I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Il piccolo esploratore

Il piccolo esploratore

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Fra gl'indiani L'aquila bianca

IL PICCOLO ESPLORATORE


John Berley era nato e stato allevato in un piccolo villaggio situato presso le frontiere dell'Arkansas, uno dei più vasti, ma anche dei meno popolati degli Stati Uniti d'America e confinante coi territorii occupati dalle pellirosse, ossia dai ferocissimi indiani color del rame.

Essendo cresciuto a così breve distanza dalle immense praterie percorse dai bellicosi indiani e dai cacciatori, aveva udito parlare di strane avventure toccate ai suoi concittadini, d'inseguimenti da parte dei cavalieri rossi, di cacce ai giganteschi bisonti, ai cavalli selvaggi, ai daini rossi; sicché la sua piccola testa non sognava altro che di provare quelle emozioni.

– Appena saprò maneggiare il fucile, andrò anch'io nella prateria – diceva alla sua mamma. – Vedrai quante straordinarie avventure proverò e quali esplorazioni farò io.

– Bada John, che vi sono gl'indiani – rispondeva sua madre. – Ti strapperanno i capelli e poi accenderanno il fuoco sul tuo petto.

– Io li metterò in fuga – rispondeva l'ometto. – Voglio diventare un esploratore famoso ed un cacciatore celebre.

Nessuno però credeva alle sue parole, anzi sua madre ed i suoi amici finivano per burlarsi dell'ometto.

John non parlava per celia. Era cocciuto nelle sue idee e non aspettava che il momento opportuno per correre nella prateria.

Sulle frontiere dell'Arkansas s'impara presto a sparare il fucile. Essendo quei villaggi continuamente minacciati dagl'indiani, uomini e donne s'addestrano tutti alle armi, per respingere quegli assalti.

A dodici anni il nostro John sapeva far fuoco e qualche volta non sbagliava il bersaglio.

Era il momento atteso dal nostro ometto per mettere in esecuzione il suo progetto.

Un giorno che i genitori lo avevano lasciato solo, avendo dovuto recarsi ad un villaggio vicino per fare delle compere, il minuscolo esploratore si arma del fucile, s'appende un coltello da caccia alla cintola, si mette in tasca una pagnotta ed un pezzo di cacio e lascia l'abitazione.

Gli uomini e le donne del villaggio, vedendolo passare così armato e con un'aria da conquistatore, lo interrogano ironicamente:

– Vai alla caccia dei bisonti, John?

– Bada che i bisonti hanno le corna.

– No, va a uccidere gl'indiani!

– Mai più, va a farsi mangiare dai giaguari.

– Buona fortuna, John! Diremo a tua madre che ti prepari una medicina per questa sera. Tornerai mezzo morto dalla paura.

E giù risate sulle spalle del piccolo esploratore. Non occorre dire che nessuno credeva che quella testolina matta facesse davvero.

– Mostrerò a loro se io ho paura – aveva mormorato l'ometto. – Questa sera, invece di andarmene a letto, dormirò a ciel sereno, in mezzo alle erbe della prateria.

E avanti, di buon passo, senza rispondere ai sarcasmi dei suoi compaesani, i quali credevano che il suo gran viaggio si limitasse ad una passeggiata intorno al villaggio o nella foresta vicina.

Un'ora dopo, il piccolo John, senza nemmeno pensare al dolore che avrebbe dato ai suoi genitori, varcava la frontiera e s'inoltrava arditamente nell'immensa prateria.

Non aveva paura – almeno fino a che non li vedeva – né degl'indiani, né delle fiere. Si credeva ormai un vero uomo, anzi un cacciatore di prateria ed un esploratore ormai destinato a diventare celebre.

– Scoprirò le sorgenti dell'Arkansas – diceva fra sé. – Poi andrò a scoprire quelle del Missouri.

A mezzodì fece una fermata fra una macchia di sommachi, mangiando mezza pagnotta ed un pezzo di cacio, poi si rimise in cammino, dirigendosi verso alcune colline boscose che si delineavano in direzione dell'Arkansas.

Quando vi giunse, cominciava ad annottare. I cani di prateria, piccole bestie inoffensive che vivono entro tane al par delle talpe, facevano udire le loro grida lamentevoli, mentre in lontananza ululavano le coyotes, specie di piccoli lupi molto paurosi.

Il piccolo esploratore, vedendo abbassarsi il sole e calare le tenebre, e udendo quelle urla, cominciò a dubitare seriamente del proprio coraggio e a pentirsi amaramente di essersi allontanato dal villaggio.

Quanto avrebbe dato per trovarsi nella tiepida cucina della sua casa, fra il babbo e la mamma, dinanzi ad una fumante zuppa di cipolle! Tuttavia si fece animo e si preparò un tettuccio per passare la notte.

– Domani, se mi mancherà la lena di proseguire, ritornerò a casa – disse. – Dirò a tutti che mi sono smarrito mentre inseguivo un tacchino selvatico.

Tagliò un bel fascio d'erbe e lo portò sotto un gruppo di querce nere; poi divorò il pezzo di pagnotta che aveva serbato per la cena ed il formaggio.

– E domani? – si domandò quand'ebbe mangiata l'ultima briciola. – Cosa metterò in bocca? Non pensiamoci: un esploratore deve sapersi trarre sempre d'impiccio.

Si sdraiò sulle erbe e cercò di dormire. Il cielo era splendidamente stellato, la temperatura non troppo rigida ed un silenzio profondo regnava fra i boschetti che coprivano le colline.

Il sussurrìo delle fronde invitava a dormire; eppure il piccolo esploratore non era capace di chiudere gli occhi. Un pensiero insistente lo tormentava: il suo soffice letto.

Si voltava, si rivoltava e poi si alzava a sedere, guardando con angoscia l'ombra cupa che proiettavano le querce.

– Ma sotto quelle ombre si nasconde qualche animale? M'hanno detto che nella prateria vi sono degli orsi neri – pensava. – Cosa farei se mi vedessi dinanzi uno di quei bestioni? Come è dura la vita degli esploratori! Stupido che sono, lasciare il mio letto per la prateria!... Dare chissà quali dolori alla mamma e al babbo!... Domani me ne torno più che presto a casa e lascio le sorgenti dell'Arkansas agli altri. Si riderà, mi burleranno, giusto castigo alla mia sciocca presunzione.

Si ricoricò, cercando di chiudere gli occhi e ripetendosi che nessun pericolo lo minacciava, che d'altronde aveva il fucile per difendersi, ma poco dopo le paure cominciarono a riprenderlo. Quelle tenebre potevano nascondere degli animali feroci e fors'anche quei terribili indiani che mai risparmiano i prigionieri dalla pelle bianca.

Gli tornavano alla memoria le tremende istorie narrategli dai cacciatori di prateria, gl'incontri coi giganteschi orsi, coi giaguari, coi colossali bisonti, coi lupi grigi e rabbrividiva ad ogni stormire di fronde.

– Povero me – balbettava mentre gli occhi gli si empivano di lagrime. – Qualche bestia verrà certamente a mangiarmi.

D'improvviso in lontananza udì un urlo acuto. Veniva dalla parte della collina, alla cui base egli si era coricato.

Era l'urlo di un lupo o di un orso? Il povero John non lo sapeva. Era però più che certo che non l'aveva mandato né una pecora, né una capra, né un maiale.

Successe un breve silenzio; poi da un'altra parte udì un secondo urlo a cui rispose nuovamente il primo.

Le due belve si chiamavano forse per assalire insieme il piccolo esploratore.

– Sono morto – pensò John, battendo i denti. – Povera mamma e povero babbo, che punizione per me!

Siccome però in fondo, quantunque fosse giovanissimo, un certo coraggio lo possedeva, invece di attendere la morte nel suo letto di foglie, s'alzò risolutamente col fucile in mano, deciso a difendere la propria pelle.

– Se mi arrampicassi su di un albero? – si chiese. – Mi troverei al sicuro dagli assalti di quelle bestie. Mi sembrano due lupi dalle loro urla e so che questi animali non sanno arrampicarsi.

Cercò la quercia più alta e aggrappandosi ai rami si mise a scalarla, manovra che non gli era nuova, avendola fatta centomila volte nel giardino di suo padre.

Quando si trovò a cavalcioni d'uno dei più grossi rami, il coraggio gli ritornò come per incanto.

– Ecco come fanno gli esploratori quando si vedono assaliti dalle fiere – disse. – Ed io, sciocco, non l'avevo pensato prima! Ora non temo più nessuno, e se i lupi vengono, li riceverò a colpi di fucile. Ah! Se potessi ritornare al villaggio con una bella pelle! Non riderebbero più alle mie spalle.

Le due belve si avvicinavano a poco a poco. Le loro urla diventavano sempre più distinte.

Di certo avevano fiutata la preda e s'avanzavano per dividersela fraternamente.

John, udendoli avvicinarsi, perdeva la sua baldanza. Temeva di non trovarsi al sicuro nemmeno sull'albero.

– E se fossero lupi arrampicanti? – si chiedeva con ansia crescente. – Io non ho mai udito a parlare di lupi che salgano come i gatti; ma se ve ne fossero? E si avvicinano sempre! L'hanno proprio con me!

Grosse gocce di sudore spuntavano sulla fronte del poveretto, ed i suoi denti battevano l'un l'altro.

Non aveva nemmeno più fiducia in quel fucile, con cui si era promesso di fare un massacro di belve, di bisonti e anche d'indiani.

– Povero me – sospirava. – Mi mangeranno e non lasceranno che le mie ossa.

Ad un tratto vede i due animali uscire da un cespuglio e avanzarsi al galoppo verso l'albero. Erano due lupi grigi, i più grandi e anche i più feroci della famiglia. Avevano il pelame irto ed i loro occhi brillavano come due carboni accesi.

Giunti presso l'albero, si misero a girarvi intorno, ululando sinistramente e mostrando i denti. Parevano molto irritati di non aver trovata la preda a terra e di dover tornarsene ai loro covi a ventre vuoto.

John, terrorizzato, non osava fare un solo movimento. Stringeva disperatamente il ramo che lo sorreggeva e pareva che si fosse perfino dimenticato di avere il fucile e di essere capace di servirsene.

Vedendo però che i due lupi erano irrisoluti di giungere fino a lui, a poco a poco riprese animo e pensò che era giunto il momento di tentare qualche bravura.

– Sono un fanciullo pauroso o un esploratore che si prometteva di scoprire le sorgenti dell'Arkansas? – si domandò. – Se i miei compagni mi vedessero, avrebbero ben ragione di ridere. Anche sbagliandoli, questi lupi non mi mangeranno.

Accertato che il fucile era carico, lo appoggiò ad un ramo per mirare meglio; poi fece fuoco.

I due lupi, spaventati dalla detonazione e dalla fiamma, fuggirono precipitosamente ululando.

– Ora mi riconoscono per un vero cacciatore! – esclamò John, con orgoglio.

– Ed io che avevo avuto paura! Cosa sono infine questi lupi? Potevo fugarli senza salire su questo albero.

Non ostante queste smargiassate, John si teneva prudentemente sull'albero, né si sentiva il coraggio di scendere per paura che i due lupi si fossero nascosti fra i cespugli, pronti a corrergli addosso.

La notte finalmente trascorse senza che nessun nuovo avvenimento accadesse.

Quando però il ragazzo scese dall'albero, era così stanco da non poter reggersi in piedi e quindi nella impossibilità di tornare al villaggio.

Si sdraiò sulle erbe e s'addormentò profondamente, sognando scodelle di latte e pagnotte calde a sazietà. Dormiva da un paio d'ore, quando fu svegliato da una voce rauca che diceva:

– Ehi, ragazzo, alzati! Siamo qui noi!

John aprì un pochino gli occhi e vide dinanzi a sé quattro brutti indiani colla pelle color del rame opaco, la testa adorna di piume variopinte ed il corpo avvolto in ampie coperte di lana a svariati disegni.

Uno teneva in mano una scure e gli altri avevano fucili e coltellacci.

Il povero John capì, pur troppo, di aver da fare con quei terribili selvaggi che s'era promesso di sterminare se li avesse incontrati.

Più morto che vivo, finse di non averli veduti e chiuse strettamente gli occhi; ma colui che gli aveva parlato e che pareva fosse il capo, lo prese, senza tante cerimonie, per un braccio, e lo alzò, dicendogli:

– Vediamo un po' il colore della tua pelle, ragazzaccio.

– Sono un povero fanciullo smarrito nella prateria – gemette John.

– Ah! Ah! Tu ti sei smarrito, furfante d'un viso-pallido! – gridò l'indiano. – Tu vuoi ingannarci.

– No, miei buoni amici.

– Non sei forse tu il figlio di Harry Berley?

– Sì, sono io.

– Quello che voleva recarsi nella prateria per combatterci? Così mostri ora il tuo coraggio, ragazzaccio?

– Io non ho mai detto di volervi combattere – disse John piangendo.

– Lo abbiamo saputo – continuò il capo indiano. – Le nostre spie ce l'avevano detto. Amici, legate questo briccone e decidiamo cosa dobbiamo fare di lui.

– Io lo legherei ad un albero, perché serva di bersaglio ai nostri fucili – disse un indiano.

– Io, invece, gli strapperei la capigliatura – disse un secondo.

– No, vestiamolo da donna e poi abbruciamolo. Questo ragazzo è indegno di vestire come gli uomini – disse un terzo. – Non vedete che piange e che trema come una fanciulla?

– Portiamolo al villaggio – disse un quarto. – Servirà da buffone ai nostri fanciulli.

– No – disse il capo. – Andremo a legarlo a quel grosso albero che si trova presso la frontiera; lo lasceremo mangiare vivo dagli avvoltoi. Andate a prendere due cavalli.

Alcuni minuti dopo gl'indiani ritornavano conducendo per le briglie quattro bellissimi animali dalle gambe nervose e la testa piccola, veri trottatori.

Il capo legò John; poi salì in sella e se lo mise dinanzi, dicendogli rapidamente:

– Ti avverto che se ti lagni o cerchi di fuggire, ti uccido con un colpo di scure.

– Vi prometto di essere buono – gemette il ragazzo. – Ma conducetemi a casa.

– A casa! Tu dovresti sapere che noi uccidiamo tutti gli uomini bianchi che cadono nelle nostre mani.

– Sono un povero fanciullo e ho la mamma ed il babbo.

– Non m'importa né dell'una, né dell'altro.

– Mio padre è ricco e saprà ricompensarvi.

– Basta! – gridò il capo. – Ne ho abbastanza delle tue chiacchiere, poltrone.

I quattro cavalli partirono al galoppo dirigendosi verso la frontiera, la quale non era lontana più di una mezza dozzina di chilometri.

Il capo indiano teneva sempre stretto John e lo guardava con occhi torvi; il ragazzo, dal canto suo, non si muoveva, né osava lamentarsi. Ormai si era rassegnato al suo triste destino e sospirava, pensando alla casa che non avrebbe mai più veduta, alla sua povera mamma e al babbo.

Giunti presso la frontiera, l'indiano mostrò al ragazzo un grand'albero, il quale cresceva isolato su di un poggio, dicendogli:

– Ecco l'albero che ti servirà da ultima dimora. Ti legheremo a quei rami e ti lasceremo mangiare vivo dalle aquile e dai falchi.

Ciò detto scese da cavallo, portando con sé il povero John più morto che vivo; si fece dare delle funi e lo legò ad uno dei rami più bassi in maniera però che non avesse a soffrire.

– Ti trovi bene così? – chiese poi l'indiano ridendo.

– Salvatemi... toglietemi da qui! – supplicava il ragazzo. – Conducetemi dalla mia mamma!

– Agli esploratori toccano talvolta simili avventure – rispose l'indiano con accento beffardo.

– Conducetemi dalla mia mamma!

– No, così imparerai a parlare un po' meglio di noi. Ah! Tu volevi uccidere gl'indiani! Ti uccideranno invece i corvi. Buona notte, John Berley; domani verrò a vedere se le aquile ti avranno risparmiato gli occhi.

– Aiuto! Soccorso!

– Addio, John – rispose l'indiano.

Scaricò in aria il fucile che teneva fra le mani e se ne andò ridendo, assieme ai compagni.

Erano appena scomparsi, quando il povero John vide giungere a gran galoppo cinque cavalieri. Venivano dalla parte del villaggio e li guidava un uomo di alta statura che subito riconobbe.

– Padre! Aiuto! – urlò il poveretto.

Harry Berley in pochi minuti giunse presso l'albero, esclamando:

– Sciagurato! Cos'hai fatto! È così che dimentichi tuo padre e tua madre?

– Perdono, padre – rispose il ragazzo, piangendo. – Non ti lascerò più, te lo giuro.

– Sei di già guarito, John, dalla tua smania pei viaggi?

– Sono pentito della scappata. Gl'indiani mi volevano uccidere.

– Ringrazia Iddio che quegl'indiani erano miei amici mandati in cerca di te. Sono contento che ti abbiano fatto passare quel brutto quarto d'ora. Spero che dopo simile lezione non ti salterà più il ticchio di abbandonare la casa paterna. Se vorrai fare l'esploratore, aspetta almeno di essere adulto, monello.

John fece il suo ritorno al villaggio fra le più grasse risate degli abitanti.

Da quel giorno non parlò più né di avventure, né di esplorazioni. Si vede però che l'aveva nel sangue la smania dei viaggi, poiché a vent'anni partiva per la California, facendo una rapida fortuna in quelle miniere d'oro.