I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/L'aquila bianca
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L'AQUILA BIANCA
L'Aquila Bianca discendeva da una schiatta di eroi.
Suo nonno, l'Aquila Rossa aveva combattuto contro gl'inglesi all'epoca della loro invasione nel Canadà; suo padre, l'Aquila Nera, si era creato fama d'intrepido guerriero respingendo vittoriosamente i coloni dalla pelle bianca che avevano replicatamente cercato di scacciare dalle loro foreste le tribù degli irochesi; il figlio per non essere da meno dell'avo e del genitore, alla testa degli ultimi avanzi della tribù aveva combattuto fieramente contro i primi, i secondi ed i terzi per conservare l'indipendenza del suo territorio.
L'Aquila Bianca non aveva ancora compiuto i trent'anni, eppure tutti celebravano il suo valore.
I vecchi dai capelli bianchi e dal volto rugoso, avevano cantato le sue lodi nelle foreste, sui monti, sui laghi del Canadà; le più belle fanciulle delle tribù avevano sentito battere forte il cuore solamente udendo il nome del valente guerriero.
Bello come un dio della guerra, forte come un orso delle Montagne Rocciose, agile come un cervo, valoroso come Marte, l'Aquila Bianca non poteva aver rivali.
La sua lancia metteva paura; la sua scure sgominava i nemici, senza che egli avesse bisogno di adoperarla; la sua sola presenza bastava insomma per mettere in rotta gli avversari più audaci.
Egli abitava sulle rive d'uno dei tanti laghi del Canadà; sul margine d'un bosco formato da superbi pini neri ed aveva radunato presso di sé gli ultimi avanzi della tribù, una volta numerosa e potente ed oggi ridotta a poche dozzine di famiglie.
Se gli irochesi erano pochi, con l'Aquila Bianca sapevano ancora far tremare tutti, perché valorosi.
Più volte le vicine tribù degli algonchini, ben più numerose, sobillate dagl'inglesi, avevano tentato di spazzare via quel pugno di prodi ed avevano riportato invece delle batoste sanguinose.
Da ciò un odio terribile contro il valoroso capo degli irochesi, la cui tenda era adorna di molte capigliature strappate ai vinti nemici.
L'Aquila Bianca non lo ignorava, ma che gl'importava?
– Se i miei nemici anelano la mia capigliatura – aveva detto con fierezza, – vengano a prendersela.
Numerosi tradimenti gli erano stati tesi e tutti senza esito. Il valente guerriero aveva saputo non solo evitarli, ma anche era più volte tornato al suo villaggio con altre capigliature.
Sentiva però, per istinto, che i suoi nemici tramavano sempre e si teneva in guardia. Non ignorava che sarebbero stati lieti di poterlo attaccare al palo della tortura, per fargli provare i più atroci tormenti e mettere alla prova il suo coraggio da leone.
Da più di sei mesi la pace regnava nel villaggio del capo irochese.
I suoi avversari, convinti di non poterla spuntare, si erano ritirati lontani dal lago, dopo d'aver fatto proposte di pace e pareva che avessero rinunciato ai loro propositi di vendetta.
Chi non ne era persuaso era l'Aquila Bianca e perciò non aveva rinunciato alla sua vigilanza. Temeva specialmente una sorpresa da parte di un capo chiamato l'Orso Nero, guerriero di forza straordinaria e di valore non comune il quale aveva uccisi in combattimenti numerosi avversari che godevano fama di valenti.
Aveva anzi saputo che quel capo, in presenza di tutta la tribù, aveva solennemente giurato di catturarlo prima che fossero trascorsi sei mesi e di vendicare terribilmente i guerrieri caduti sotto la tremenda scure dell'Aquila.
Però fino allora il capo algonchino non si era più fatto vedere ed il suo giuramento era stato preso per una smargiassata.
Non mancavano che pochi giorni all'epoca fissata dall'Orso Nero, quando un mattino ecco comparire nel villaggio degli irochesi una donna indiana colle vesti lacerate ed il cavallo ferito da due colpi di lancia.
Era una bella donna di venticinque anni, dai lunghi capelli neri, gli occhi vivissimi ed i tratti del viso regolari: un tipo quasi di europea, salvo il colore della pelle, che era leggermente rossigno.
– Conducetemi dal vostro capo – disse agl'indiani che l'avevano fermata all'entrata del campo. – L'Aquila Bianca mi renderà giustizia.
Pochi momenti dopo quella sconosciuta veniva fatta entrare nella tenda del capo.
– Cosa desideri? – le chiese l'Aquila Bianca, vedendola entrare.
– Giustizia e vendetta, gran capo – rispose la donna fissando su di lui uno sguardo affascinante. – Tu sei il guerriero più ardito e più cavalleresco del Canadà, e non rimarrai sordo alle preghiere d'una povera donna.
– Parla – disse l'Aquila. – Tu sai che io sono il protettore dei deboli e delle donne.
– Io sono una povera vedova e abitavo sulle rive dell'Atabasca assieme ai miei quattro figli. Mio marito è morto in battaglia, lasciandomi due cavalli, una tenda ed un po' di terra. Questa mattina gli algonchini mi hanno assalito senza alcuna provocazione, mi hanno ucciso i figli, mi hanno devastato il campo e portato via la tenda. Ho avuto appena il tempo di fuggire su uno dei miei cavalli, ferito da due colpi di lancia. Aquila Bianca, vendica i miei figli.
– Quanti erano gli assalitori? – chiese l'indiano, mentre un lampo terribile gli balenava negli occhi.
– Dieci – rispose la donna senza esitare.
– Sai quale via hanno preso?
– Quella che conduce allo stagno dei pioppi neri.
– Guidami, e tu sarai vendicata.
Fece insellare il suo cavallo di battaglia, prese le sue armi, chiamò cinque guerrieri, scelti fra i più valenti, sdegnando prenderne seco di più e lasciò il campo preceduto dalla donna.
– Mi guiderai prima alla tua dimora – disse. – Se tu avrai detta la verità, ti regalerò le capigliature degli assassini dei tuoi figli; se avrai mentito, ti farò legare al palo della tortura e morrai fra i più atroci tormenti.
– Seguimi – rispose semplicemente la donna.
Partirono al galoppo dirigendosi verso l'Atabasca, un fiumicello che si scaricava sul lago, a circa dieci chilometri dal campo degli irochesi.
Un'ora dopo i sei guerrieri e la donna giungevano in mezzo ad un bosco di ontani e di cespugli molto folti, i quali potevano servire benissimo per una imboscata.
La donna, dopo una breve esitazione, guidò la truppa verso il fiume e mostrò al capo una tenda atterrata ed un campicello devastato.
Sull'umido terreno si vedevano le tracce di numerosi cavalli ed alcune frecce scagliate certamente dagli assalitori.
Il capo era disceso da cavallo, per meglio osservare le tracce degli algonchini e la donna s'era allontanata un po' come se cercasse qualche cosa.
D'improvviso urla terribili scoppiano da tutte le parti e una banda d'indiani si precipita, colle scuri in mano, addosso ai guerrieri dell'Aquila Bianca.
– Tradimento! – aveva gridato il capo.
La donna era scomparsa sotto il bosco ed in sua vece era comparso l'Orso Nero.
La lotta fu breve e terribile. I cinque guerrieri irochesi erano caduti al suolo colla testa fracassata a colpi di scure ed erano stati subito privati delle loro capigliature.
L'Aquila Bianca però non s'era lasciato sopraffare. Appoggiatosi al tronco d'un albero, aveva continuato a difendersi con vigore sovrumano.
Ad ogni colpo di scure che vibrava, un nemico cadeva per non più rialzarsi, mentre collo scudo di pelle di bisonte si difendeva dalle lance che gli scagliavano gli uomini dell'Orso Nero.
Non poteva però resistere indefinitamente. Le forze a poco a poco gli venivano meno e lo scudo non lo riparava più.
– Arrenditi! – gli gridò l'Orso Nero.
– Tu mi ucciderai egualmente – rispose l'Aquila. – Morire qui od al palo della tortura è tutt'uno. Quindi non mi avrete che morto.
– Allora tu confessi di non poter sopportare i tormenti del palo! – disse l'Orso. – Ti credevo valoroso mentre sei più vile d'una femmina.
– L'Aquila non teme le vostre torture – disse il capo con fierezza. – Eccone la prova!...
E scagliati lungi da sé la scure ed il coltello che portava, porse le mani, dicendo:
– Legatemi!
Non aveva ancora terminato la frase che le sue braccia erano strette fra cinghie di cuoio.
– Tu sei un vile – disse all'Orso. – Un prode guerriero non avrebbe mai ricorso ad una donna per ordire un tradimento. Io ti disprezzo!...
– La donna che ti ha condotto qui è mia moglie – rispose l'Orso. – Ella ti odiava al pari di me e mi ha aiutato spontaneamente nella vendetta.
– Ebbene, che si vendichi!...
L'Aquila Bianca fu messo su di un cavallo e la truppa si mise in marcia, facendo ondeggiare sulla cima delle lance le capigliature sanguinanti dei cinque guerrieri irochesi.
Il capo s'era rinchiuso in un feroce silenzio. Solamente nei suoi occhi balenavano lampi terribili, ogni volta che s'incontravano con quelli della donna che l'aveva tradito.
Quando giunsero al villaggio degli algonchini, situato in mezzo ad una folta foresta, tutta la popolazione si era riversata fuori dalle tende. Uomini e donne imprecavano contro l'Aquila, mostrandogli le pugna, minacciandolo coi coltelli, colle lance e colle scuri e cercando di strapparlo dalle mani dei guerrieri.
– Tu mi hai ucciso il figlio! – gridavano le une.
– Tu mi hai spento il marito! – urlavano le altre.
– Al palo l'Aquila Bianca!
Il capo irochese non si degnava nemmeno di rispondere; tutta la sua attenzione era sempre concentrata sulla donna che lo aveva tradito, la quale, dal canto suo, non staccava un solo istante gli sguardi da lui.
Non erano però sguardi d'odio, tutt'altro. Si sarebbe detto che era pentita d'aver dato quel coraggioso guerriero nelle mani dei suoi nemici.
L'Orso Nero condusse il prigioniero in una tenda, gli sciolse i legami e gli disse:
– Mio fratello può mangiare e dormire a suo beneplacito, perché il giorno del supplizio è ancora lontano. Noi ti legheremo al palo dopo la festa dei serpenti.
L'Aquila Bianca non lo degnò nemmeno d'uno sguardo. Mangiò con appetito un pezzo di tacchino selvatico che gli era stato offerto, poi si sdraiò su di una soffice pelle di bisonte e chiuse gli occhi.
La notte era scesa e tutti nel campo indiano si erano addormentati. Però dinanzi alla tenda, presso un fuoco gigantesco, erano stati collocati sei guerrieri coll'incarico di vegliare sul prigioniero.
L'Aquila Bianca non dormiva. Più volte si era levato strisciando verso l'entrata della tenda, colla speranza forse di trovare le sentinelle addormentate e di fuggire.
Mezzanotte doveva essere trascorsa, quando dietro la tenda udì un leggero rumore.
Un momento dopo un lembo si alzava ed una forma umana, avvolta in un ampio scialle di pelle di montone, scivolava silenziosamente nell'interno, arrestandosi dinanzi al capo.
– Chi sei? – chiese l'Aquila, con stupore.
– Io sono la donna che ti ha tradito, la donna dell'Orso Nero.
– Sei venuta a godere della mia agonia? – chiese il capo con voce ironica. – Se sei venuta per questo, t'inganni perché io non ho paura della morte e sono pronto a sfidarla.
– Non sono venuta per questo – rispose la donna. – Anzi vengo ad offrirti la libertà.
L'Aquila Bianca era rimasto muto, guardandola con profondo disprezzo.
– Tu sei bello, tu sei forte, tu sei valoroso e sono qui venuta per farti fuggire; ma ad una condizione.
– A quale?
– Che tu mi conduca con te nella tua tribù.
– Dopo d'aver tradito me, vorresti tradire anche l'Orso Nero? – chiese l'irochese, con disprezzo. – No, vattene; io non accetterò mai la libertà a tale prezzo.
– Allora ti farò morire fra i più orribili tormenti.
– Non ho paura: te lo dissi già.
– Ti pentirai, Aquila Bianca.
Il capo, invece di rispondere, le volse le spalle e finse di riaddormentarsi.
– Ti pentirai – gli ripeté la donna, uscendo dalla tenda.
Erano passati parecchi giorni.
L'Orso Nero andava di frequente a trovare il prigioniero, portandogli da fumare, delle leccornie, dei pezzi squisiti di tacchino, di alce e di caribou e dimostrandogli la massima deferenza.
Lo trattava come un ospite e non come un prigioniero condannato alla morte più atroce, pure l'Aquila Bianca non si illudeva per quelle dimostrazioni d'amicizia.
Sapeva che il giorno del supplizio l'Orso Nero si sarebbe tramutato in una tigre assetata di sangue.
Non mancavano che tre settimane alla festa dei serpenti, quando un giorno l'Aquila vide entrare il capo nemico in compagnia d'una giovane indiana di straordinaria bellezza.
Era una fanciulla di quindici anni, dalla taglia flessuosa, i capelli lunghissimi e neri come l'ala d'un corvo, i denti piccoli come granelli di riso e d'una bianchezza abbagliante.
Indossava uno splendido mantello formato da pelli di volpi bianche, aveva alte uose ricamate, e agli orecchi portava grossi anelli d'oro.
– Mia figlia, il Girasole della prateria, desidera vedere il famoso capo degli irochesi – disse l'Orso Nero. – Mio fratello permette che si sieda nella sua tenda?
– L'Aquila Bianca apprezza la gentilezza di suo fratello l'Orso Nero – rispose il capo irochese. – Ho piacere di vedere tua figlia della quale ne avevo udito a parlare più volte e vantare i pregi. Vedo che non avevano mentito coloro che me ne avevano parlato e se mi dispiace una cosa è quella d'averla veduta troppo tardi.
La giovane indiana aveva abbassati gli occhi udendo il valoroso capo parlare in tale guisa, poi gli aveva rialzati lanciandogli un lungo sguardo di riconoscenza.
L'Aquila Bianca aveva però cambiato subito discorso parlando delle incessanti invasioni degli uomini bianchi, di cacce, di combattimenti.
Tuttavia di tratto in tratto non sapeva resistere dal mirare il bel Girasole della prateria e reprimeva a stento un sospiro.
Forse rimpiangeva la triste sorte che lo aspettava.
Da quel giorno il Girasole della prateria non aveva mancato di accompagnare il padre nelle visite che faceva al prigioniero.
Quando l'Orso Nero era impedito da qualche urgente affare o da qualche scorreria contro i bisonti, ronzava attorno alla tenda, cercando sempre un pretesto per entrarvi.
Se l'Aquila Bianca si affacciava, era certo di vederla seduta a breve distanza, intenta a tessere uno di quei meravigliosi mantelli di pelo di montone che richiedono due anni di lavoro prima di essere ultimati.
Il prode guerriero aveva compreso che il Girasole lo amava e s'era pure accorto di riamare la bella indiana.
Si guardava però bene dal manifestarlo, per paura della donna che lo aveva tradito e che poteva tradirlo nuovamente coll'indurre il capo ad affrettare il giorno del supplizio.
Dopo quella notte non l'aveva più riveduta, però sentiva per istinto che la perfida vegliava su di lui e diffidava.
Finalmente il giorno giunse.
Tutta la popolazione del villaggio si era preparata per la gran festa che doveva terminare colla morte del valoroso guerriero.
I più valenti campioni avevano già manipolati i colori per la danza del serpente, dipingendosi le braccia e le gambe a righe nere e gialle, perché rassomigliassero ai rettili delle foreste.
L'Orso Nero s'era dipinto in giallo e si era appeso al petto una collana composta di pelli di serpenti a sonagli, e lo stregone della tribù, personaggio importantissimo, si era vestito da castoro. Questi doveva rappresentare la selvaggina inseguita dai crotali velenosi.
L'Aquila, dopo un'abbondante colazione, era stato condotto in mezzo all'accampamento, dove si rizzava un palo destinato a tenerlo legato durante la tortura.
Dinanzi era stato acceso un fuoco gigantesco per arrossare le lame ed i ferri che dovevano servire a tormentarlo.
Appena uscito dalla tenda, i suoi sguardi si erano incontrati con quelli della donna che lo aveva tradito, ma era stato uno sguardo pregno d'odio.
– Non lo risparmiare – aveva sussurrato la donna all'Orso Nero. – Egli ha ucciso molti dei tuoi guerrieri e sono stata io a dartelo in mano.
– La morte lo attende – aveva risposto il capo.
– Cerca di prolungargli la vita per farlo soffrire maggiormente.
– Non morrà prima del tramonto.
– Ti farai onore presso tutte le tribù – insinuò la perfida donna.
– Lo so.
La festa era cominciata. L'Aquila Bianca, dal suo posto, aveva cercato invano, fra la folla che lo circondava, il grazioso volto del Girasole della prateria.
Si era nascosta per non vedere il suo martirio, o s'era schierata fra le file dei suoi nemici per non salvarlo in quel supremo momento?
L'assenza della gentile fanciulla, aveva rattristato profondamente lo sventurato indiano. Se avesse potuto vedere ancora quegli occhi dolci e profondi, la morte gli sarebbe parsa più dolce.
– Tutti mi abbandonano – disse. – Non mi resta che di mostrare a questi nemici come sa morire un capo irochese.
Si lasciò legare al palo fatale fingendosi d'interessarsi della danza dei suoi avversari.
Intorno a lui le donne, i vecchi ed i fanciulli avevano formato un ampio semicerchio e nel mezzo erano entrati dodici dei più famosi guerrieri dipinti da serpenti, guidati dall'Orso Nero. Due suonatori muniti di tamburi, avevano cominciato a battere, cavando dei suoni sordi e monotoni che a poco a poco si acceleravano.
I tredici serpenti si misero ben presto a piroettare attorno al palo, agitando forsennatamente le scuri che tenevano in mano.
Ora si scagliavano contro il prigioniero mandando urla spaventevoli e facendo roteare le scintillanti armi attorno alla sua testa, ed ora indietreggiavano vivamente, spiccando salti da invidiare gli agili montoni delle montagne.
Ora invece si mettevano a corrergli intorno assordandolo e lanciandogli contro vituperi.
– Noi mangeremo il cuore del capo degli irochesi – urlavano. – La sua capigliatura ornerà la tenda della medicina e delle sue tibie noi faremo dei pifferi di guerra. L'Aquila Bianca tremi! La morte lo sfiora!
Il valente guerriero non si degnava nemmeno di guardarli; aveva invece intuonato il suo canto di guerra.
– Io sono l'Aquila Bianca, figlio dell'Aquila Nera e pronipote dell'Aquila Rossa. Il mio cuore non ha mai tremato e la mia lancia ha sempre colpito ed il mio coltello ha strappato a centinaia le capigliature dei nemici.
«Io ero un fulmine in guerra e nessuno mi ha mai vinto! Vengano i guerrieri degli algonchini ed io gli sterminerò ancora.
«Io ho veduto impallidire gli uomini dell'Orso Nero, quelli della Freccia Volante e dell'Antilope Rosso e loro non mi hanno mai veduto impallidire.
«Datemi la mia lancia, la mia scure ed il mio scudo ed io li metterò in rotta e strapperò a loro altre capigliature per ornare il mio cavallo di battaglia e la mia tenda.»
I guerrieri algonchini, udendo quelle parole fiere, raddoppiavano il loro furore e tornavano più minacciosi alla carica, agitando forsennatamente le scuri.
Anche le donne, i vecchi ed i fanciulli parevano impotenti a frenarsi, ma l'Aquila Bianca continuava impassibile:
– La mia anima è forte al pari di quella del feroce orso grigio delle Montagne Rocciose e non tremerò quando il fuoco mi morderà le carni od il ferro mi spaccherà il cuore.
«Vili, credete voi che l'Aquila Bianca abbia paura? No, v'ingannate! Provate le vostre armi, provate le vostre unghie, i vostri denti, il fuoco dei vostri focolari; io vi attendo col sorriso sulle labbra.
«Strappatemi pure la capigliatura: io mi presenterò al Grande Spirito con quelle che io presi ai vostri guerrieri caduti sotto la mia possente scure e andrò egualmente a cacciare i bisonti nelle praterie celesti.»
Mentre il capo irochese continuava a cantare la guerresca canzone, era entrato lo stregone della tribù dipinto da castoro.
Dopo di aver cercato di fugare i serpenti, si era avvicinato all'Aquila Bianca tenendo in mano una penna tinta di un miscuglio di terra rossa e gialla e gli aveva tracciato sul nudo petto due circoli.
– Le frecce degli algonchini si pianteranno qui – gli aveva detto.
– Quando le punte si pianteranno sul mio petto, la mia carne non proverà alcun sussulto – aveva risposto fieramente il capo irochese.
Lo stregone gli tracciò attorno alla testa una linea, dicendo:
– Il coltello che ti strapperà la capigliatura inciderà la tua pelle in questo luogo.
– Ed io guarderò serenamente colui che dovrà privarmi della capigliatura e gli sputerò in viso – rispose l'Aquila.
Si era fatto un profondo silenzio. Le donne, i vecchi, i guerrieri, i fanciulli e anche i suonatori tacevano.
L'Orso Nero si era messo davanti all'Aquila Bianca tenendo in mano un arco ed un fascio di frecce.
– Preparati a morire – disse.
– Sono pronto a comparire dinanzi al Grande Spirito – rispose l'Aquila Bianca, guardandolo fieramente. – Le capigliature che io ho strappato ai tuoi guerrieri volano già pel cielo.
– Io avrò la tua.
– Prendetela.
L'Orso Nero aveva fatto alcuni passi indietro incoccando la freccia e si preparava a scagliarla sul petto dell'Aquila, quando tutto ad un tratto una fanciulla, apertosi impetuosamente il passo fra la folla, si precipitò verso il palo, abbracciando il prigioniero.
Un grido di stupore era fuggito per tutte le labbra:
– Il Girasole della prateria!...
Quella fanciulla era la figlia del capo, la figlia dell'Orso Nero.
Questi era rimasto talmente sorpreso, da lasciarsi sfuggire di mano l'arco e la freccia.
– Cosa vuole mia figlia? – gridò finalmente, strappandosi dalla cintura la scure e alzandola minacciosamente.
– Salvare il più valente guerriero degli uomini rossi che io amo – rispose la fanciulla, facendo scudo all'Aquila col proprio corpo.
– Levati che io lo uccida!
– Ebbene, padre, ucciderai anche me assieme a lui.
Una voce aveva sussurrato agli orecchi del capo:
– Uccidi entrambi!
Quelle parole erano state pronunciate dalla perfida donna che aveva tradito l'Aquila.
L'Orso Nero era rimasto titubante. Amava troppo il Girasole della prateria per sacrificarla ed aveva avuto agio d'ammirare il valore e la nobiltà d'animo dell'Aquila.
Ad un tratto gettò la scure lungi da sé e volgendosi verso la tribù disse:
– Devo ucciderli?
– Grazia per loro! – gridarono tutti.
L'Orso Nero s'accostò al palo, tagliò le corde che legavano l'Aquila e gli tese la mano, dicendo:
– Troppo sangue è scorso fra gli uomini rossi per versarne ancora mentre avrebbero dovuto vivere come fratelli e riunirsi contro il comune nemico: l'uomo bianco. Noi sotterreremo l'ascia di guerra e le nostre tribù vivranno in pace. Aquila Bianca, tu sei libero e ti concedo la mano di mia figlia per meglio cementare le nostre alleanze. Accetti?
– L'Orso Nero è generoso – rispose il capo degli irochesi. – Accetto tua figlia che io amo e l'alleanza che tu mi offri, però ad una condizione.
– Parla.
– Chi è la donna che dopo d'aver tradito me, ha cercato pure di tradire te, offrendomi la libertà purché fuggissi assieme a lei?
– La mia seconda moglie.
– Cacciala dal campo.
– Farò di meglio – rispose l'indiano con un terribile sorriso. – Era il mio cattivo genio.
Il giorno istesso l'Aquila Bianca ed il gentile Girasole si univano in matrimonio, l'azza di guerra veniva sepolta sotto un acero come patto d'alleanza fra le due tribù, e la perfida donna veniva scacciata dall'accampamento coll'ordine di non più rientrarvi sotto pena di perdere la capigliatura.