I racconti della Bibliotechina Aurea Illustrata/Le tigri del mare

Le tigri del mare

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Il vascello fantasma Il negriero

LE TIGRI DEL MARE


Le tigri del mare!... è con questo nome che i marinai chiamano i pescicani, i più terribili e feroci fra i nemici che i naviganti incontrano sugli oceani.

Se le tigri delle jungle indiane sono le fiere più sanguinose della terra, i pescicani sono i più tremendi abitatori delle acque.

Nessuno li supera e dinanzi a loro i formidabili capodogli, che hanno bocche così ampie da poter stritolare ed inghiottire d'un solo colpo anche una scialuppa montata da una dozzina d'uomini, possono chiamarsi agnelli.

S'incontrano dappertutto, sia nei mari interni, sia sugli sconfinati oceani e sempre là dove c'è probabilità di poter divorare carne umana.

A malgrado la caccia accanita che dànno loro marinai e pescatori, non scemano affatto e sfidano intrepidamente le palle delle carabine e i colpi di rampone.

Non v'è nave che non ne abbia sempre almeno un paio dietro la poppa. Si tengono quasi sempre sommersi, non mostrando che la loro pinna dorsale; ma quando il cuoco di bordo getta in mare gli avanzi della tavola, eccoli comparire presso il timone, spalancare le loro enormi bocche ed inghiottire, d'un colpo solo, tutto quello che cade in mare.

Scatole di latta da conserve, bottiglie, ciabatte vecchie, stracci che hanno servito a pulire le pentole, pezzi di corda incatramata, tutto passa attraverso a quelle gole non mai stanche di divorare.

Che cada un uomo ed eccoli precipitarsi sulla preda umana come le tigri.

Con pochi colpi di coda piombano sul disgraziato, aprono le terribili mascelle armate di una triplice fila di denti mobili, piatti, duri come l'acciaio e crac... L'uomo è scomparso in due soli bocconi.

Veloci nuotatori, forniti d'armi potenti, impetuosi, insaziabili, voracissimi, perseguitano accanitamente la preda con la bocca spalancata e quasi sempre la raggiungono.

Anche la loro forza è veramente straordinaria e la loro coda è così potente che possono sollevarsi parecchi metri fuori dall'acqua.

Si sono veduti anzi dei pescicani balzare fino ai pennoni di trinchetto per addentare un cadavere fatto sospendere colà da un capitano negriero.

Ora che vi ho fatto conoscere la ferocia di queste tigri del mare, vi voglio narrare un terribile avvenimento, accaduto alcuni anni or sono nel golfo del Messico, e che ho raccolto sul luogo, durante uno dei miei viaggi nell'America centrale.

È uno dei più terribili che abbia registrato la storia marinaresca e perciò voglio narrarlo ai miei piccoli lettori, avidi di grandi commozioni.

Se ben mi ricordo, doveva essere verso il finire del 1889.

Una grossa nave spagnola, la Girolda, aveva lasciato da alcune settimane i porti del Brasile diretta a Vera-Cruz.

Era uno dei più bei velieri della marina transatlantica, montato da un equipaggio scelto, al comando del capitano don Alvaro Crey, un lupo di mare, che aveva fatto non so quante volte il giro del mondo.

Fino dalla sua entrata nel golfo del Messico, i marinai avevano osservato, non senza una viva impressione, che la nave era scortata con accanimento da uno stuolo di pescicani della specie più feroce, chiamati charcamias.

Erano almeno una dozzina e così voraci, che quando il cuoco di bordo gettava in mare gli avanzi della cucina, balzavano perfino sulla murata di poppa per disputarseli.

Quel numero veramente straordinario di squali, non aveva mancato di impressionare profondamente l'equipaggio, perché dovete sapere che quei feroci abitanti degli oceani pare che s'accorgano quando una disgrazia sta per accadere. Si direbbe che la sentano da lontano e allora non lasciano mai le navi perseguitate dalla fatalità.

Così la Girolda, scortata da quella truppa feroce, sempre pronta a divorare in due bocconi gli uomini che potevano cadere in acqua, era giunta felicemente nel golfo del Messico.

Fino allora, ossia da quando aveva lasciato le coste del Brasile, nessuna disgrazia era accaduta a bordo.

Anche il mare s'era conservato calmo ed i venti quasi sempre favorevoli. Ecco però che un brutto giorno, quando già la Girolda si trovava presso le spiagge di Portorico, annebbiarsi il cielo e l'aria diventare d'una trasparenza così straordinaria, che i marinai potevano distinguere perfino le lontanissime montagne di Cuba.

– Brutto segno – aveva detto il capitano, che era praticissimo del golfo del Messico. – Sta per iscoppiare qualche formidabile tempesta.

Il lupo di mare aveva ragione d'impensierirsi.

La Girolda si trovava in paraggi eccessivamente pericolosi e che hanno una fama sinistra per la violenza furiosa dei loro uragani.

Le Antille sono le più splendide isole del mondo e sono anche le più disgraziate.

Di quando in quando sono percosse da cicloni di una rabbia incredibile, che devastano le spiagge e le terre interne, abbattendo le ricche piantagioni di zucchero, di caffè e di cacao e distruggendo sovente intere borgate.

I venti colà acquistano una tale forza, da muovere perfino le grosse artiglierie che sono poste a difesa dei porti.

Le onde, poi, alte come montagne, si scagliano contro le coste con tanto impeto da strappare pezzi enormi di scogliere. Guai allora alla nave che si trova fra quelle masse liquide che i venti scatenati sospingono da levante a ponente.

Il capitano della Girolda, che aveva provato più d'un ciclone durante la sua lunga carriera marittima, fece chiamare il mastro, un vecchio dalla lunga barba bianca, che aveva intera conoscenza del golfo e i cui consigli erano preziosi.

– Cosa ne pensi tu, Cardal? – gli chiese. – Questa trasparenza dell'aria mi dà molto pensiero.

– Si prepara un ciclone, capitano – rispose il mastro, dopo d'aver guardato per qualche istante il cielo. – Me ne intendo io di quei pericolosi colpi di vento.

– Cosa mi consiglieresti di fare?

– Chiudere buona parte delle vele e cercare un rifugio. Abbiamo Santiago di Cuba a sessanta miglia. Un porto difficile da raggiungere; ma il più sicuro di tutto il golfo del Messico.

– Andiamo a Santiago, allora, e speriamo di giungervi prima che l'uragano ci sorprenda – concluse il capitano.

Il vecchio Cardal fece col capo un gesto dubbioso, poi, additando i pescicani che in quel momento apparivano a galla, mostrando le loro enormi gole, brontolò:

– Temo che i loro denti pregustino già la carne umana.

La Girolda aveva cambiato rotta, fuggendo le coste di Portorico che non offrivano in quei luoghi rifugio alcuno e si era diretta verso Cuba, le cui montagne, quantunque lontanissime, si scorgevano ancora mercé quell'insolita trasparenza dell'aria.

La povera nave correva, correva, ansiosa di mettersi al sicuro, e anche l'uragano s'avanzava veloce dalla parte dell'Atlantico.

Alla sera mancavano ancora trenta miglia per giungere a Cuba, e già il cielo si era rapidamente coperto di nuvoloni neri come la pece e gravidi di pioggia, mentre il vento si tramutava in raffiche così potenti da curvare gli alti alberi della nave.

Alle dieci l'oscurità era così profonda che gli uomini del cassero non riuscivano a distinguere quelli che manovravano al di là dell'albero di maestra. Il mare muggiva cupamente e avventava onde mostruose contro la nave, sollevandola da poppa a prora con mille scricchiolìi ed il vento ruggiva tremendo fra i cordami e le vele.

Il capitano si era collocato sul cassero, presso il timone, guardando la bussola, mentre il vecchio Cardal teneva la ruota.

Di quando in quando si guardavano l'un l'altro, interrogandosi con ansietà.

– Il ciclone s'avvicina, è vero, vecchio mio? – diceva il capitano.

– Sì, – rispondeva il mastro, – ci corre addosso.

– Potremo resistere al suo assalto?

– La Girolda è buona veliera, ma...

– Non sei tranquillo, Cardal.

– È vero, comandante.

– E le coste di Cuba non si vedono ancora!

– E Santiago ha un canale troppo pericoloso per imboccarlo con una tempesta alle spalle.

– Confidiamo in Dio, Cardal.

– E nella robustezza della nostra nave.

Alle undici vividi lampi illuminavano le tempestose nubi ed i tuoni rumoreggiavano con un crescendo spaventevole.

La Girolda, urtata da tutte le parti dalle montagne d'acqua che l'assalivano, balzava disordinatamente, ora librandosi sulle cime delle creste ed ora scendendo negli avvallamenti.

L'acqua correva per la coperta tutto travolgendo nella sua foga: marinai, gomene, barili e casse.

Ad ogni istante un'onda si sfasciava sulle murate e balzava sulla tolda con un fracasso assordante.

Il capitano ed il vecchio mastro facevano sforzi disperati per mantenere la Girolda sulla buona rotta e non sempre vi riuscivano.

Trascinata dal vento che soffiava con rabbia incredibile e travolta dalle onde, andava a casaccio più non obbedendo al timone.

Scartava di frequente, si rovesciava ora sull'uno ed ora sull'altro fianco ed imbarcava acqua in maggior copia.

Lo spettacolo era spaventevole e la paura cominciava ad invadere tutti, specialmente quando, alla luce dei lampi, vedevano guizzare, fra le onde tumultuose, l'orda dei feroci squali.

A mezzanotte, quando maggiore era la rabbia degli elementi scatenati, a prora si udì una voce a gridare:

– Terra dinanzi a noi!...

La terra, in quel momento, con quell'uragano che trascinava la nave, non era più la salvezza sospirata.

Era un grave pericolo; forse la morte.

Il capitano aveva subito dato il comando di virare di bordo, e proprio in quel momento si udì il vecchio Cardal mandare un grido disperato che annunciava una sciagura certa.

Il comandante era tornato precipitosamente a poppa.

– Cos'hai, Cardal? – chiese.

– Il timone non funziona più – rispose il vecchio con accento di terrore.

– Si è guastata la ruota?

– Io credo, invece, che le onde abbiano spezzato tutto.

– Allora siamo perduti! – esclamò il capitano. – Le coste di Cuba stanno dinanzi a noi.

– Fate ammainare le vele, comandante! – gridò Cardal.

– Non ci risparmieranno l'urto.

– Almeno sarà...

Non aveva finito la frase, quando, verso prora, si udirono dei muggiti spaventevoli.

Pareva che le onde s'infrangessero contro delle scogliere.

La Girolda, intanto, priva d'ogni direzione e semicoricata sul tribordo, andava, attraverso i cavalloni, scricchiolando lugubremente.

Pareva che si lagnasse della sua imminente fine.

Il comandante e Cardal si erano precipitati verso prora, mentre i marinai, perduta la calma, correvano pel ponte come se fossero impazziti.

Alla luce di un lampo, i due lupi di mare avevano veduto alcune file di scogli contro i quali si rompevano le onde con rabbia estrema.

Dietro quelle linee, ad una distanza di due o tre miglia, avevano potuto distinguere la costa di Cuba.

– Siamo perduti! – esclamò il capitano che era diventato pallido come un morto.

– Sì, per la Girolda è finita – rispose il mastro. – Fra pochi minuti si sventrerà fra quelle rocce.

– Non si può tentare alcuna manovra per ritardare almeno la catastrofe?

– Nessuna, capitano, e poi l'equipaggio più non obbedirebbe.

– Prepariamoci all'urto tremendo.

– E le scialuppe?

– Non pensiamoci, Cardal. Queste onde le subisserebbero in un momento. Cerchiamo intanto di far ammainare le vele per attutire l'urto.

Fu subito dato il comando e, come già Cardal aveva previsto, nessuno rispose all'appello del comandante.

I marinai, pazzi di terrore, non obbedivano più. S'affannavano invece attorno alle scialuppe per metterle in acqua nel momento del naufragio, quantunque fossero anche loro convinti che non avrebbero potuto resistere alla furia delle onde.

A mezzanotte e un quarto la Girolda, spinta dal vento che aumentava sempre, non si trovava che a poche centinaia di metri dalle scogliere.

Le onde urlavano attorno alla povera nave, condannata ormai irremissibilmente e pareva che volessero demolirla prima che si sfondasse sulle rocce.

Il capitano ed il mastro, dall'alto del cassero, guardavano con spavento la costa cubana, attendendo, con angoscia, la catastrofe.

Pochi minuti dopo la nave, sollevata da un'onda mostruosa, piombava sulla prima scogliera.

L'urto fu così tremendo che gli alberi di trinchetto ed il bompresso caddero.

Subito l'acqua invase la coperta, mentre i fianchi della povera nave si sfracellavano sulle scogliere con un rombo assordante.

Attraverso le onde che si precipitavano sulla tolda, il capitano ed il mastro videro confusamente i marinai aggrappati attorno alle scialuppe.

– Non lasciate la nave! – gridarono entrambi. – Aspettate l'alba!

Voce sprecata.

Un momento dopo una prima scialuppa si staccava dal tribordo carica di uomini, poi subito una seconda.

Fra i muggiti delle onde e i sibili del vento, il capitano e Cardal udirono degli urli disperati, poi dei cozzi.

Cos'era avvenuto? Le due scialuppe erano state sfracellate contro la scogliera o erano riuscite a prendere il largo?

Il vecchio Cardal, a malgrado il pericolo che correva, aveva lasciato il cassero e si era spinto verso prora, tenendosi stretto alle murate per non farsi portar via dalle onde.

Quando tornò aveva i lineamenti sconvolti.

– Capitano! – esclamò con voce rotta. – Temo che quei disgraziati siano stati scagliati addosso alla scogliera e divorati dai pescicani che ci seguivano.

– Non hai veduto alcuno? – chiese il comandante, con angoscia.

– Sì, i pescicani i quali si contorcevano dinanzi alla scogliera.

– E non hai udito alcun grido?

– No, comandante.

– Hai veduto dei rottami sulle scogliere?

– L'oscurità mi ha impedito di accertarmene.

– I disgraziati sono annegati – disse il capitano, soffocando un singhiozzo.

– E noi forse li seguiremo – aggiunse il mastro.

– Ogni speranza non è ancora perduta, Cardal. La nave si è arenata profondamente e, se le onde non la demoliscono, noi potremo raggiungere le coste di Cuba.

– Su una zattera?

– Sì, Cardal. Intanto saliamo sulla coffa dell'albero di mezzana per non farci portare via dalle onde.

Il consiglio giungeva a tempo perché la nave si abbassava sempre più, come se affondasse in qualche letto di sabbia, e le onde spazzavano la coperta senza interruzione, tutto demolendo.

Il comandante ed il mastro aggrappatisi alle griselle ed approfittando di un momento di calma, raggiunsero felicemente la coffa, una specie di tavola semicircolare che si trova quasi alla metà degli alberi e che può servire di rifugio a quattro ed anche a sei persone.

Da quell'altezza lo spettacolo che offriva il mare era spaventevole.

Ondate enormi si accavallavano confusamente, inseguendosi, urtandosi e sfasciandosi e andavano a cozzare contro la povera nave e sulle scogliere.

La Girolda, ormai sfondata verso prora, si abbassava lentamente, addossandosi sempre più alle rocce.

Dai fianchi squarciati l'acqua entrava in gran copia, invadendo la stiva e da quelle aperture uscivano di quando in quando casse e barili formanti parte del carico.

Il capitano ed il mastro, aggrappati strettamente alle sartie, guardavano, con crescente angoscia, la nave, temendo di vederla sfasciarsi interamente da un momento all'altro.

L'albero che li sorreggeva ad ogni ondata tremava tutto come se dovesse schiantarsi. Già il pennone inferiore era stato strappato insieme con la vela e anche la randa era stata portata via.

La situazione dei due superstiti era estremamente precaria.

Da un momento all'altro potevano venire travolti insieme con l'albero e sfracellati sulle punte minacciose delle scogliere.

Verso le due del mattino la coperta della nave era già sott'acqua.

La Girolda affondava sempre più nel banco di sabbia, e le punte delle rocce e le onde la demolivano pezzo per pezzo.

Tutte le murate erano state strappate dalla furia dei marosi e solamente i due alberi resistevano ancora.

– Capitano – disse mastro Cardal. – La nostra ultima ora si avvicina. Noi raggiungeremo presto l'equipaggio che ci ha preceduti nella tomba.

– Non perdiamoci d'animo, vecchio Cardal – rispose il lupo di mare, il quale conservava ancora qualche illusione. – La nave s'insabbia sempre e resisterà alle onde.

– E come faremo poi a salvarci?

– I rottami non mancheranno.

– Ed i pescicani? Non li vedete, quei maledetti, nuotare sempre intorno alla nave? Guardate, vi sono tutti e si direbbe che non attendano che la caduta dell'albero per pascersi delle nostre carni.

Il mastro diceva il vero.

Alla luce dei lampi si vedevano sempre gli orribili squali nuotare attorno alla disgraziata nave e mostrare le loro enormi gole.

L'istinto li guidava e, dopo d'aver divorato i marinai, aspettavano pazientemente il momento di piantare i loro denti nei due ultimi superstiti.

Pareva che avessero compreso la terribile situazione in cui si trovavano quei due uomini.

Alcuni si erano lasciati portare sulla coperta già sommersa e s'aggiravano minacciosamente attorno all'albero, percuotendolo con le loro possenti code.

Ormai erano padroni della nave e potevano impedire la discesa ai due disgraziati naufraghi.

– Capitano – disse il vecchio, un po' prima che sorgesse l'alba. – Noi siamo condannati ad una certa morte.

– Non lo credo, Cardal – rispose il comandante. – La nave, quantunque sommersa, resisterà lungamente alla furia delle onde. Ho anche notato che il vento ha scemato di violenza e che il ciclone fugge verso il sud.

– E come faremo a raggiungere la costa di Cuba? I pescicani c'impediranno di costruire una zattera.

– Attenderemo qui il passaggio di qualche nave. Santiago non è molto distante.

– Voi avete dimenticato una cosa importantissima per noi – disse Cardal.

– Quale?

– Che se la nave sospirata tardasse, noi correremmo il pericolo di morire di fame, giacché non abbiamo nemmeno un pezzo di biscotto.

Il capitano aveva provato un brivido ed aveva lanciato uno sguardo disperato ai famelici squali.

Cardal aveva ragione. Cosa sarebbe accaduto dei due superstiti se nessuna nave si fosse recata a raccoglierli?

Come discendere per formare una zattera con quei feroci avversari diventati ormai padroni del ponte della nave?

Appena il capitano ed il mastro si fossero abbassati di pochi metri, i pescicani non avrebbero indugiato a farsi innanzi.

Anzi, molto probabilmente, si tenevano certi di avere, presto o tardi, quelle due prede umane.

Quando l'alba sorse, la situazione dei due naufraghi non era cambiata.

La nave, incastratasi fra le scogliere, non si era più mossa ed aveva resistito tenacemente all'impeto delle onde.

Era però tutta sommersa e non sporgevano che parte del cassero e i due alberi di mezzana e di maestra.

Appena la luce aumentò, il capitano e Cardal spinsero i loro sguardi verso le scogliere e non seppero frenare un gesto d'orrore. Le due scialuppe giacevano sventrate e capovolte fra le rocce e presso di loro si vedevano due corpi umani, privi delle gambe e delle braccia.

– I nostri disgraziati compagni sono stati tutti divorati dai pescicani! – esclamò il mastro, diventando pallido come un morto.

– È una morte che hanno voluta – rispose il capitano. – Se fossero rimasti a bordo e si fossero rifugiati sugli alberi, sarebbero ancora vivi.

– Ad attendere una morte forse più orribile, capitano.

– Non perdiamoci di coraggio, Cardal. Riconosci la costa che si vede verso l'ovest?

– Sì, capitano.

– Che laggiù si trovi Santiago?

– Verso il sud, al di là di quel promontorio aguzzo – rispose Cardal.

– Allora qualche nave comparirà presto o tardi. Vi è ancora la bandiera sulla punta della mezzana e segnaleremo la nostra situazione.

Intanto anche gli altri pescicani, lasciandosi trasportare dalle onde, le quali si mantenevano ancora fortissime, si erano radunati presso l'albero di mezzana, nuotandovi intorno.

Si contorcevano come se fossero impazienti di divorare i due naufraghi, mostrando ora i loro musi appiattiti, ora i loro dorsi color bruno cenere e ora i loro ventri argentati.

Le loro enormi bocche, semicircolari, si spalancavano e poi si richiudevano con sordo rumore, agitando le mascelle armate di denti terribili.

I loro occhi piccoli, quasi rotondi, con l'iride verde-oscuro e la pupilla azzurrognola, non si staccavano dalla coffa dell'albero di mezzana.

Spiavano ansiosamente le due prede umane, pronti a inghiottirle in due boccate.

Il capitano ed il mastro, rannicchiati sulla coffa, guardavano in direzione della costa di Cuba, sperando di scorgere qualche punto bianco o qualche nuvola di fumo che indicasse loro la presenza di qualche veliero o di un vapore.

Quanto erano lunghe quelle ore!...

E nulla appariva sul mare ancora burrascoso! Erano proprio destinati a morire di fame sull'albero od a lasciarsi cadere fra gli squali per abbreviare la loro lunga agonia?

No, la Provvidenza vegliava sui due naufraghi.

Erano le quattro del pomeriggio quando Cardal, che aveva la vista acutissima, scorse un punto biancastro che pareva radesse le coste di Cuba.

– Capitano! – esclamò con voce tuonante. – Una nave! Vedo una nave!

Il comandante si era alzato precipitosamente.

Un punto bianco s'avanzava dal sud e pareva si dirigesse precipitosamente verso la scogliera, sulla quale si era infranta la Girolda.

– Facciamo dei segnali! – gridò il comandante.

Cardal si arrampicò fino sulla punta dell'albero e, staccata la bandiera, l'annodò, legandola presso la coffa.

La nave s'accostava, correndo lunghe bordate. Era un bel brigantino, uscito forse da Santiago e diretto alle Piccole Antille.

Il suo equipaggio doveva avere già scorto quei due alberi emergenti dalle acque e correva per salvare i due naufraghi.

Un'ora dopo la nave giungeva a cinquecento metri dalla scogliera, bordeggiando lentamente.

I marinai facevano segnali con le bandiere ai quali rispondevano Cardal ed il comandante.

Una scialuppa fu messa in acqua, montata da sei uomini ed essendosi il mare calmato, si diresse velocemente verso la scogliera.

– Scendete – gridavano. – Siamo qui per salvarvi!

– Vi sono i pescicani! – risposero Cardal ed il capitano.

Fortunatamente i marinai erano armati di fucili.

Scorgendo i pescicani intorno all'albero, fecero alcune scariche, costringendoli a fuggire per la maggior parte feriti.

Dieci minuti dopo la scialuppa imbarcava i due naufraghi, conducendoli felicemente a bordo del brigantino.

Erano così sfiniti da non potersi quasi reggere; ma alcuni bicchieri di vecchio vino di Spagna bastarono a rimetterli in gambe.

Il domani Cardal ed il capitano sbarcavano a Santiago di Cuba.