tutta forza. Udì un colpo sordo, come se qualche feretro si fosse spostato e caduto lì presso, poi il coperchio si rovesciò da una parte.

– Sono salvo! – esclamò Paddy.

Uscì penosamente dalla cassa, e dapprima si sentì incapace a reggersi in piedi. I muscoli si erano intorpiditi e si rifiutavano di agire.

Si fregò cercando di riattivare la circolazione del sangue e ridette un po' di elasticità alle articolazioni e finalmente poté fare qualche passo.

Vi erano casse dappertutto: a destra, a sinistra, dinanzi e di dietro, che risuonavano cupamente sotto i suoi piedi ed una oscurità spaventosa regnava nella immensa stiva.

Jam non era punto pauroso, anzi tutt'altro; eppure nel trovarsi rinchiuso nella stiva di quella nave, fra tutti quei cadaveri, cominciava a provare un orrore invincibile. Pazienza ci fosse stata almeno qualche lampada!

Girò intorno alla propria cassa, non osando allontanarsi, per paura di non poter poi più ritrovarla, mentre dentro aveva i viveri, poi si provò a chiamare dapprima a voce bassa, poi più alta, il suo giovane compatriota.

Nessuna risposta: solo i rauchi muggiti delle macchine sbuffanti rispondevano alle sue chiamate.

– Che abbia una moltitudine di casse sopra di sé? – si chiese il disgraziato irlandese, tentennando. – O che si sia soffocato? Che cosa farò io solo, smarrito in questa stiva? Avessi avuto almeno la precauzione di portare con me una candela, mentre non posseggo nemmeno uno zolfanello.

Rientrò nella cassa e, con la speranza di riprendere animo, rosicchiò un biscotto e bevette avidamente alcuni sorsi d'acqua, regnando nella stiva una temperatura da stufa; poi stette in ascolto, credendo sempre di udire la voce di Joe.

Le ore passavano fra continue angosce, senza che l'amico desse alcun segno di vita.

E sempre quell'orribile solitudine in piene tenebre, in mezzo a tutti quei feretri che talvolta, per causa dell'urto delle onde che facevano trabalzare la nave, si rovesciavano con un cupo rimbombo che si ripeteva.

Eran trascorse molte ore, chi sa quante, quando Jam, che si era rannicchiato sulla cassa, udì dei colpi che pareva venissero dalla parte della poppa.

Qualcuno picchiava contro le bare, cercando o di spostarle o di rovesciarle. Il suo pensiero corse subito a Joe.

– Deve essere lui che si sforza di uscire – pensò il bravo Jam.

Balzò fuori della cassa e si pose in ascolto. Sì, si picchiava laggiù, verso la poppa della nave.

Jam lanciò un grido, senza pensare che qualcuno dell'equipaggio avrebbe potuto udirlo.

– Joe! Joe!

Una voce lontana e soffocata rispose poco dopo ed i colpi cessarono.

– Ha bisogno di aiuto, – disse Jam; – checché debba succedere andiamo a cercarlo.

Si caricò dei viveri – precauzione saggia, essendo assai improbabile che con quell'oscurità avesse potuto ritrovare la cassa – e si avanzò a tastoni, passando sopra quella immensa distesa di feretri.

I colpi, dopo un breve silenzio, erano tornati a farsi riudire e guidavano l'irlandese, il quale continuava a salire e scendere, cadendo di quando in quando nei vani lasciati fra una cassa e l'altra.

Era così giunto sul margine di quella enorme catasta di morti. I colpi risuonavano più sotto, sempre più violenti.

– Joe! Joe! – gridò Jam.

– Siete voi? – chiese una voce rauca.

– Sì, amico. Abbiate pazienza, lasciatemi scendere e verrò in vostro soccorso.

– Soffoco! Vi devono essere parecchie casse sopra la mia.

– Le rimuoverò.

Jam cominciò a scendere con precauzione per non correre il pericolo di rompersi il collo, non riuscendo a scorgere il fondo della stiva e poté finalmente giungere là, dove si trovava sepolto il suo sfortunato compatriota.

I marinai, per una fortuita combinazione, avevano collocato la cassa di Joe sul margine di quell'immenso strato di feretri. Se l'avessero messa nel mezzo, certo quel povero diavolo non avrebbe potuto più farsi liberare.

Vi erano sopra quattro o cinque feretri, almeno tanti parvero a Jam. Ne rovesciò uno, poi un secondo, finalmente altri ancora e poté liberare Joe.

Il coperchio era stato già svitato dal prigioniero.

– Grazie, amico – disse Joe, alzandosi con grande fatica e stringendo caldamente le mani del suo salvatore. – Senza di voi io non sarei uscito mai più dalla mia prigione e vi sarei morto dentro di fame e di sete. Quante angosce in queste lunghe ore! Vi giuro che non ritenterò mai più una simile prova. E voi?

– Ho potuto liberarmi subito del feretro che mi copriva; ma non era che uno solo, mentre voi ne avevate sopra quattro o cinque.

– Naviga la nave?

– Dobbiamo essere già molto lontani da San Francisco.

– Aspettiamo di essere più al largo ancora, prima di fare la nostra comparsa sulla tolda.

– Ci presenteremo all'equipaggio? – chiese Jam.

– Volete rimanere qui due settimane e forse più, senza respirare una boccata d'aria e senza vedere un raggio di sole?

– Come ci accoglierà il capitano?

– Un po' malamente; ma infine non ci getterà in mare. Ci farà lavorare e noi abbiamo delle buone braccia. Finché però avremo viveri, vi consiglio di starvene qui tranquillo.

– Un'esistenza poco lieta!

– Che durerà qualche settimana, – disse Joe, ridendo, – ma che ci darà il mezzo di sbarcare in Cina.

Ed ecco i due irlandesi tramutati in due Robinson nel regno delle tenebre.

Non se la passavano troppo male però, anche senza luce. Senza veramente no: Joe aveva portato con sé un pacco di candele e la notte si permettevano il lusso di qualche ora di luce.

Facevano regolarmente i loro pasti, con prosciutto e carne conservata, fumavano qualche pipata di buon tabacco americano e dormivano più del bisogno in un angolo della stiva, fra un ammasso di vele fuori d'uso.

L'ottavo giorno, però, i viveri erano terminati e la sete cominciava a tormentarli. Era il momento di farsi animo e di affrontare la bufera che non doveva certo passare liscia, essendo i capitani piuttosto rigorosi contro le persone che cercano d'imbarcarsi senza spendere un soldo.

Dopo un po' di esitazione, servendosi dell'ultimo pezzo di candela per guidarsi sotto il boccaporto, si misero entrambi a picchiare con tutte le loro forze, a pugni ed a calci.

Nessuno dapprima rispose; certo il fragore delle macchine copriva il loro baccano.

Dopo però cinque buoni minuti e quando già cominciavano a disperare, udirono un fragore di ferramenta e finalmente un'onda di luce li accecò.

Degli uomini erano comparsi sull'orlo del boccaporto, mandando grida di stupore.

Delle braccia robuste li afferrarono e li trassero in coperta, scuotendoli brutalmente.

– Chi siete? – chiedevano tutti.

– Due disgraziati – rispose Joe. – Conduceteci dal capitano.

– Dal capitano! Siete due furfanti che volevate viaggiare gratis. Ah! Non la passerete liscia! Ragazzi, impadronitevi di questi bricconi e strigliateli per bene!

Era il mastro dell'equipaggio che aveva dato quell'ordine.

Già i marinai trascinavano per la tolda quei due disgraziati per legarli all'albero maestro e preparavano delle corde a nodi, quando una voce imperiosa gridò:

– Che cosa fate?

Un uomo dalla lunga barba, che portava un berretto gallonato, era comparso improvvisamente in coperta.

– Chi sono quei due giovani? – chiese, mentre i marinai gli facevano largo.

– Due pezzenti, capitano, che si erano imbarcati di nascosto per viaggiare gratuitamente – rispose il mastro.

Il capitano guardò attentamente Joe e Jam, facendo la cera burbera, poi disse:

– Conduceteli nella mia cabina.

Quando fu solo coi due irlandesi li interrogò sui motivi che li avevano costretti ad imbarcarsi clandestinamente.

Quando li ebbe ascoltati, la sua faccia non era più burbera.

– Ringraziate d'aver trovato in me un compatriota e anche un uomo di cuore – disse finalmente. – Vi lascio compire il vostro viaggio e, in cambio, lavorerete come meglio potrete. Andate dal cuoco di bordo e ristoratevi.

Undici giorni dopo Joe e Jam Paddy, sbarcavano felicemente a Canton, portando con loro un piccolo gruzzolo di denaro, frutto d'una colletta fatta fra i marinai, i quali avevano potuto apprezzare, anche in quei pochi giorni, le buone qualità dei due giovani.

Quando Paddy giunse nella casa che ospitava il vecchio genitore, ebbe una lieta sorpresa.

Il vecchio aveva superato la grave malattia ed era già entrato in convalescenza.

Joe e Jam ora sono soci e fanno ottimi affari, trafficando in thè. Il vecchio Paddy fuma tutto il giorno la sua pipa, sorvegliando i garzoni dei due soci e per ora non ha certo l'idea di andarsene all'altro mondo.