I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Nella pampa argentina

Nella pampa argentina

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L'aquila bianca Il bisonte nero

NELLA PAMPA ARGENTINA


La pampa! Questo nome non riuscirà certamente nuovo a voi miei giovani lettori, e chi sa quante volte avrete sognato quelle meravigliose pianure d'erbe gigantesche che coprono le ultime parti dell'America del Sud, ricche d'indomiti cavalli, scorrazzanti in piena libertà, di struzzi, di guanachi, di lupi rossi e feroci giaguari.

Infatti, le pampas, che si estendono verso le frontiere della Repubblica Argentina, occupando tutta l'intera regione della Patagonia, sarebbero il paradiso dei cacciatori se non vi fosse... l'indiano.

Come dissi sono pianure sconfinate, coperte da erbe altissime, di varie specie, mescolate a fiori che profumano straordinariamente l'aria, e dove milioni di buoi e di pecore troverebbero pascoli eccellenti.

Sono così estese che bisogna camminare settimane e settimane prima di giungere a qualche altura o a qualche fiume.

Gli alberi vi sono rari: non crescono che erbe e poi erbe ancora e sempre erbe che muoiono per venire subito surrogate da altre, tanto è maravigliosa la feracità di quel suolo. Fino a pochi anni or sono, i soli padroni delle pampas erano gl'indiani, individui ferocissimi, nemici dichiarati degli uomini bianchi, sempre in armi e sempre pronti al saccheggio.

Erano così arditi che osavano valicare le frontiere della Repubblica Argentina per piombare sui villaggi, uccidere gli uomini, rapire le donne ed i ragazzi e bruciare le fattorie che pure erano costate tante fatiche e tanti sacrifizi ai loro disgraziati proprietari.

Sconfitti dalle truppe repubblicane, da qualche anno si sono ritirati nei deserti del sud, verso la Patagonia, da dove però ancora di quando in quando irrompono per commettere stragi, incendi e devastazioni.

In questi ultimi tempi, il governo argentino, per tenere in freno quegli audaci predoni, ha ceduto quelle stupende pianure ai coloni, assegnando loro gratuitamente le terre e promettendo aiuti contro quel terribili nemici.

Gl'italiani, numerosissimi nella Repubblica, sono stati i primi ad accorrere, fondando su quelle pampas buon numero di villaggi, che oggi sono diventati popolosi e anche ricchissimi, essendo quelle terre atte alle più svariate produzioni.

Ogni anno si avanzano sempre più verso la Patagonia, per nulla spaventati dalle frequenti invasioni degli uomini rossi, aggiungendo nuovi campi a quelli già dissodati.

Alcuni anni or sono, subito dopo la cessione di quelle terre agli emigranti europei, una famiglia italiana, sbarcata di recente nella Repubblica Argentina, aveva deciso di recarsi nella pampa di Mendoza, che si diceva sgombra dagl'indiani.

La famiglia si componeva del padre, un bravo coltivatore della Sicilia, che non aveva avuto fortuna in patria, della madre, una vigorosa ed intraprendente massaia, e di tre figliuoli, il maggiore dei quali aveva già raggiunto i diciott'anni ed il minore i dodici.

Tutti avevano accettato con entusiasmo l'invito di recarsi in quelle pianure maravigliose per fondarvi la prima fattoria italiana.

Da un ricco argentino avevano ottenuto un carro, alcune paia di buoi, trenta montoni, armi, attrezzi rurali e sementi, e dal governo il permesso di prendersi quanta terra avessero potuto coltivare.

Una vera cuccagna. È bensì vero che potevano venire sorpresi, al pari di tanti altri, dagl'indiani, ma compar Tommaso, che era stato bersagliere e che aveva fatto alle fucilate contro gli austriaci nella campagna di Tirolo con Garibaldi e che aveva tre bravi e robusti figli, non si era dato gran pensiero per quei predoni.

– Beh! – aveva detto alla moglie, che era più prudente. – Se verranno, li prenderemo a schioppettate.

Cinque giorni dopo giungevano nel luogo a loro assegnato dal governo argentino. Era il centro d'una pianura che aveva una estensione di parecchie diecine di leghe, coperta di erbe altissime e con alcuni ombù, alberi di dimensioni straordinarie che dovevano fornire legna in abbondanza per un gran numero di anni.

A breve distanza scorreva un fiumicello, un affluente del Rio Negro o dell'Eldorado, quindi l'acqua non doveva mancare alla futura colonia.

Quella pianura pareva che non fosse stata mai abitata da alcun essere umano.

Vi abbondava, invece, la selvaggina.

Carlo, il primogenito, cacciatore appassionato, aveva veduto fuggire, non senza commozione, parecchi struzzi un po' più piccoli di quelli africani e con le piume nere invece che bianche; dei guanachi, animali somiglianti ai daini, un po' più grossi e che forniscono eccellenti costolette; lupi rossi, volpi e aveva trovato anche abbondanti uccelli.

I pappagalli, poi, volavano a schiere fra i rami degli ombù, chiacchierando giocondamente.

– Questo è un paradiso – disse al padre.

– Sì, Carlo – rispose Tommaso. – Noi vi staremo a maraviglia e in pochi anni faremo fortuna.

– Se non vengono gl'indiani – osservò la massaia. – Io ho paura di quegli uomini rossi, che si dice siano crudelissimi.

– Non pensare a loro, moglie – rispose Tommaso. – Noi cingeremo la nostra fattoria d'un solido steccato e poi abbiamo armi e munizioni ed io sono ancora un buon bersagliere.

Il domani tutti, anche il giovane Tonino, l'ultimo dei tre figli, si mettevano al lavoro per erigere la fattoria, la quale doveva essere solidissima per potere resistere sia agli assalti degl'indiani, sia agli uragani che scoppiano violentissimi in quelle vaste pianure.

I materiali furono forniti da uno degli ombù, atterrato dopo vari giorni di lavoro accanito, essendo grandissimo.

Fu costruita una comoda casetta divisa in quattro stanze, poi furono innalzate parecchie tettoie, destinate ai buoi, alle pecore ed ai raccolti, un pollaio, quindi il tutto fu cinto da una palizzata alta tre metri per impedire ai nemici di entrare, dato il caso che si fossero mostrati.

Terminati quei diversi lavori, Tommaso ed i figli incominciarono a dissodare le terre vicine, mentre la massaia si occupava dei polli e degli animali.

Bruciate le erbe e raffreddatosi il suolo, i coloni cominciarono a seminare granaglie, alberi fruttiferi, cotone e si prepararono anche un orticello, seminandovi erbaggi.

Tre mesi dopo la famiglia si era perfettamente accasata e i semi avevano cominciato a spuntare. Nessuno pareva più felice di quella famiglia perduta nelle pampas. Il padre si occupava dei campi, aiutato dai due figli minori; il primogenito, spirito irrequieto, scorrazzava le praterie, inseguendo la selvaggina sempre abbondante; la brava massaia curava i suoi polli e conduceva al pascolo l'armento. Chi poteva essere più felice?

Le biade, intanto, crescevano a vista d'occhio su quella terra vergine, ricca d'umori e anche l'orto prosperava maravigliosamente, producendo cavoli, rape, carote, patate e zucche d'inverosimile grossezza.

Tra pochi mesi l'abbondanza avrebbe regnato nella casa del bravo colono.

Ahimè! Quella felicità non doveva durare molto. I coloni avevano dimenticato gl'indiani, quei selvaggi figli della pampa, sempre in agguato contro gli stranieri. Erano trascorsi sei mesi e le biade cominciavano a biondeggiare, promettendo un copioso raccolto, quando un giorno Tommaso vide ritornare a casa Carlo trafelato e col viso sconvolto.

– Padre, – disse il giovanotto, – ho veduto un uomo nascosto fra gli alberi che costeggiano il fiume.

– Qualche altro colono? – chiese Tommaso.

– No, padre, era un uomo brutto con la pelle color del mattone, il volto coperto di tatuaggi e la testa ornata di piume.

– Un indiano? – chiese il colono, spaventato.

– Sì, doveva essere un indiano.

– Era armato?

– Aveva una lunga lancia.

– E che cosa faceva? – chiese Tommaso sempre più allarmato.

– Mi pareva che spiasse la nostra casa. Quando s'è accorto che io lo seguivo con gli sguardi, è montato su un cavallo che teneva nascosto fra gli alberi ed è fuggito a scavezzacollo.

– Silenzio, non dire nulla a tua madre – disse Tommaso. – Prepareremo le armi e ci terremo in guardia.

– Se andassimo a cercarlo e lo facessimo prigioniero?

– Lo cercheremo, Carlo.

Essendo prossimo il tramonto, divisarono di recarsi al fiume il domani.

Quella notte non dormirono.

La paura di venire sorpresi tenne svegliati entrambi, anzi Carlo, maggiormente inquieto, parecchie volte si alzò per vedere se i temuti nemici si mostravano.

La notte, invece, contrariamente alle loro previsioni, trascorse tranquilla.

Nessun indiano comparve nella sconfinata pianura. Il domani il padre e Carlo, dopo d'aver raccomandato ai due giovani di non allontanarsi dalla fattoria e di vegliare sulla loro madre, si diressero verso il fiume con la segreta speranza di ritrovare l'indiano.

La mattinata era bellissima. Il sole splendeva superbamente ed una fresca brezza soffiava dalla lontana catena delle Cordigliere, facendo piegare le alte cime delle erbe e sussurrare le biade già mature.

Numerose bande d'uccelli volavano per la pianura, schiamazzando e gli struzzi fuggivano disordinatamente assieme a non pochi guanachi.

Tommaso e il giovane cacciatore, dopo d'aver fatto il giro del loro possedimento per paura che qualche indiano si trovasse nei dintorni, si diressero verso il fiume.

– Mi condurrai dove hai veduto l'indiano – disse il padre a Carlo.

– Me lo ricordo il luogo – rispose questi. – Stava nascosto in mezzo ad una macchia di carrubi selvatici.

Dopo mezz'ora giungevano sulla riva del fiume, che era un corso d'acqua poco largo ed invece molto profondo.

Tommaso ed il figlio, armati i fucili, si cacciarono fra le piante, avanzandosi con precauzione e senza far rumore, temendo di cadere in un'imboscata. Carlo condusse il padre in mezzo alla macchia dei carrubi e gli fece osservare delle tracce lasciate sul terreno umido.

– Sono di piedi nudi – gli disse. – Le vedi, padre?

– Sì, Carlo – rispose il colono.

– E qui vi sono altre tracce.

– Vedo – rispose Tommaso, le cui inquietudini aumentavano. – Frughiamo queste macchie.

Si erano internati fra i carrubi ed i cespugli che in quel luogo erano molto folti, procedendo sempre con le maggiori cautele, e fermandosi di quando in quando per ascoltare.

Ad un tratto udirono un nitrito sonoro che partiva dal mezzo d'una macchia più fitta delle altre.

Entrambi si erano fermati, preparando i fucili non essendo ben certi se si trattava d'un cavallo selvaggio, animali molto numerosi anche oggidì, nella pampa patagone.

D'improvviso udirono in alto sibili acuti, poi si sentirono cadere addosso delle corde che imprigionarono strettamente le loro braccia.

Erano i lazos scagliati da mani invisibili, con quell'abilità che è propria degl'indiani.

I due lacci li avevano imprigionati così bene, da non poter più far uso dei fucili.

Non s'erano ancora rimessi dal loro stupore che si sentirono atterrare, poi trascinare vertiginosamente attraverso le macchie.

Dinanzi a loro galoppavano due indiani d'alta statura, quasi nudi, con la testa adorna di penne di pappagallo e la pelle dipinta in azzurro e in bianco.

Quella corsa durò alcuni minuti, poi i due indiani fermarono i cavalli, e tenendo sempre i lazos tesi s'accostarono a Tommaso ed a Carlo, impugnando lunghe lance.

– Se vi muovete vi uccidiamo – dissero in cattivo spagnolo, lingua che i due coloni cominciavano già a comprendere.

Quella minaccia era affatto inutile, perché i due poveri coloni avevano ormai perduto i fucili e si trovavano tutti intontiti da quella fulminea corsa.

Quasi subito altri quattro indiani, montati su splendidi cavalli selvaggi dalle lunghe criniere, erano comparsi, circondando i due prigionieri.

– Lasciate almeno la vita a mio figlio – disse Tommaso, il quale si credeva perduto.

Gl'indiani erano scesi da cavallo e con alcune corde avevano legato solidamente i due prigionieri, poi uno di loro, il più vecchio, un brutto ceffo dall'aspetto feroce, disse:

– Vi condurremo nella nostra tribù. Abbiamo bisogno di schiavi e voi siete abbastanza robusti per macinare il miglio del capo.

Li gettarono su un robusto cavallo, legandoli alla sella come fossero due sacchi di farina, poi il drappello si mise in viaggio verso il sud.

Vedendo la direzione che prendevano, Tommaso aveva mandato un lungo sospiro di sollievo.

– Non osano assalire la nostra fattoria – disse a Carlo. – Forse credono che vi siano più difensori di quanti realmente ve ne sono. Se non ci uccidono, penseremo più tardi a fuggire. Se ci chiedono quante persone vi sono nella fattoria, esageriamo il numero. Cerchiamo almeno di salvare i nostri cari.

– Povera madre! – sospirò Carlo. – Che cosa dirà non vedendoci più ritornare?

– S'immaginerà ciò che ci è accaduto e farà il possibile per farci liberare. Tua madre è una donna energica e chiederà soccorsi al ricco argentino.

Quella corsa attraverso la sconfinata prateria durò fino al tramonto, poi gl'indiani entrarono in un villaggio formato da una quarantina di tende di pelle, una tolderia, come chiamano quegli accampamenti.

Carlo e suo padre furono sbarazzati d'una parte dei loro legami e condotti sotto una vecchia tenda dinanzi alla quale si erano già messi in sentinella quattro guerrieri muniti di lance e di coltelli.

Nessuno s'era preso la cura di dare a loro da mangiare, ma già i due poveri prigionieri erano tanto angosciati da non sentirne il bisogno.

Il domani un indiano entrava nella tenda, tenendo in mano un ferro taglientissimo ed una scatola. Era il più brutto che avessero veduto fino allora. Il suo viso era tutto tatuato, il suo petto dipinto a mille colori e portava sulle spalle un mantello di pelle di guanaco adorno di rospi secchi, di denti di giaguari, di pelli di serpenti e di sassolini verdi.

Doveva essere lo stregone della tribù.

– Che venga a ucciderci, padre? – chiese Carlo, con terrore.

– Non lo credo – rispose Tommaso, sforzandosi di mostrarsi tranquillo.

Lo stregone denudò i loro piedi, poi con quel ferro bene arrotato, fece sotto le loro piante due incisioni incrociate, in modo però da non intaccare le carni e vi mise sopra una specie di pomata che teneva nella scatola.

Quell'operazione non era stata dolorosa.

Subito i due prigionieri furono slegati e condotti sotto una tenda dove vi era una specie di mulino a mano e del miglio.

– Lavorate – disse l'indiano che li aveva condotti. – Se prima di questa sera non avrete finito, non vi daremo da mangiare.

I due disgraziati si misero al lavoro, incoraggiandosi uno con l'altro sotto la sorveglianza d'una vecchia indiana armata d'un lungo scudiscio.

Quando si arrestavano per prendere fiato, l'inesorabile strega accarezzava le loro spalle a suon di scudisciate, distribuite con un'abbondanza straordinaria.

La sera furono ricondotti nella loro tenda senza essere legati, facendo a loro comprendere che nessuno avrebbe impedito di uscire, qualora lo avessero desiderato.

– Padre, approfittiamo per fuggire – disse Carlo.

– Non fidiamoci, figlio – rispose Tommaso. – Per qualche motivo devono averci fatte queste incisioni.

– Proviamo, padre.

– Sì, questa notte.

Si sdraiarono sulla paglia e finsero di dormire in attesa che anche gl'indiani si ritirassero nelle loro tende e russassero.

Verso la mezzanotte provarono a uscire. Nessuno indiano vegliava dinanzi alla loro tenda ed un silenzio profondo regnava nel villaggio.

Tutti dormivano profondamente.

– Padre – disse Carlo. – Andiamocene e subito. Prima che spunti l'alba saremo molto lontani e domani sera giungeremo nella fattoria.

– Potremo camminare tanto? Io ho udito a raccontare che gl'indiani, per impedire ai loro prigionieri di fuggire, fanno sotto i piedi queste incisioni.

– Eppure quelle che mi hanno fatto non mi producono dolore.

– Sei deciso, Carlo?

– Sì, padre.

– Allora andiamo e confidiamo in Dio.

Uscirono silenziosamente dalla tenda e, assicuratisi nuovamente che nessuno vegliava, attraversarono l'accampamento e raggiunsero felicemente la prateria.

Nessuno li aveva seguiti, quindi potevano sperare di non venire sorpresi.

L'immensa prateria pareva deserta. Non si vedeva nemmeno un lupo rosso, animali che abbondano nella pampa e che sovente si radunano in bande numerosissime per dare la caccia alla selvaggina.

Solamente i grossi grilli verdi cantavano, nascosti fra le folte erbe.

Tommaso e Carlo fuggivano a rompicollo, non avendo che un solo pensiero; quello di frapporre il maggior spazio possibile fra loro ed il villaggio indiano.

Di quando in quando si voltavano temendo di veder apparire sull'orizzonte qualche cavaliere lanciato sulle loro orme.

Avevano già percorso due o tre miglia, quando cominciarono a provare ai piedi degli acuti dolori, i quali diventavano di momento in momento più insopportabili.

Le incisioni fatte dallo stregone si erano aperte e sanguinavano.

– Padre, – disse Carlo ad un certo momento e con accento spaventato, – io non ne posso più. I miei piedi sono rovinati.

– Quello che temevo è avvenuto – rispose il colono. – Quei miserabili sapevano che con queste incisioni non saremmo potuti andare molto lontani.

– Che cosa facciamo, padre?

– Andare innanzi fino a che cadremo. Se gl'indiani ci prendono non so se ci risparmieranno.

– All'alba li avremo egualmente addosso.

– Quando il sole spunterà ci nasconderemo, figlio.

– E non troveranno le nostre orme?

– Vi dev'essere un corso d'acqua da queste parti – disse Tommaso. – Lo attraverseremo e poi lo rimonteremo per qualche tratto, onde far perdere le tracce. Un ultimo sforzo, poi ci riposeremo.

Fecero appello a tutte le loro forze e si misero in cerca del fiumicello.

I dolori aumentavano sempre, diventando assolutamente insopportabili. Il povero Carlo, specialmente, non si reggeva più e gemeva.

Fortunatamente l'alba era ancora lontana e nessun indiano si vedeva galoppare attraverso la pampa. Trascinandosi con stenti infiniti, percorsero un altro chilometro, impiegando un paio d'ore, poi stramazzarono uno accanto all'altro, senza essere più capaci di muoversi.

I loro piedi, straordinariamente gonfi, non potevano più servirli.

– È finita – disse il povero Tommaso. – Mia povera moglie! Miei poveri figli! Non vi vedrò più mai.

Ad un tratto, in lontananza scoppiarono delle urla terribili.

L'alba era sorta e gl'indiani, accortisi della scomparsa dei prigionieri, si erano messi in campagna per raggiungerli.

Una ventina di cavalieri, armati di lance e di lazos, erano comparsi per le alte erbe.

Dovevano aver scoperto le orme dei fuggiaschi perché tenevano la medesima direzione.

– Padre, – disse Carlo, – vengono.

– Fuggiamo, figlio – rispose Tommaso.

– È impossibile!

– Ci uccideranno se ci trovano qui!

Si alzarono e si misero a correre, cercando di soffocare gli atroci dolori che causavano loro le ferite dei piedi.

Gl'indiani li avevano già scorti e galoppavano furiosamente, agitando minacciosamente le armi.

Già non erano lontani che poche centinaia di metri quando, in mezzo alle alte erbe, i due fuggiaschi udirono improvvisamente squillare delle trombe.

Dei soldati suonavano la carica!

Un momento dopo quaranta cavalieri argentini uscivano da una macchia di carrubi e si precipitavano incontro agl'indiani con la lancia in resta.

Alla loro testa cavalcava un giovanotto di quindici anni, armato di un fucile Vetterli.

Tommaso e Carlo l'avevano subito riconosciuto: era Alfredo, il secondogenito.

Gl'indiani, vedendo i soldati, avevano voltato i cavalli, fuggendo rapidamente in direzione del loro accampamento.

Intanto, Alfredo e l'ufficiale che comandava il drappello erano scesi da cavallo e si erano affrettati ad accorrere verso Tommaso e Carlo.

– Salvi! Salvi! – gridava Alfredo. – Padre, fratello! Credevo di non rivedervi più mai!

Il bravo ragazzo, dopo i primi trasporti di gioia, narrò loro per quale caso era giunto in così buon punto.

Non vedendoli più tornare alla fattoria, s'era immaginato che fossero stati sorpresi dagl'indiani e portati nella pampa meridionale.

Col consenso della madre, era salito subito a cavallo per andare a chiedere soccorsi in un villaggio di coloni, situato sette miglia più a settentrione, presso la frontiera argentina.

Per una fortunata combinazione proprio in quel giorno era giunto al villaggio quel drappello di soldati, incaricato di eseguire delle ricognizioni nella pampa.

L'ufficiale, saputo che i due coloni erano stati rapiti, si era messo tosto a disposizione del ragazzo, risoluto a dare una buona lezione agl'indiani.

Come abbiamo veduto era giunto in buon punto per sottrarre a quei feroci predoni Tommaso e Carlo.

Dispersi i nemici, i cavalieri fecero subito ritorno alla fattoria, conducendo con loro i due salvati, i quali poterono finalmente riabbracciare i loro cari.

Tommaso non ha punto abbandonato la sua fattoria, a malgrado quella pericolosa avventura.

Oggi, anzi, dopo parecchi anni di lavoro il suo possedimento è uno dei più belli e dei più ricchi della pampa argentina e viene citato come il più produttivo.

Dobbiamo però dire che gl'indiani l'hanno lasciato sempre tranquillo, dopo la comparsa dei soldati argentini.